Christian Raimo, procedimento disciplinare a scuola: “Dovrò andare con l’avvocato”

"Cosa bisogna fare con i neonazisti? Per me 
bisogna picchiarli". 

Queste parole pronunciate a L’Aria che Tira potrebbero costare caro al professore Christian Raimo che ora finisce sotto processo disciplinare a scuola, dove insegna. Dopo queste frasi in diretta, Raimo aveva anche criticato il ministro Valditara.

E così ora fa la vittima sui social: “C’è una notizia che mi riguarda, che sarebbe grottesca, ridicola, se non fosse forse grave, e un pò preoccupante. Mi è arrivata qualche giorno fa la notifica di un provvedimento disciplinare da parte dell’ufficio scolastico regionale, ossia del mio datore di lavoro, il ministero dell’istruzione e – sic – del merito. Il 21 maggio mi devo presentare alla sede nell’Usr- scrive Raimo sui social -. Ci andrò con un avvocato e il sostegno del sindacato, che per fortuna mi appoggiano pro bono, credendo che questa sia una battaglia almeno di libertà per tutti”.

La ragione di un questo avvio di procedimento disciplinare è “che avrei violato il codice etico che esiste per noi docenti dipendenti pubblici. Questi i due articoli, in particolare, che mi vengono contestati – sostiene -: l’articolo 10, che dice che ’Nei rapporti privati, comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, il dipendente non sfrutta, nè menziona la posizione che ricopre nell’amministrazione per ottenere utilità che non gli spettino e non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione.

E l’articolo 11-ter dello stesso codice ’con riferimento all’utilizzo dei mezzi di informazione e dei social-media, inoltre, dispone che ‘in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale”.

“Sempre la lettera – continua -dice: ’La condotta sopra richiamata costituisce di per sè illecito disciplinare, tenuto conto degli obblighi sopra richiamati; nello specifico, emergono atti non conformi alle responsabilità, ai doveri e alla correttezza inerenti alla funzione”. Insomma, prima usa parole che non sono per nulla idonee a un docente, poi frigna sui social.

Diritti dei consumatori disabili: la legge antidiscriminazione non basta (lavoce.info)

di

Le leggi antidiscriminazione possono apparire 
come un modo per garantire il diritto al servizio 
ai disabili nei paesi che non prevedono 
norme specifiche. 

Ma non è così. Perché la prova che la discriminazione sia avvenuta è a carico del consumatore.

Paese che vai, diritto del consumatore che trovi

Si può rifiutare il servizio a un cliente disabile? La domanda sottintende il contrasto tra il diritto di rifiutare il cliente e il diritto del cliente all’avere un servizio per cui è corrisposto il prezzo. Per esempio, nel 2019, a Rachel Hollins, una donna con una disabilità uditiva, è stato negato il suo diritto di essere servita in un fast food dell’Oklahoma, poiché servirla avrebbe richiesto troppo tempo in un momento del giorno particolarmente affollato.

Nel mondo vi sono diverse visioni riguardo alla libertà di rifiutare clienti paganti. I paesi anglosassoni tipicamente non dispongono di una legge che obblighi i negozi al dettaglio ad accettare ogni cliente pagante. Una tale normativa è presente in alcuni paesi, in particolare alcuni paesi europei e latinoamericani. Le origini del diritto, siano esse common law o civile, sembrano influenzare la presenza o l’assenza di tale diritto nei codici o nella giurisprudenza.

In alcuni paesi latinoamericani, come Panama (Ley 45 de 31 de Octubre de 2007, articulo 35) e Perù (Código de Protección al Consumidor, artículo 1.1 literal F), la legge sui consumatori protegge il “diritto di scegliere i beni e i servizi preferiti”.

L’implicazione naturale è che i dettaglianti in un determinato tempo e luogo non possono rifiutare il godimento di un bene che viene regolarmente pagato. Un esempio specifico è un pasto preparato dal tuo chef preferito nel ristorante vicino: il diritto del consumatore a consumare quel pasto è protetto.

In Italia, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps, Rd 18 giugno 1931, n. 773) stabilisce che un rivenditore non può rifiutare un cliente pagante per alcun motivo. Esistono solo due eccezioni molto specifiche: la vendita di alcol a minori o a persone ubriache.

Nei paesi anglosassoni, come gli Stati Uniti e l’Australia, il diritto dei clienti al servizio è più debole. Negli Usa il “diritto di rifiutare la vendita” è stato invocato, ad esempio, dal giudice Lacombe in una decisione del 1915 (The Great Atlantic and Pacific Tea Co vs. Cream of Wheat Co.).

Tuttavia, il Civil Rights Act del 1964 ha posto la disabilità, insieme ad altre categorie protette, come un’eccezione al diritto di rifiutare il cliente. In Australia, le leggi commerciali garantiscono il diritto di rifiutare un cliente, con l’unica eccezione delle violazioni delle leggi antidiscriminazione.

Le leggi antidiscriminazione sono sufficienti?

Gary Becker, premio Nobel per l’economia, in un famoso saggio ha scritto che la discriminazione non è efficiente. Secondo Becker, la discriminazione non sopravvive in un equilibrio economico, perché è equivalente a una restrizione delle opzioni. Meno opzioni ci sono, peggiori sono i risultati economici.

Sebbene interessante e certamente appropriata per la maggior parte delle situazioni, questa visione potrebbe essere troppo ottimistica quando si guarda il mondo dalla prospettiva di un cliente svantaggiato, come uno disabile. Servire una cliente con gravi problemi di udito è effettivamente più costoso. La discriminazione nei confronti dei disabili si basa sulla loro minore capacità in alcune dimensioni: tecnicamente, è efficiente. Ma non è equa.

La particolare criticità dei clienti disabili è il motivo per cui in questo articolo mi focalizzo su di loro, invece che su altre categorie protette dalle leggi antidiscriminazione, come il genere o la razza.

Le leggi antidiscriminazione sono quindi un modo per garantire il diritto al servizio ai disabili nei paesi di common law come l’Australia e gli Stati Uniti. Si potrebbe concludere che se vengono applicate rigorosamente, anche nei paesi anglosassoni un cliente disabile non può essere rifiutato. Sarebbe giusto concludere che le leggi antidiscriminazione possono costruire un ponte tra la “visione mediterranea e post-mediterranea” e la “visione anglosassone”?

In un certo senso, se le leggi sulla discriminazione vengono applicate, si può dire che le due diverse visioni del mondo, riguardo al servizio, sono più vicine di quanto sembri. La mia conclusione è: no. L’applicazione delle leggi antidiscriminazione non è sempre rapida.

L’applicazione delle leggi antidiscriminazione richiede una denuncia formale all’autorità garante delle antidiscriminazioni statunitense (o australiana) e la raccolta di prove che la discriminazione sia avvenuta, e che quindi il rifiuto al servizio dipenda dalla disabilità e non da altri motivi.

Al contrario, esigere il servizio nei paesi con una legge chiara che garantisca questo diritto consente di non avere l’onere della prova della discriminazione.

Ucraina, l’Occidente si è risvegliato (italiaoggi.it)

di Domenico Cacopardo

Blinken suona il rock che accompagnò la caduta 
del Muro. 

In difesa di Kiev dopo una deplorevole latitanza degli aiuti che è durata troppo a lungo

Se il mondo (e non da oggi) viene spesso interpretato da gesti simbolici molto di più che dai discorsi retorici, il gesto compiuto lunedì 13 da Antony Bliken a Kiev è risultato molto più esplicativo di una conferenza-stampa di fronte a celebrati corrispondenti di guerra.

Sedutosi, dopo una giornata di discussioni difficili, talora drammatiche, con Volodymyr Zelensky e i suoi più stretti collaboratori, a partire da Dmytro Kuleba, il ministro degli Esteri che parla anche italiano (in ricordo dell’accoglienza del Bel paese dei bambini provenienti da Chernobil), a un tavolo del Barman Diktat, un affollato locale di Kiev, Blinken (che se la cava con la chitarra) ha raggiunto la Rock Band che si esibiva e ha suonato con loro «Rockin’ in the Free World» («rocchegiando nel mondo libero»), il pezzo che precedette e accompagnò la caduta del Muro di Berlino.

Se a noi italiani, la canzone dice poco o nulla, nel mondo che è stato attraversato dai feroci regimi imposti da Mosca, è un inno di liberazione, un «Bella ciao» anticomunista, nel quale si riconoscono coloro che furono vittime volta a volta di Lenin, di Stalin, di Malenkov, di Krusciev, di Breznev e di Andropov.

Se l’intento era quello di instillare un po’ di coraggio nei giovani ucraini, esso è riuscito, sia pure in modo effimero. Per tornare al mondo anglosassone, oltre alle canzoni ci vuole «beef» cioè carne e sostanza. La guerra patriottica di difesa dall’aggressione russa, violenta, feroce, sanguinaria e inumana, ha perso popolarità.

E i giovani, una parte dei giovani che avevano mostrato il loro patriottismo abbandonando le occupazioni ottenute in Occidente per accorrere alle armi, ora cercano in tutti i modi di imboscarsi. Tanto che il cancelliere Scholz ha annunciato la revoca dei permessi di soggiorno ai giovani ucraini che saranno quindi rimpatriati. Un altro rifugio dei renitenti è la Romania. E anche qui accadrà qualcosa che li respingerà e li costringerà a tornare nel loro paese e a rispondere alla coscrizione.

Un segno questo di quanta acqua sia passata sotto i ponti di Kiev dal 26 febbraio 2022, di quanto la guerra abbia colpito gli ucraini fiaccandone le forze per il combinato realizzarsi di due fattori concomitanti: la fine della serie delle vittorie con l’aprirsi della fase delle vittorie dell’odiato nemico e l’interruzione dei rifornimenti occidentali oltre che dell’arrivo di sistemi d’arma moderni tali da creare superiorità tattiche sui russi.

Al di là di tutto, emerge dai campi di battaglia che l’Armata russa è riuscita a individuare idonee contromisure rispetto alle nuove (relativamente nuove) armi occidentali che vengono neutralizzate con una certa facilità rispetto al passato. Per esempio, a dispetto di ogni mimetizzazione i lanciatori dei missili antimissile Himars vengono individuati e sistematicamente neutralizzati.

Se passiamo allo stato degli schieramenti, emergono critiche per la mancata utilizzazione di Kharkiv (che in passato fu sede dell’Armir – il comando del corpo di spedizione italiano, anni 1942-43, e che fu uno dei vertici del saliente in cui si svolse la battaglia di Kursk, il più grande scontro di carri armati della storia, persa dai tedeschi – 50 mila morti – che, perdendola, aprirono il loro schieramento alla vittoria finale dei sovietici -178 mila morti-) che non solo è la seconda città ucraina ma costituisce una posizione strategicamente chiave dalla quale sarebbe potuta partire la grande offensiva di aggiramento delle linee russe che non ci fu, soprattutto per insufficienza di disponibilità di uomini e materiali.

Ora Kharkiv sembra che sia l’obiettivo attuale dei russi che possono sì puntare alla sua conquista, ma soprattutto trasformarla in cratere cruciale nel quale attirare le forze ucraine di presidio del Sud-Est.

Chi se ne intende ed è ben informato ritiene che Putin voglia così completare la conquista del Donbas in modo da privare – e per sempre – l’Ucraina di un territorio cruciale sia dal punto di vista geostrategico che per le ingenti risorse minerarie.

E sempre chi se ne intende ed è bene informato pensa che con il completamento della conquista del Donbas la fame di territorio di Putin sarà provvisoriamente saziata e l’ipotesi di un cessate il fuoco in stile coreano diverrà più possibile e attuale. In questo senso vengono interpretate le parole del despota russo di ieri durante la visita a Pechino.

Rispetto a questo scenario e per il momento, l’Ucraina e la volontà dei suoi governanti rimangono in ombra. Dal Pentagono, a smentire l’«ipotesi coreana», si ritiene possibile che l’offensiva russa sia contenuta e che possa essere rimessa in moto una grande operazione ucraina nei primi mesi del 2025, a seguito della riorganizzazione delle forze armate e dell’entrata in linea dei nuovi modernissimi – e superiori – armamenti occidentali. Insomma, mentre la guerra continua e diventa sempre più sanguinosa e crudele, gli stati maggiori studiano i loro campi di battaglia virtuali.

L’ostilità che ferisce l’occidente (corriere.it)

di Ernesto Galli della Loggia

Giovani e proteste

C’è una irragionevolezza furiosa nelle manifestazioni con cui da San Francisco a Parigi migliaia di giovani occidentali stanno occupando le università e le piazze per dimostrare il loro sostegno alla causa palestinese. È la medesima che, in parte, stiamo vedendo nell’«Intifada studentesca» anche in Italia.

È una irragionevolezza decisa a non prestare la minima attenzione alle ragioni di Israele. Per essa il mondo comincia oggi: le vicende della storia – dal protettorato britannico alla decisone dell’Onu nel 1947 sulla nascita di due Stati, dall’immediato rifiuto di tale decisione da parte degli arabi alla lunga serie di guerre successive – tutto è ignorato, giudicato irrilevante pur di esprimere solo e comunque ciò che urge con violenza dentro l’animo di quei giovani: il bisogno di mostrificare Israele e di scagliarsi contro di esso additandolo come un concentrato di nequizie.

Ma se il vero obiettivo non fosse in realtà quello gridato a squarciagola, se non fosse Israele, ma un altro? I moti dei giovani sono sempre, al fondo, rivolte contro il padre. Contro il suo comando che impone l’obbedienza alle norme e ai ruoli della società, che si presenta necessariamente come una sorta di castrazione del desiderio sessuale e di onnipotenza dei figli. Il ’68 insegna. Ma, tranne poche frange, i figli rivoltosi di allora si ispiravano certo a idee, libri, illusioni.

C he però pur collocandosi all’opposizione dell’ordine esistente, tuttavia facevano integralmente parte del patrimonio ideologico-culturale anche del mondo dei padri. Marx, Freud, Marcuse, Foucault, Laing, Nietzsche, Lévi-Strauss potevano ben essere annoverati, eccome!, in quello che venti anni dopo Allan Bloom avrebbe chiamato il «Canone occidentale». E lo stesso, a suo modo, poteva dirsi pure per Lenin, perfino per Stalin.

Ciò che è nuovo e straordinario, invece, è il fatto — esemplarmente visibile nei campus americani — che la rivolta giovanile antisraeliana attuale non solo non si rifà ad alcun canone culturale, tanto meno occidentale, a nessun testo, a nessun libro, ma che il suo retroterra sta per intero in un campo programmaticamente e radicalmente ostile all’Occidente in quanto tale. In sostanza i suoi protagonisti si servono di Israele ma come un simbolo, un capro espiatorio.

Attaccano Israele ma per esprimere il proprio rifiuto nei confronti dell’Occidente, della sua storia, dei suoi valori, dei fondamenti della sua antropologia — dall’ordine della bisessualità ad una genitorialità fondata sulla presenza di un uomo e di una donna. Di ognuna di queste cose viene messo sotto accusa il presunto carattere menzognero, oppressivo.

In realtà, dunque, ciò che annunciano le manifestazioni di tutti questi mesi, l’imminente «Intifada studentesca», le migliaia di grida «Palestine will be free from the river to the sea», è una potenziale ma già virtuale secessione dall’Occidente dei suoi figli.

Ma se questi non vi si riconosco più, la colpa forse non è solo loro. Forse è anche del fatto che da tempo, quasi in una sorta di cupio dissolvi , l’Occidente è andato perdendo il significato della propria storia e dunque la propria identità.

Perché l’Occidente è sul punto di non consistere più in nulla. Tutti i nodi stretti in lunghi decenni stanno venendo al pettine: un’istruzione via via a pezzi e ormai pressoché inesistente, la conseguente scomparsa della tradizione culturale, lo sberleffo decretato a ogni proposito conservatore equiparato su due piedi a un proposito reazionario; l’ostracismo comminato a ogni tratto antropologico che sapesse di antico in quanto «superato» e, viceversa, l’adesione a tutto ciò che sapesse di nuovo purché nuovo, anche se inusitato, bizzarro, «sperimentale»: e poi ancora la fine di ogni educazione sentimentale delle persone, la sostanziale insignificanza sociale del rapporto uomo donna, la corrosione del senso della paternità e della maternità, la dissoluzione dei legami familiari e comunitari, il declino di ogni istituzione, idea, o politica volta a proiettare il singolo in una dimensione sopra individuale.

Non appare forse in questa luce, oggi, l’Occidente? Certo: anche molti diritti e un discreto benessere. Ma che cos’altro oltre questo?

E tuttavia, perché Israele, allora? perché gli ebrei? perché prendersela con loro? Perché nei territori più nascosti della psiche si conosce come stanno le cose. Perché l’ebraismo evoca immediatamente un’origine: l’origine. È da lì che in qualche modo anche noi veniamo, è lì in qualche modo la nostra origine, quella dell’Occidente.

«Spiritualmente noi siamo semiti»: possiamo ripetere anche noi quel che disse un papa quando si trattò di opporsi ai signori della croce uncinata odiatori della civiltà occidentale i quali, non a caso, vedevano negli ebrei, proprio per questo, il principale nemico da annichilire.

I figli dell’Occidente che per colpa nostra non sanno né vogliono più riconoscersi in esso dal momento che vedono in esso solo il male, e che si ribellano volendo distruggerlo, anch’essi, pur nella pochezza che li caratterizza, intuiscono come stanno le cose. Intuiscono che se ci si vuole davvero disfare dell’Occidente, come quei giovani vogliono avvertendo il peso di una paternità giudicata insopportabile, allora quella paternità va colpita davvero al cuore, alla sua scaturigine.

Appunto urlando morte a Israele, morte ai sionisti…