Meloni sbaglia, il nuovo Patto di stabilità non darà all’Italia 35 miliardi in più all’anno (ilfoglio.it)

di LUCIANO CAPONE

I CONTI DEL FAZZO

La premier, seguendo la suicida linea Fazzolari, dice che le nuove regole le consentiranno di spendere 35 miliardi. Non è solo una bugia, ma un grave errore politico: i suoi elettori si aspetteranno misure da pagare con soldi che non ci sono

Il sottosegretario Giovanbattista Fazzolaribraccio molto destro della premier, ha convinto Giorgia Meloni del fatto che con le nuove regole fiscali europee l’Italia avrà a disposizione 35 miliardi di euro in più all’anno. Una Finanziaria e mezza. E la presidente del Consiglio se ne è a sua volta talmente convinta che continua a ripeterlo da mesi, l’ultima volta martedì nel dibattito in Senato.

Jobs act, la Consulta: non illegittima la disciplina su licenziamenti collettivi (ildubbio.news)

GIUSTIZIA

La Corte costituzionale dichiara non fondante 
le questioni sollevate

È legittima la disciplina dei licenziamenti collettivi del jobs act: lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza numero 7 del 2024, con la quale ha dichiarato «non fondante le e questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il quale, in attuazione della legge di delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

La Corte d’appello di Napoli aveva «censurato, in particolare, la disciplina dei licenziamenti collettivi quanto alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero – si legge in una nota della Corte Costituzionale -. Si è prevista una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal lavoratore, ma non più la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in simmetria con l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

La legge di delega aveva, infatti, escluso, per i «licenziamenti economici» di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e aveva previsto un indennizzo economico, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

La Corte, considerando anche i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dal Jobs Act, ha ritenuto che il riferimento contenuto nella legge di delega ai «licenziamenti economici» riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha quindi escluso che, sotto questo profilo, ci sia stata – come assumeva la Corte d’appello – la violazione dei criteri direttivi della legge di delega.

Inoltre la Corte ha ritenuto «non fondata anche la censura di violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori ’anzianì (quelli assunti fino al 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori »giovani« (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act.

Il riferimento temporale alla data di assunzione consente di differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i »giovani« lavoratori.

Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio. Infine la
Corte ha ritenuto «non inadeguata» la tutela indennitaria. Attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

La Corte ha anche ulteriormente segnalato al legislatore che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie».

Il panel putiniano di Limes e il confine del giornalismo obiettivo (linkiesta.it)

Talk sciò

In occasione del suo decimo festival, la rivista di geopolitica ha organizzato un incontro sulla invasione in Ucraina con il russo Dmitrij Trenin e l’ucraino Oleksij Arestovyč: non due osservatori imparziali, ma personaggi con una agenda politica precisa e screditati dagli osservatori internazionali

Se una persona dice che piove e un’altra che c’è il sole, il compito del giornalismo non è amplificare le dichiarazioni di entrambi, ma mettere la testa fuori dalla finestra e vedere se si bagna. Nell’era delle tifoserie social e del pigro giornalismo da desk, questa massima giornalistica non viene quasi mai rispettata. Dalla pandemia al conflitto israelo-palestinese siamo condannati a vedere talk show in cui due opposti bisticciano tra loro, urlando sempre più forte la loro verità.

La rivista di geopolitica Limes ha deciso di fare ancora peggio: in occasione del suo decimo festival (dal 10 al 12 novembre 2023 al Palazzo Ducale di Genova) gli organizzatori hanno allestito un panel sulla invasione russa in Ucraina (l’11 novembre alle 16.30) invitando due ospiti, un russo e un ucraino, che dicono però la stessa cosa, anche se con sfumature diverse: a Mosca splende sempre il sole e a Kyjiv grandina senza sosta. Dmitrij Trenin e Oleksij Arestovyč non sono due osservatori imparziali, ma personaggi con una agenda politica precisa e screditati nel resto del mondo, e soprattutto in Ucraina, per la loro irrilevanza o partigianeria. Ma in Italia godono ancora di un certo credito.

Meno di un anno fa Trenin ha proposto in una intervista a Global Affairs di «trasformare le armi nucleari in un efficace elemento di deterrenza nella specifica situazione ucraina al fine di convincere gli Stati Uniti che seguirà un attacco sul territorio americano». Già ospite l’anno scorso del Festival di Limes, Trenin si era detto sicuro della possibile vittoria militare della Russia perché Mosca non aveva ancora usato tutta la sua potenza e che presto l’avrebbe fatta vedere al mondo. A Kyjiv stanno ancora aspettando e nell’attesa, avanzano.

Il secondo ospite del panel è Oleksij Arestovyč, un ex attore di pubblicità e film tra gli anni Novanta e inizio Duemila che ha annunciato di volersi candidare come prossimo presidente dell’Ucraina, proponendo di entrare nella Nato cedendo momentaneamente il venti per cento del territorio ucraino alla Russia per poi rinegoziarlo (chissà quando), rinunciando così alla controffensiva grazie cui Kyjiv da mesi sta guadagnando terreno, seppur lentamente. Una soluzione alla coreana, da lui definita con modestia «piano Kissinger», che risulta l’opposto di quanto professato da lui stesso in passato, come quando nel 2016 chiese, seduto al volante della sua macchina, l’apertura di un procedimento penale contro l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, colpevole di aver permesso a Putin di annettere la Crimea alla Federazione russa.

L’idea non sembra piacere molto agli ucraini: stando ai sondaggi del Center for Insights in Survey Research solo il sei per cento della popolazione sarebbe a favore di questa soluzione, contro il sessantotto per cento che vorrebbe mantenere i confini internazionalmente riconosciuti nel 1991. Il gradimento sulla sua figura politica è più sconsolante: solo il 2,4 per cento degli ucraini lo voterebbe come presidente in una eventuale elezione che non si terrà ancora per molto tempo. Non solo; a maggio del 2023 il Centro Razumkov ha rilevato che il sessantacinque per cento degli ucraini non si fida di Arestovyč.

Perché un personaggio così connotato politicamente, sfiduciato e poco rilevante per l’opinione pubblica viene ritenuto da Limes un credibile osservatore per parlare del futuro dell’Ucraina?

In un panel durante la nona edizione di Limes, nel novembre 2022, Arestovyč viene definito dalla moderatrice come il «capo consigliere del gabinetto della presidenza Zelenksy» (qualunque cosa voglia dire), alcuni media lo hanno definito addirittura il suo «stratega» (qualsiasi cosa voglia dire), ma a guardar bene le cose non stanno proprio così. Per quasi tre anni ha ricoperto il ruolo di consigliere indipendente a tempo del capo di gabinetto dell’Ufficio di presidenza dell’Ucraina. Quindi non capo, ma advisor, tra l’altro freelance e non con contratto permanente. Posizione da cui si è dimesso lo scorso 17 gennaio in seguito a una sua dichiarazione infelice su di un razzo lanciato dai russi contro un edificio a Dnipro che ha ucciso quarantuno persone.

A indagine ancora in corso, Arestovyč è intervenuto pubblicamente, sostenendo che il condominio era stato abbattuto dai detriti di un razzo sparato dalla contraerea ucraina contro il missile russo. La versione è piaciuta subito al Cremlino, ma è stata smentita dalla aviazione ucraina. Arestovyč ha continuato a difendere con fermezza la sua tesi, pur senza fornire prove e documenti a sostegno, salvo poi ritrattare, definendola una mera tesi. Prima delle dimissioni ha ricoperto per diversi mesi anche il ruolo di portavoce del gruppo di contatto trilaterale sull’Ucraina per cercare soluzione diplomatica del conflitto nella regione contesa del Donbas

«Ha giocato un ruolo mediatico particolare all’inizio della guerra, quando nell’ultima settimana di febbraio e inizio marzo gli è stato chiesto di leggere il bollettino militare e informare così la popolazione sull’andamento di guerra. In quel frangente delicato è stato scelto come portavoce perché la sua oratoria assertiva e tranquillizzante era utile affinché non si creasse il panico nel paese nei primi giorni dell’invasione. Ma la società civile ucraina non lo ha mai considerato una figura politica credibile», spiega a Linkiesta Nona Mikhelidze, responsabile di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI). «I giornalisti ucraini non si capacitano perché all’estero, e in particolare in Italia, venga chiamato come esperto».

Il recente reportage del Time, che ritrae un deluso e abbattuto Zelensky come se fosse sull’orlo della sconfitta quando in realtà la controffensiva procede, ha suscitato molte critiche in Ucraina. La voce del dissenso all’interno dell’articolo sembra appartenere proprio ad Arestovyč, anche se non viene mai citato nel pezzo. Le sue dichiarazioni, provenienti da fonti anonime, assomigliano notevolmente alle sue frasi abituali. Non a caso, l’autore dell’articolo, Simon Shuster, aveva precedentemente citato più volte Arestovyč come sua fonte nel celebrativo articolo del Times del 2022, in cui la rivista aveva dedicato la copertina dell’uomo dell’anno a Zelensky. Ora però Arestovyč non fa più parte del governo Zelensky è ripostando il recente articolo ha definito il suo presidente un «dittatore»

Nel 2005, Arestovyč è entrato nel gruppo ucraino di estrema destra Bratstvo (Fratellanza) diventando il vice dell’allora leader Dmytro Korchynskyi, partecipando a diverse conferenze a Mosca del Movimento eurasiatico internazionale diretto dal filosofo e politologo putiniano Alexander Dugin. Dopo aver condotto per alcuni anni dei seminari di formazione psicologica, dal 2014 Arestovyč è diventato un importante opinionista televisivo, riuscendo a costruire nel tempo una base importante di follower grazie alle sue capacità attoriali. Per corroborare la sua figura di esperto internazionale alcuni citano un suo discorso nel 2019 quando predisse nel dettaglio come la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina, ma come ha spiegato a Opendemocracy Ruslan Bortnik, direttore dell’Ukrainian Institute of Politics: «Quasi tutti i politologi ucraini seri hanno predetto la guerra. Arestovyč è bravissimo nelle pubbliche relazioni, ma non è un meteorologo, né un insider, né un esperto politico o militare. È uno sceneggiatore, un allenatore e un divulgatore».

Dopo aver lasciato il ruolo di consigliere indipendente, Arestovyč ha intensificato le apparizioni nel canale YouTube di Mark Feygin, l’avvocato delle Pussy Riot, per commentare gli sviluppi della guerra, riacquistando una certa popolarità. Ma la collaborazione è terminata a metà agosto. «Da quando si è dimesso ha cambiato la sua narrazione passando dalla posizione del mantenimento dei confini del 1991 al rivendicare solo l’ottanta per cento. Il suo tentativo è quello di aumentare i consensi, catalizzando il voto dei russofoni e sperando che in questa fase di apparente stallo aumentino gli insoddisfatti contro il governo Zelenksy. Ma l’Ucraina è ancora unita contro la Russia e speranzosa di riconquistare i territori non solo per una questione di principio, ma soprattutto per sottrarre più ucraini possibili alle torture dei russi. A Mosca fa gioco che Arestovyč venga invitato a queste manifestazioni perché così si dà l’impressione di voci discordanti in Ucraina ed è più facile imporre una pace favorevole mediaticamente a Putin», spiega Mikhelidze.

Al momento Arestovyč è sotto indagine per una serie di frasi sessiste pronunciate durante alcuni seminari a pagamento. Le dichiarazioni sono state rivelate dalle giornaliste Yana Brenzei ed Emma Antonyuk che hanno pubblicato sul loro canale YouTube “Palaye” le clip di Arestovyč mentre dice: «Ragazzi finché le ragazze non ci sentono, possiamo parlare liberamente. Cosa vogliamo fare con quelle creature in realtà? Strozzarle. Strozzarle senza togliere le mani. Prima, ovviamente, le vogliamo scopare, e dopo quando non ne possiamo più di loro e quando ormai siamo sazi, vogliamo solo soffocarle. Soffocarle per eliminarle del tutto e poi per ulteriori tre anni non socchiudere le mani».

Non è la prima volta che Arestovyč pronuncia frasi controverse, come quando il 19 giugno 2022, in onda sul suo programma “Apeiron, scuola di pensiero” disse: «Tratto le persone LGBT come persone devianti, cioè con deviazioni dalle norme di comportamento. Sono un conservatore in questo senso. Un’altra cosa è che sono decisamente contrario alla loro persecuzione. Quindi tratto normalmente le persone LGBT, ma la propaganda LGBT è crudele. Perché è la propaganda della deviazione, una deviazione dalla norma, che ha specifiche conseguenze negative per la società. Sono un forte oppositore. Tratto i rappresentanti LGBT con compassione».

Da una parte un ex colonnello dei servizi segreti che appoggia ideologicamente l’invasione russa in Ucraina, dall’altra un ex consigliere dimissionario che sogna di prendere il posto di Zelensky, omofobo, affabulatore e un po’ mitomane. Un duello dialettico eccezionale per gli amanti dei talk show, un gran peccato per tutti coloro che andranno a Genova sperando di capire qualcosa sull’invasione russa e la controffensiva ucraina, oltre la propaganda. Eppure il giornalista Lucio Caracciolo, fondatore e direttore di Limes e docente di Studi strategici all’università Luiss Guido Carli ogni volta in cui è ospite in un noto talk show di La7 si scaglia contro la retorica bellicista e la propaganda.

Le vittime ingiuste e gli indignati di guerra per cui i morti sono tutti uguali (linkiesta.it)

di

Le responsabilità degli altri

Un soldato di un esercito che uccide terroristi non può essere paragonato a uno che ha il solo compito di trovare e uccidere gli ebrei, siano essi militari o civili, inclusi donne, anziani e bambini

Un esperimento. Una stessa persona che non giudica un’altra e le cose che fa un’altra, ma giudica sé stessa calata ora nei panni di uno e ora nei panni di un altro.

Il primo è un soldato. Deve trovare e uccidere dei terroristi. Non vuole che le sue bombe e le sue pallottole uccidano dei civili: ma sa che può succedere. È istruito e comandato a selezionare i propri obiettivi, e ad adottare ogni attenzione ragionevolmente necessaria a evitare che il suo fuoco colpisca degli innocenti inermi: ma sa che quelle cautele possono non bastare.

Conduce la sua azione non volendo che succeda, facendo il necessario affinché non succeda, ma sapendo che può succedere, e per effetto della sua azione restano uccisi dei civili, delle donne, dei bambini. Civili, donne, bambini fatti a pezzi dalle bombe e dalle pallottole di quel soldato.

Massacrati, sventrati, come testimonieranno le fotografie rese disponibili da quelli che hanno hanno allestito depositi di armi e rampe di lancio di missili nei giardini, nelle case, nelle scuole, negli ospedali in cui stavano quei civili, un dispositivo di guerra non adoperato a difesa di quei civili, ma per aggredire i vicini.

E il mondo, comprensibilmente e giustamente, guarderà inorridito quelle immagini, e quel soldato sarà il male assoluto, sarà il destinatario della riprovazione, degli urli, degli insulti, delle requisitorie che in nome della pace, degli oppressi, dei segregati, si rivolgeranno contro di lui e contro le sue armi.

Le armi – ed eccoci al cambio di scena – che mettiamo nelle mani della stessa persona calata non più nei panni del soldato di cui abbiamo detto, ma in quelli di un altro, un combattente per la libertà. Il quale deve trovare e uccidere gli ebrei. Non i soldati ebrei: qualunque ebreo, i civili ebrei, i ragazzi ebrei, le donne ebree, i bambini ebrei.

Deve cercarli e quando li trova deve torturarli, stuprarli e assassinarli. E allora si mette all’opera, li cerca e li trova, cerca gli ebrei nelle loro case e nei loro raduni e uno per uno ne stermina a centinaia, mille, millecinquecento, nel giro di poche ore.

Quella stessa persona, impersonando quest’altro ruolo, sgozza i neonati ebrei nelle culle, prende una gravida e le apre la pancia con un coltello, che le rimesta dentro e maciulla il feto, prende le madri di quei neonati e le stupra accanto al marito con la testa fracassata, prende i vecchi e le vecchie e li fucila davanti ai nipoti, e poi prende anche loro, altri bambini, che provano a scappare, li prende e li brucia vivi, e poi prende il loro padre, e lo sgozza, e poi lo fotografa, con batuffoli di cervello che gli escono dagli occhi e con la bocca riempita di merda.

Queste immagini circolano meno, e le gesta di questo combattente vanno incontro bensì a un po’ di precaria deplorazione e a una minoritaria condanna senza appello, ma non solo: incontrano anche la festa diffusa, il compiacimento tutt’altro che disparato, il pensoso scrutinio delle cause e delle responsabilità (degli altri, ovviamente), le manifestazioni in mezzo mondo, a cominciare dai Paesi della Shoah, in cui turbe di impudenti bastardi si mobilitano a denuncia del nazismo degli ebrei e dove una stronzetta – contro cui evidentemente non si attivano le democratiche azioni penali obbligatorie né le democratiche leggi contro l’odio – arringa una folla di filo-sgozzatori gridando: «Fuori i sionisti da Roma».

Ecco. Ora questa stessa persona, prima messa nei panni di quel soldato e su quella prima scena di civili morti, e adesso messa nei panni di quel combattente e sulla seconda scena di altri civili morti, si giudichi in un caso e nell’altro. Giudichi se meritano un medesimo giudizio non i civili morti in un caso e nell’altro – tutti morti, tutti ingiustamente morti – ma se merita un medesimo giudizio chi rispettivamente li ha uccisi.

E vediamo se gli sarà ancora facile dire che i morti sono tutti uguali. Vediamo se questa persona non sentirà schifo per sé stessa nell’adoperare quella indiscutibile verità – e cioè che i morti sono tutti uguali – per dire che sono uguali quelli che li uccidono.