Ecco il vero guaio della tassa sugli extraprofitti secondo Codogno (formiche.net)

di Gianluca Zapponini

L’ex capo economista del Tesoro, oggi docente 
alla London School of Economics, 

mette le mani avanti e indica due effetti collaterali che potrebbero neutralizzare i benefici momentanei della misura. Una nuova stretta sul credito alle imprese e un cattivo messaggio a chi vuole investire in Italia

Il blitz del governo, due giorni fa, sui margini degli istituti pompati dal rialzo dei tassi e per questo passibili di tassazione fino al 40% (ma non si andrà in ogni caso oltre lo 0,1% del totale degli attivi) è stato digerito, momentaneamente, dalla Borsa. Ma sul piano politico e finanziario la partita non è chiusa, anzi. Con ogni probabilità ci sarà nelle prossime settimane un confronto tra mondo del credito e palazzo.

Resta il precedente, pericoloso e inquietante, almeno a sentire Lorenzo Codogno, economista con una lunga esperienza al Tesoro, oggi docente alla London School of Economics. “Seguendo una tendenza anti-mercato ben consolidata da molti dei precedenti governi italiani, e con un ulteriore tocco populista da parte dell’attuale amministrazione, l’esecutivo ha approvato una tassa sugli extraprofitti delle banche. E questo perché le stesse banche sono un facile bersaglio e il loro attacco non può che attirare il sostegno politico”, spiega Codogno.

Ma al netto della valutazione politica, ce ne è una più pratica. “Il mancato rispetto della necessità di fornire un quadro fiscale e concorrenziale stabile per attrarre gli investimenti rischia di produrre un danno permanente all’attrattività dell’economia italiana e uno spostamento della disponibilità di credito, soprattutto per le Pmi, la spina dorsale dell’economia italiana.

È bizzarro che il governo consideri queste misure per affrontare i presunti fallimenti del mercato come a favore della concorrenza”. Tradotto, si rischia di tornare a una fase di credit crunch, visto che dovendo fronteggiare una maggior spesa, gli istituti potrebbero decidere di ridurre il flusso di credito all’economia.

Ragionando in prospettiva, l’economista ha pochi dubbi. La mossa del governo impatterà sulla “capacità attrattiva di fare impresa in Italia, in quanto si prevede che le tasse extra colpiranno in generale le aziende in quanto guadagnano troppo. Questo vale per gli investimenti diretti esteri in Italia, ma anche per gli investimenti nazionali, che diventano meno attraenti in termini di rischio.

Sul credito all’economia, poiché l’imposta impatta sul capitale delle banche, ridurrebbe anche la loro capacità di concedere prestiti all’economia. Credo, insomma, che il danno sia di gran lunga superiore al beneficio a breve termine di un po’ di liquidità in più”.

Le origini del mito sull’Ucraina nazifascista: Azov, Bandera e il ruolo della propaganda russa (valigiablu.it)

di 

Un articolo pubblicato lo scorso 5 giugno dal 
New York Times ha rimesso al centro del dibattito 
sulla presunta questione nazista all’interno 
dell’esercito invaso.

Nell’articolo, l’analista di Bellingcat Michael Colborne sostiene come Kyiv debba considerare più seriamente il danno mediatico prodotto dalla parziale negligenza nella condanna di alcuni simboli, presenti nelle comunità militari più radicali di entrambe le parti in conflitto, fra cui Azov, Corpo volontario russo, Wagner e i numerosi neonazisti all’interno della Legione imperiale russa. Periodicamente, pure i presunti antifascisti delle repubbliche separatiste appoggiate da Mosca esibiscono simboli collegati al nazismo.

L’Ucraina, da parte sua, deve comprendere che qualsiasi errore comunicativo può minare il sostegno occidentale e la credibilità internazionale del paese, dice Colborne. Ha espresso un’opinione simile anche  Illya Ponomarenko, giornalista del Kyiv Independent e fra i più famosi reporter di guerra ucraini sin dal 2014. Ponomarenko propone di inasprire le misure punitive contro i singoli soldati, ma spiega come la presenza di queste simbologie non sia un unicum nemmeno per gli eserciti occidentali. Casi simili si sono verificati, nell’esercito australiano, e fra un corpo dei marines statunitense durante la guerra in Afghanistan, per citare i casi più celebri e controversi.

La situazione attorno alla memoria storica ucraina e al ruolo effettivo dell’estrema destra nel paese è assai complessa, ma il tema viene spesso evocato, oltre che dai russi, da chi si oppone all’invio di armi per la difesa ucraina dall’invasione, giustificando le proprie posizioni attraverso un presunto scrupolo morale nell’armare un esercito in cui le ideologie estreme sarebbero dilaganti.

Da una parte, il discorso mainstream ucraino ha spesso glissato su questi episodi per timore di fare il gioco della propaganda russa, dall’altra la necessità di fare chiarezza in merito è fondamentale poiché sia Mosca, sia chi in Occidente a livello accademico e giornalistico ne rilancia le tesi, contribuisce a influenzare e confondere il dibattito in merito.

Una manipolazione che ha riunito sotto un unico calderone ideologico le poche decine di suprematisti bianchi presenti in alcune organizzazioni ultranazionaliste ucraine, i più presenti richiami a esperienze storiche controverse da parte di alcuni battaglioni e militari, e il nazionalismo civico della popolazione scevro di qualsiasi referenza a qualità etnico-linguistiche, bensì amplificato in risposta all’invasione russa, per sostenere una tesi senza fondamento: il nazismo di fondo della società ucraina.

Un’accusa tesa a giustificare l’invasione del paese, resa ancor più assurda dalla circostanza per cui la dottrina del nazionalismo controllato putiniano da quasi due decenni ha cooptato e mobilitato l’estrema destra radicale russa, inclusi movimenti neonazisti e neozaristi, anche allo scopo di perseguitare l’opposizione, minoranze e giornalisti, spesso impunemente. Movimenti vicini al Cremlino, come Russkii Obraz, si sono resi responsabili di decine di omicidi su base razziale nella Federazione Russa in pochi mesi già nel 2009, gli stessi anni in cui la macchina propagandistica russa ha iniziato a foraggiare l’estrema destra in Europa. Manca ancora un lustro alla nascita di Azov, mentre le bandiere rosso-nere di Pravij Sektor erano sconosciute ai più persino in Ucraina.

Elementi di neonazismo all’interno dei battaglioni volontari in Donbas e la metamorfosi di Azov

La stereotipizzazione del nazionalismo ucraino generata dalla propaganda russa non ammette altri livelli di analisi, rimanendo sorda, ad esempio, sui motivi del legame tra estrema destra ucraina e filantropi ebraici, tra cui oligarchi come Ihor Kolomojskij, che hanno finanziato, a partire dal 2014, i battaglioni volontari per aumentare la propria influenza all’interno della politica interna ucraina.

Il battaglione Azov nasce il 5 maggio 2014 a Berdyansk, come formazione volontaria di alcuni radicali e nazionalisti in risposta alla violenza di strada innescata dalle manifestazioni separatiste e filorusse in Donbas e altre città dell’Est ucraino. Sin dalle proteste di Maidan i militanti delle organizzazioni ultranazionaliste non hanno mai rinunciato a rispondere alle provocazioni, o provocare loro stessi lo scontro, di altri picchiatori di professione – i tituskhy – assoldati dal regime filorusso di Viktor Yanukovich, e presentati da Mosca come autentiche voci del dissenso russofono contro le presunte politiche nazionaliste di Kyiv.

Azov si è affermato in Donbas come una delle forze con migliore operatività sul campo, ma anche fra i pochissimi corpi militari ucraini a essere accusati dalle organizzazioni internazionali di aver compiuto crimini di guerra – principalmente casi di tortura verso sospettati di collaborazionismo filorusso; pratiche usate, fra le altre cose, su larga scala dalla controparte separatista e russa. L’accusa più grave rivolta ad Azov è lo stupro di gruppo (8-10 persone) di un uomo con disabilità mentali nell’agosto del 2014, secondo quando riportato dall’OHCHR.

Uno dei fondatori di Azov è Andriy Biletskiy, che già nel 2006 aveva costituito a Kharkiv il movimento suprematista chiamato Patriota Ucraino, mascherandosi però, dal 2013, dietro posizioni superficialmente patriottiche e nazionaliste. I primi ad arruolarsi in Azov sono in effetti ultras (inizialmente del Metalist Kharkiv, poi di altre curve ucraine) e le poche decine di iscritti del Patriota Ucraino, conosciuti giornalisticamente come “omini neri”. Biletskiy e la maggior parte dei suoi uomini non avevano partecipato alle proteste di Maidan.

Il politologo ucraino Anton Shekovtsov, specializzato nei movimenti di estrema destra nello spazio post-sovietico, ricorda come vi fosse molta sfiducia verso il battaglione volontario Azov nel 2014, poiché infiltrato delle personalità più estremiste e razziste della subcultura nazionalista ucraina, i cui background personali rischiavano di alimentare la propaganda russa. “Se stai annegando, è improbabile che tu chieda al salvatore le sue opinioni e convinzioni politiche. Ma cosa succederebbe se un tale salvatore ti tendesse la mano solo per poi ucciderti in un modo diverso?” sostiene Shekhovtsov.

Come scrive la giornalista ucraina Halya Sklyarevska, fino al 2014 Biletsiy e i membri del suo movimento passavano le giornate come i neonazisti di tutto il mondo. “Rapporti ambivalenti con gli spacciatori, detenzione illegale dei clandestini, marce per i “valori tradizionali” e frequenti scontri con le forze dell’ordine” scriveva lo scorso anno Sklyarevska.

Nella primavera successiva a Maidan, in cui le proteste di una parte della popolazione dell’Est, incentivata e finanziata dal Cremlino, innescano un clima di caccia al separatista e al traditore di Stato, movimenti come quello di Biletskiy saranno furbi nello sfruttare l’occasione, oltre che per partecipare alle ondate di violenza, per ripulire la propria immagine attraverso una patina di patriottismo, svolgendo l’innegabile ruolo di difesa dei confini ucraini messi in pericolo dall’invasione russa.

Oggi Biletskiy nasconde le sue precedenti posizioni suprematiste (tra cui la missione della nazione ucraina di «guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro i subumani capeggiati dai semiti», dichiarazione poi negata da Biletskiy) e apertamente razziste, mentre nel 2020 si scagliava contro “élite, social network, governi occidentali, polizia e Soros” ricalcando pedissequamente la vulgata dell’alt-right statunitense vicina a Donald Trump.

La propaganda russa, infatti, ha spesso parlato di movimenti di estrema destra finanziati dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti: in realtà, come organizzazione politica, Azov è per definizione antieuropeista e antiglobalista, così come l’altro incubatore del nazionalismo radicale Pravij Sektor. La loro credibilità è per lo più militare, mentre la condivisione della linea politica è pressoché nulla nella società ucraina, seppure sia innegabile come alcuni temi cari all’estrema destra siano riusciti lentamente a permeare nel mainstream del discorso politico-culturale ucraino.

In realtà, Andriy Biletskiy riesce persino a farsi eleggere in Parlamento nel caos tra Maidan e Donbas, sebbene il Fronte Nazionale (destra moderata e filoeuropea) non lo accetti nei suoi ranghi dopo che Biletskiy “non si è dissociato dalle sue precedenti visione suprematiste, razziste e contrarie ai valori europei”, secondo un comunicato del partito.

Entrerà nella Verkhovna Rada da indipendente, ma si vocifera abbia la protezione dell’ala più destrorsa del Fronte Nazionale, quella del ministro degli Interni Arsen Avakov e del suo segretario Anton Geraschenko, che contribuiscono all’ascesa di Azov come corpo militare d’élite da quando viene incorporato nella Guardia Nazionale ucraina. I giornalisti ucraini hanno più volte evidenziato come Biletskiy fosse campione per assenze dell’VIII legislatura ucraina e mancanza di accountability degli incarichi parlamentari. Nel 2019, candidandosi con Svoboda, non verrà rieletto.

Anton Shekhovstov sottolinea come, passando da battaglione a corpo della Guardia Nazionale, Azov si sia depoliticizzato, e la percentuale di combattenti neonazisti sia calata già nel 2015 (secondo un ex combattente erano il 10-20%), e in ogni caso né dilagante né pubblicizzata, mentre sono lentamente entrati a far parte anche ebrei, georgiani e tatari all’interno della legione.

Questa operazione di rebranding è stata motivata anche dal rifiuto statunitense, nel 2018, di inviare armi ad Azov e dall’indagine aperta dal Congresso (poi chiusa) sull’addestramento da parte di Azov di alcuni foreign fighters americani legati a movimenti suprematisti. Sembra però che già nel 2017, per volontà dei nuovi vertici, siano cominciate purghe interne verso i combattenti apertamente neonazisti arruolatisi nel 2014.

La matrice politica di Azov, nel 2022, non può più quindi essere definita come neonazista, sottolinea un report del Counter Extremism Project. Dalle origini effettivamente legate a numerose presenze neonaziste, sarebbero tuttavia sempre meno i combattenti con aperte posizioni ideologiche a essere arruolati in esso. Nemmeno in seguito ad Azovstal’, disponendo di centinaia di prigionieri di guerra, la macchina propagandista russa è riuscita a produrre materiale sul presunto dilagare del nazismo in Azov, al di là di un paio di tatuaggi, la cui veridicità è pure da dimostrare.

L’unità è stata, ovviamente, smembrata dall’assedio di Mariupol’, e ricostituita qualche mese dopo a Kharkiv. Essa, però, ha perso molti dei legami con l’estremismo e fanatismo della fase iniziale come battaglione nel 2014, sostituendo persino l’arcinoto logo “Idea della nazione” (formato dall’intersezione delle lettere N e I, ma spesso collegato al Wolfsangel nazista) con il Tryzub stilizzato (lo stemma dell’Ucraina) formato da tre spade d’oro.

Oggi in Ucraina sembra una scelta cosciente, di certo criticabile ma resa necessaria da altre priorità dettate dall’invasione russa, quella di non mettere pulci all’orecchio ad Azov riguardo il passato e le sue origini. La paura è quella di screditare e demoralizzare una formazione che, volente o nolente, contribuisce alla difesa dall’invasione russa.

In questo c’è anche una componente di machismo interiorizzato: gli uomini che attualmente non combattono per difendere il paese dall’invasione, sono scoraggiati nel criticare “dal divano (nella vulgata social ucraina post-2022 si è diffuso il termine divannij expert, esperto dal divano) le posizioni, per quanto vergognose, di chi difende in prima linea le città ucraine dai crimini di guerra russi.

“Gruppi come Azov nascono dalla guerra», ha spiegato a Open l’analista politico del Centro di Studi sull’Est Europa di Stoccolma Andreas Umland. «Putin vuole fare passare l’idea che la ragione per cui ha attaccato l’Ucraina è la presenza delle forze di estrema destra, ma sta invertendo la causa con l’effetto”. È proprio la guerra a creare le condizioni per rinforzare i gruppi estremisti.

Tornando al fondatore Biletskiy, è opportuno dividerne il profilo politico e quello militare, così come lo stesso movimento Azov (e le successive diramazioni politiche, oltre al cosiddetto attivismo di strada organizzato a volte in ronde sul modello neofascista di alcuni movimenti italiani, e resosi responsabile di episodi anche gravi negli scorsi anni) dall’omonimo corpo militare: peraltro la legge ucraina proibisce ad esponenti politici di essere contemporaneamente vertici militari.

Secondo Vyacheslav Likhachev, un esperto di movimenti di estrema destra formatosi a Mosca, l’efficienza militare di Azov è per Biletsky un marchio da cui estrarre valore al fine di aumentare la propria popolarità (almeno fino al 2022, poiché ora è tornato al fronte ed è uscito dallo spettro politico). “Biletskiy ha ricercato la legittimazione pubblica e ha tentato di convertire il capitale sociale guadagnato nella guerra in Donbas in capitale politico. Così hanno provato a fare altri personaggi pubblici divenuti noti al grande pubblico come fondatori delle formazioni di volontari al fronte” spiega Likhachev.

Ciò non ha funzionato: un sondaggio del 2021 lo posiziona fra i politici con meno credibilità secondo l’elettorato ucraino. Lo ritiene credibile il 5% degli intervistati, mentre il 67% non sa chi sia. L’influenza militare dei nazionalisti ucraini non si è tradotta in un sostegno politico, nemmeno in un contesto di guerra in cui le posizioni populiste e radicali, in genere, tendono a prosperare.

Biletskiy e alcuni cofondatori provenienti dall’ambiente neonazista di Patriota Ucraino sono lentamente usciti dai ranghi di Azov, una volta che questi è stato integrato nella Guardia Nazionale, tentando l’avventura politica. Il progetto elettorale di Biletskiy denominato Corpo Nazionale, in cui sono confluite tutti i partiti di estrema destra (Pravij SektorSvoboda, Patriota Ucraino), è miseramente fallito. Alle elezioni parlamentari del 2019 la coalizione ha raccolto appena il 2,15% (alle elezioni del 2012, un anno prima di Maidan, Svoboda aveva preso il 10,45%).

Biletskyi, insieme all’ex segretario di Pravij Sektor Dmitrij Yarosh, hanno puntato su un populismo di guerra che aveva tentato di strumentalizzare alcuni veterani della guerra del Donbas, ma gli ucraini hanno risposto col due di picche, sebbene – e ciò può sembrare paradossale – continuino a rispettare Biletskyi e Yarosh in quanto combattenti nella difesa ucraina, ma non come uomini e politici.

Vari reportage di testate internazionali hanno denunciato alcuni campi di addestramento organizzati da personalità legate ad Azov, in cui vi era il rischio di insegnare a minori e bambini il culto della violenza e l’odio antirusso. Questo è l’ordine dei rischi posto dall’ascesa delle teorie nazionaliste in Ucraina, ma di certo non vi è una connivenza del sistema politico come la propaganda russa, più o meno rumorosamente, ha tentato di far credere negli scorsi anni.

Vittimisticamente, Biletskiy e altri estremisti ucraini hanno addirittura denunciato di essere repressi dai governi Poroshenko prima e Zelensky poi, parlando di “soppressione del movimento patriottico” e chiedendo le dimissioni pure del protettore dell’ala nazionalista Arsen Avakov, evidentemente non soddisfatti del livello di concessioni dell’ex ministro dell’Interno.

Le poche mele marce della guerra del Donbas si aspettavano impunità una volta tornati alla vita civile, ma i progressi del sistema giudiziario ucraino e uno Stato di diritto, seppur fragile in ogni caso efficiente nelle sue funzioni basilari, hanno garantito l’indipendenza del potere politico dalla riconoscenza strumentale e indiscriminata ai veterani nel Donbas. Una sfida che sarà ancora più urgente conclusa l’invasione russa su larga scala.

I miti nostalgici dell’ultranazionalismo ucraino: Stepan Bandera e la memoria dell’OUN-UPA

L’esperienza e l’ideologia di Azov ( in quanto movimento politico e non corpo dell’esercito) è peraltro intrisa di un’ideologia superomistica e discriminatoria verso minoranze come migranti comunità LGBT, ma completamente slegata – anche a livello simbolico – dal più ampio immaginario del nazionalismo ucraino, le cui posizioni politiche rimangono comunque settate su quella dell’estrema destra radicale, ma immuni da qualsiasi accusa di neonazismo. Una volta esaurita la sirena Azov, la propaganda russa passa, quasi sempre, alla rassegna delle malefatte di Stepan Bandera, per tornare a ribadire un nazismo anche storico del paese Ucraina.

Con le controverse leggi di decomunistizzazione del 2015 lo Stato ucraino, nel proibire la simbologia e propaganda comunista, l’ha equiparata a quella nazista, proibendo pure i richiami a quest’ultima. Tuttavia, sono rimaste delle zone grigie controverse, come la tolleranza (in seguito a lunga diatriba legale) verso simboli ispirati ad alcuni reparti collaborazionisti durante l’occupazione in Galizia.

L’influenza di quest’ultimi viene spesso minimizzata da alcuni politici e storici ucraini nella narrazione secondo cui gli eserciti insurrezionali dell’UPA (Ukrains’ka povstans’ka armija), formatisi a partire dai militanti nazionalisti dell’OUN (Orhanizacija ukraïns’kych nacionalistiv), avrebbero condotto una battaglia di liberazione nazionale antisovietica, in cui la breve parentesi di alleanza coi nazisti è stata irrilevante per collegare l’ideologia nazionalista di Stepan Bandera e Roman Shukhevich – in realtà più vicina al fascismo italiano – a quella suprematista di Hitler.

La breve alleanza di Bandera con i nazisti fu tattica e strumentale: l’OUN aveva inteso che Hitler prevedesse uno stato indipendente per gli ucraini, mentre queste furono solo le promesse di alcuni gerarchi nazisti che scelsero di sfruttare i sentimenti antirussi di galiziani e polacchi. La teoria nazionalsocialista del Lebensraum (spazio vitale) comprendeva anche il territorio ucraino, e considerava tutti gli slavi autoctoni come subumani.

Bandera fu dunque arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in un campo di concentramento, mentre in una seconda fase l’UPA cominciò a condurre campagne di sabotaggio sia contro i nazisti che verso i comunisti, seppure alcuni guerriglieri fortemente antisemiti rimasero fedeli ai primi all’interno delle Waffen-SS Galizien (così come molti altri ucraini occidentali si arruolarono nell’Armata Rossa, un altro lato della medaglia mai ricordato, insieme ad altri milioni di ucraini della fetta di paese già controllata dall’Urss nel 1941).

L’influente storico ucraino Oleksandr Zajcev definisce, dal punto di vista teorico, l’ideologia OUN-UPA come un “nazionalismo integrale protofascista in assenza di Stato nazionale”, in cui il nazionalismo etnico è prevalente ma non esclusivo (le varie posizioni portarono pure a una scissione tra OUN-M e OUN-B, rispettivamente le iniziali di Andriy Mel’nik e Stepan Bandera), e in ogni caso subordinato alla lotta di liberazione nazionale.

L’enfasi su questo aspetto, in un clima in cui la guerra russa ha esacerbato i sentimenti di appartenenza nazionale ed empatia verso chiunque abbia combattuto per essa. I guerriglieri dell’UPA hanno continuato a sabotare clandestinamente l’occupazione sovietica fino agli anni ’60, quando il nazismo hitleriano era già sepolto ma rimaneva viva l’idea di poter ricostituire uno Stato ucraino, su basi etniche, a partire dai Carpazi.

Queste circostanze hanno messo in secondo piano le posizioni ideologiche di molti dei suoi membri, oltre agli episodi di violenza etnica contro polacchi ed ebrei, peraltro da analizzare nel contesto del più ampio conflitto sociale fra ucraini e polacchi in Galizia iniziato non nel 1945, ma negli ultimi decenni dell’Ottocento. Decenni in cui varie forme di violenza, terrorismo e repressione sono state utilizzate da entrambe le parti, creando una memoria divisiva fra i due paesi.

La questione dell’eredità storica dell’OUN-UPA rimane un tema controverso all’interno della stessa società ucraina, risoltosi paradossalmente in una rivalutazione della lotta partigiana di Bandera come contraltare, spesso ironico e depoliticizzato rispetto all’ideologia fattuale dell’OUN, alla martellante accusa di nazismo di Putin verso chiunque sostenga un percorso indipendente dell’Ucraina post-Maidan, slegata cioè dal secolare dominio imperiale di Mosca.

Sin dal 2013 gli ucraini sono chiamati indiscriminatamente banderovtsy dalla propaganda del Cremlino, e molti hanno specularmente risposto alle accuse decontestualizzando la figura reale di Bandera. Sarà la storia a definire le conseguenze di questa rivalutazione controversa, ma allo stato attuale questa rimane una reazione difensiva, al più strumentalizzata da alcuni gruppi nazionalisti per accrescimento di capitale politico e identitario.

Mosca accusa Kyiv di nazifascismo per aver istituzionalizzato e normalizzato il culto di Stepan Bandera, mentre l’ex leader dei nazionalisti ucraini è in realtà diventato un simbolo idealizzato della lotta antirussa di una parte della società, mancando una condivisione reale della sua visione di mondo: una scelta dettata anche dalla mancanza di miti a cui aggrapparsi – i milioni di ucraini morti nell’Armata Rossa per liberare l’Europa dal nazismo sono stati appropriati dalla narrazione russocentrica della Grande Guerra Patriottica, e decolonizzare l’immagine dei partigiani comunisti ucraini sarà un processo storiografico complesso.

La tendenziale rinuncia all’immaginario sovietico in Ucraina ha favorito la propaganda russa a definire come di origine fascista e banderista qualsiasi rievocazione identitaria e simbolica presente all’interno delle forze armate ucraine. In questo senso, un caso emblematico è quello dello slogan Slava Ukraini! Heroyam Slava! (“Gloria all’Ucraina! Gloria agli eroi!”) dipinto come un saluto nato nei ranghi dell’OUN-UPA. In realtà, il motto ha origine nell’esercito ucraino indipendentista retto dal socialista Symon Petlyura tra gli anni ’10 e ’20, nel contesto della guerra civile russa.

In ogni caso, delineare il contesto per cui si assiste a una graduale normalizzazione di pagine controverse della storia ucraina non rende lungimirante la scelta di alcune amministrazioni regionali dell’Ovest ucraino (Leopoli, Ternopil’, Rivne) di erigere monumenti e intitolare strade a Bandera e altri combattenti dell’OUN-UPA, anche solo perché ha dato in pasto materiale alla propaganda russa, ancor prima che il dibattito storiografico sia lontanamente vicino dall’elaborare una memoria condivisa del ruolo di Bandera e dei partigiani OUN-UPA all’interno della storia ucraina, e dell’Europa orientale in generale.

Tuttavia, la restaurazione e rivalutazione di politici e militari schieratisi con le truppe naziste, in modo temporaneo e opportunistico come Bandera o in maniera più organica in altri paesi, è una pratica estremamente diffusa in Europa orientale. Il revisionismo e la nostalgia verso alcune figure storiche alleate dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale sembra essere motivata da una vocazione ipernazionalista funzionale alle narrazioni patriottiche di paesi la cui storia è spesso stata segnata dall’occupazione di forze straniere, tingendosi di chiare note anticomuniste e antisovietiche, per ovvi motivi.

Le complesse e controverse politiche della memoria in Europa orientale

Negli ultimi anni del Novecento si è assistito a diversi processi innescati dal crollo del comunismo: il nation building di entità statali semi-nuove in Est Europa. Esperienze derivanti dalla stessa causa originaria, ma aventi un passato eterogeneo quanto oscurato dall’oblio storiografico sovietico.

Alcuni paesi ottenevano per la prima volta l’indipendenza in periodi di pace (Ucraina, Bielorussia, Slovacchia), altre recuperavano tradizioni statuali antiche sospese dall’occupazione sovietica (paesi Baltici), dall’emancipazione dal Patto di Varsavia (Polonia, Ungheria) o dal caos balcanico (Croazia).

In tutte, si è assistito alla rievocazione di diverse figure storiche e politiche, incluse alcune che avevano collaborato attivamente, per diversi motivi, con le autorità naziste. Le organizzazioni di estrema destra, come pure di destra moderata, hanno riconfigurato l’interpretazione storica di movimenti apertamente ultranazionalisti, irredentisti, antisemiti, reazionari e – in Croazia, Romania e Ungheria – antiziganisti.

In Slovacchia il fascista clericale Jozef Gašpar Tiso aveva collaborato con gli occupanti nazisti, ma la sua figura è stata rivalutata dai nazionalisti slovacchi, che lo hanno elevato a martire anticomunista e propulsore dell’indipendentismo nazionale dalla Cecoslovacchia.

Negli anni ’90 in Croazia diverse strade sono state intitolate a leader ustascisti come Mile Budak e Jure Francetić, alleati di Hitler e Mussolini nel secondo conflitto mondiale e responsabili di massacri contro la popolazione ebraica e rom. Ciò era parte della politica di conciliazione nazionale di Franjo Tuđman, primo presidente croato e fautore della pomirba, la ricerca di una pacificazione fra partigiani e combattenti nazionalisti croati. Nonostante la polarizzazione del dibattito, molte strade croate portano ancora il nome dei fascisti clericali ùstascia.

Anche in Estonia, Lituania e Lettonia il collaborazionismo fu abbastanza diffuso, costantemente in ottica antirussa e condizionato dalle promesse tedesche di concedere l’indipendenza a questi stati. Oggi gli abitanti dei paesi baltici concordano nell’aver vissuto due occupazioni consecutive, quella di Hitler e quella di Stalin, mentre all’epoca i cittadini si divisero nel supportare entrambi i lati del conflitto sovietico-tedesco.

In Romania il governo collaborazionista di Ion Antonescu è stato accusato di aver deliberatamente massacrato 275.000 ebrei e 5.000 rom durante la guerra, ma durante gli anni ’90 diverse strade di Bucarest e altre città romene sono state intitolate all’ex dittatore.

In Ungheria la riabilitazione dell’estrema destra e del reggente del Regno ungherese Miklós Horthy, alleato di italiani e tedeschi, è stata pervasiva, con endorsement di diversi esponenti di Fidesz e dello stesso Viktor Orban, che ha definito Horthy uno «statista eccezionale».

In tutti questi paesi, sono presenti militanti delle forze armate – e rispecchiano, ovviamente, una percentuale della popolazione – apertamente nostalgici di esperienze dittatoriali e collaborazioniste. Da questo punto di vista, l’Italia non ha bisogno di guardare troppo lontano: le unità della brigata paracadutisti “Folgore” dell’esercito italiano sono state in passato sotto i riflettori per il culto simbolico ed episodi di richiami espliciti al fascismo, in maniera non diversa dalla visione di mondo proposta da alcuni membri di Azov dopo la sua incorporazione nella Guardia Nazionale.

Usò la foto di una coppia gay contro la Gpa: il tribunale condanna Fratelli d’Italia (ildubbio.news)

Fascismo

I fatti risalgono al 2016: il partito di Meloni aveva usato l’immagine dei due papà insieme a bimbo appena nato per i manifesti contro la maternità surrogata. Ora dovrà risarcirli

Fratelli d’Italia condannata in Tribunale per i manifesti contro la gestazione per altri. Dopo una battaglia giudiziaria durata sette anni il Tribunale civile di Roma condanna il partito per l’uso nel 2016 di una foto di due papà con il loro figlio, nato tramite gestazione per altri.

La vicenda risale al 2016 quando Fratelli d’Italia aveva realizzato una campagna contro le unioni civili, accanendosi in particolare contro la gestazione per altri. A questo scopo hanno utilizzato un’immagine che raffigurava una coppia canadese in sala parto con il loro neonato. La foto al centro del procedimento, scattata nel 2014, ritraeva l’istante della nascita del piccolo Milo e la gioia dei suoi due papà Frank e Rosario BJ Barone per il suo arrivo, nonché quella della donna che lo aveva dato alla luce.

L’immagine, coperta da copyright, pochi giorni dopo veniva pubblicata sull’account professionale della fotografa Lindsay Foster che l’aveva realizzata accompagnata da una nota che sottolineava il rapporto di profondo amore e rispetto fra i padri e la donna gestante. A circa due anni di distanza, però, Fratelli d’Italia ha utilizzato la foto per promuovere una campagna contro la gestazione per altri, riprendendo la foto dei due padri con il neonato e aggiungendo la scritta “lui non potrà mai dire mamma”.

La campagna, divenuta virale, è arrivata fino in Canada sotto gli occhi della coppia protagonista dello scatto, che ha deciso di rivolgersi agli avvocati Michele Giarratano e Cathy La Torre di Gay Lex per la tutela dei propri diritti. Cathy La Torre e Michele Giarratano (coadiuvati dalla collega Stefania Gervasi) hanno deciso di occuparsi della vicenda “pro bono” e cioè a titolo completamente gratuito, senza percepire alcun compenso. Le spese vive del procedimento, invece, sono state sostenute da Gay Lex attraverso la campagna “Fai la causa giusta” quindi attraverso donazioni spontanee all’associazione.

“Questa sentenza non è rivolta soltanto al partito di Fratelli d’Italia ma a chiunque nel mondo della politica utilizza le vite altrui a volte calpestandone la dignità o arrecandogli danni morali o alla loro reputazione o alla loro vita. Si faccia politica, ma non sul corpo e sulle vite delle persone! E questo vale per tutti i partiti politici”, afferma l’avvocata Cathy La Torre.

“Mentre alla Camera dei deputati, in questi giorni, si discute della proposta di legge dell’onorevole Varchi (Fratelli d’Italia) che approderà in aula il 19 giugno e che vuole punire penalmente la gestazione per altre/i anche quando effettuata all’estero, il Tribunale di Roma condanna il partito della premier Giorgia Meloni per una violenta campagna d’odio contro le famiglie omogenitoriali e la maternità surrogata: è un segnale importante alla politica, un invito a fermarsi e mettere davvero al centro i bambini e le bambine, le famiglie e l’amore con cui vengono create”, dichiara l’avvocato Michele Giarratano.

Lo scopo, secondo i legali, non era solo sanzionare Fratelli d’Italia per il caso concreto e dunque risarcire le vittime di questo brutto episodio, ma anche quello di dare un segnale forte affinché episodi del genere non debbano più verificarsi. In Italia non di rado accade che la giurisprudenza sia più innovativa del legislatore italiano. Secondo il Tribunale della capitale, vi è stata infatti “un’indebita interferenza nella sfera personale” di questa famiglia canadese, tanto più che “l’immagine peraltro è particolarmente intima e ritrae un neonato, non riconoscibile ma potenzialmente identificabile come figlio dei due effigiati”.

Continua il giudice spiegando come Frank e Rosario BJ Barone siano “stati dunque destinatari di una illecita intromissione nella propria sfera personale, che ha leso il loro diritto alla tutela dell’immagine e della riservatezza, esponendo – senza il loro consenso – alla pubblica visione un momento di intimità familiare accompagnato dalla formulazione di un giudizio negativo”. Per il Tribunale quindi Fratelli d’Italia va condannata a risarcire la coppia per “il disagio per la diffusione di una immagine rivelatrice della loro intimità, la riprovazione espressa pubblicamente nei riguardi del loro stile di vita e della loro condizione familiare, il timore di essere oggetto di attenzione indesiderata nel caso si fossero recati in Italia”.

La predica moralista di Landini e l’anacronistico mito del posto fisso (linkiesta.it)

di

Se potessi avere mille euro al mese

Alla manifestazione sindacale di sabato scorso il segretario della Cgil ha provato a sostenere i giovani sottopagati, facendo però la figura di chi pensa di vivere nell’Italia di cinquant’anni fa

È un peccato che la partecipata manifestazione milanese di Cgil, Cisl e Uil di sabato scorso passi alla storia più per una incredibile affermazione del segretario della Cgil Maurizio Landini che per l’avvenimento in sé. Ma viene davvero da chiedersi, con costernazione, come faccia un sindacalista, uno qualunque – figuriamoci poi il numero uno della Cgil – a dire che «un giovane che rifiuta di lavorare, sottopagato a mille euro, fa bene».

Quindi una ragazza o alla quale viene offerto un lavoro per meno di mille euro deve dire di no, meglio stare a casa a zero euro? Evidentemente Landini non si rende conto di dove vive e neppure sta attento a non offendere tutti quei giovani e non solo giovani che accettano anche pochi soldi pur di tirare avanti o di studiare o anche solo di andare in vacanza.

A parte poi che ci sarebbe da capire perché la “soglia” è mille euro – boh – ma vogliamo invitare la gente a morire di fame, a rubare? Altra cosa è fare una lotta generale di massa per strappare contratti migliori, chi lo nega, anzi, il contrario: il sindacato che ci sta a fare sennò? Però sappiamo che i giovani che non lavorano sono circa tre milioni, e non pare una buona idea incrementare questo numero invitandoli a un inverosimile gran rifiuto di un compenso sotto i mille euro, un «no grazie» che evidentemente si può permettere chi ha le spalle coperte dal papà.

Ma che messaggio dà il sindacato al singolo giovane che, solo, a mani nude, deve accettare una paga bassa se non ha alternative, se deve andare avanti, se ha un figlio piccolo, i genitori malati?

Sentitelo, Landini: «È ora di smetterla con quest’idea che bisogna accettare qualsiasi tipo di lavoro. Il lavoro deve essere una condizione che permette a chi lo fa di vivere dignitosamente e non di essere sfruttato, non di dovere ringraziare perché ti fanno lavorare».

In teoria il segretario della Cgil dice una cosa sacrosanta, no al ricatto, no al «o accetti questo o niente». Però in pratica sostiene una follia, una specie di «ribellarsi è giusto» in una società atomizzata in cui non c’è nessuno ormai che ti difende, ed è su questo che Landini invece di fare predicozzi moralistici dovrebbe interrogarsi e magari fare qualche autocritica sui salari d’ingresso o gli stage formativi o certi contratti di categoria firmati dai sindacati che altro che mille euro al mese.

La verità è che c’è ancora una Cgil legata al mito del posto fisso e che non capisce che la flessibilità di orario, di modulazione del salario, la vogliono proprio i lavoratori più giovani, e che pensa all’Italia del 2023 come se fosse quella del 1973, e che non comprende che il lavoro va comunque incentivato, apprezzato, incoraggiato. Altro che rifiutarlo, siamo impazziti? Poi, se questo è il sostegno che la Cgil pensa di dare ai giovani, non si lamenti, Landini, se proprio i giovani lo fischiano.

La meticolosa preparazione del contrattacco ucraino (euronews.com)

Guerra

Il presidente Volodymir Zelenskyy dichiara che la controffensiva ucraina resta segreta ma è molto fiducioso nella sua riuscita

Il riserbo militare non consente alla stampa internazionale di avere reali anticipazioni sulla data e le modalità dell’annunciata controffensiva ucraina che comunque, stando al momento di relativo sbandamento del fronte russo, potrebbe essere anche molto imminente. Ciononostante il presidente  ucraino Volodymir Zelenskyy ha rilasciato un’ intervista all’ Eurovisione dichiarando che ci vuole ancora del tempo per servire ai russi la sgradita sorpresa.

In attesa della controffensiva, le forze di Kiev, inferiori per numero e apparato militare, hanno effettuato con successo alcuni contrattacchi intorno alla città di Bakhmut che Mosca pensava di occupare più in fretta.

I mondi di Italo Calvino (newyorker.com)

Nonostante la reputazione di Calvino come 
postmoderno, 

la sua immaginazione era più in sintonia con i modi letterari pre-moderni.

Calvino amava la narrazione episodica di Ariosto, Boccaccio e Cervantes. Illustrazione di Daniele Castellano

La libreria del tuo quartiere si trova in un angolo trafficato. Lo passi durante la tua passeggiata al lavoro la mattina e sulla tua passeggiata verso casa la sera, e anche se a volte ammiri le geometrie intelligenti della sua vetrina, raramente dai un’occhiata più da vicino.

Ma, non molto tempo fa, la vista di un libro in particolare ti ha fatto riflettere. Il tuo occhio si soffermò sulla sua copertina bianca pura e su una curiosa forma incisa in essa. Senza pensarci, sei entrato nel negozio. L’impiegata stava lavorando al suo computer. Gli altri clienti stavano sfogliando libri sollevati dalle grandi piramidi di nuove uscite sul tavolo anteriore. Nessuno ti ha prestato attenzione.

Hai preso il libro che avevi individuato. L’autore era Italo Calvino, il cui nome evocava alcune vaghe impressioni: un italiano che era salito alla ribalta dopo la seconda guerra mondiale, uno scrittore di storie nelle storie. Con il pollice, hai sfogliato le prime pagine e, con l’efficienza praticata di chi non ha mai abbastanza tempo, hai determinato di cosa parlava il libro. Era un libro intitolato “Il castello dei destini incrociati“, su uomini e donne che, misteriosamente muti, usavano mazzi di tarocchi per descrivere le avventure che li avevano colpiti.

Oppure era un libro intitolato “Città invisibili“, in cui il mercante veneziano Marco Polo descriveva a Kublai Khan le terre lontane del suo impero, e, mentre giravi le pagine, le guglie e le cupole di città irreali si alzavano e cadevano davanti ai tuoi occhi. Oppure era un libro che si apriva rivolgendosi a te, il Lettore, trasformandoti istantaneamente sia in un personaggio che in un confidente del narratore: “Stai per iniziare a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, Se in una notte d’inverno un viaggiatore. Rilassare. Concentrare. Dissipa ogni altro pensiero. Lascia che il mondo intorno a te svanisca”.

Ti sei rilassato. Ti sei concentrato. Le voci degli altri clienti si allontanavano e, con ogni frase di qualsiasi libro tu avessi scelto, ti immergevi più a fondo in una storia di incontri casuali, oggetti magici, crociate senza legge e amori spericolati. Hai scoperto che questo era un libro di tagli rapidi e dissolvimenti rapidi che ti trasportavano da un personaggio e un’ambientazione all’altra.

All’inizio, credevi di leggere una favola, ma presto si è trasformata in una ricerca, poi in una storia d’amore, poi in un’utopia, con ogni episodio drammatico come quello che lo ha preceduto. Sentivi che non stavi affatto leggendo un libro, ma di essere girato intorno a una grande biblioteca di libri: qui intravedevi l’inizio di una storia, lì nel mezzo di un’altra. Ma la fine? La fine non era in vista.

Nonostante l’ultraterreno della storia, i suoi personaggi vivevano vicino a te in qualche modo. Gli eroi erano cordiali, un po’ barcollanti. Le fanciulle non erano né crudeli né insipide, ma audaci, di sani principi e compassionevoli. I cattivi non erano malvagi ma semplicemente meschini. Ti sei guardato intorno in libreria e l’hai visto attraverso gli occhi della storia. La donna con gli occhiali lì, le mani che svolazzano sopra un tavolo di traduzioni sottili: si potevano immaginare gli incantesimi che avrebbe potuto lanciare. E l’uomo muscoloso con il cappotto di pelo di cammello, che soppesa le memorie politiche rivali di questa stagione: quali crimini aveva commesso?

La commessa si schiarì la gola per indicare che il negozio stava chiudendo. Hai fatto la tua scelta. Hai comprato il libro e l’hai portato a casa, dove lo hai consumato voracemente, ignorando le luci e i ping del tuo telefono. Quando hai finito, sei rimasto sorpreso di scoprire che la storia, ardente di passione e conquista, ti aveva lasciato con una sensazione di dolore. Perché la vita non potrebbe essere così?

Italo Calvino è stato, parola per parola, lo scrittore più affascinante del Novecento. Era nato cento anni fa a Cuba, figlio maggiore di un botanico italiano errante e di suo marito agronomo. Poco dopo la sua nascita, la famiglia tornò in Italia, dove dividevano il loro tempo tra la stazione di floricoltura del padre, nella città balneare di Sanremo, e una casa di campagna riparata dai boschi. Quando Calvino si iscrisse al dipartimento di agraria dell’Università di Torino, nel 1941, sembrava destinato a passare la vita a innestare una cosa meravigliosa su un’altra.

Ma due anni dopo, quando i tedeschi occuparono l’Italia, lasciò la scuola e combatté per la Resistenza. I suoi primi racconti pubblicati, negli anni quaranta, riguardavano la guerra e gli orrori del mondo moderno; Negli anni Cinquanta, stava trasmutando questi orrori in favole, fiabe e romanzi storici. Sebbene sia rimasto un membro rispettoso del Partito Comunista per qualche tempo dopo la guerra, ha rotto con esso dopo la rivoluzione ungherese e, dalla metà degli anni sessanta, si era completamente allontanato dagli affari correnti. “Le mie riserve e allergie verso la nuova politica sono più forti dell’impulso di opporsi alla vecchia politica”, scrisse a Pier Paolo Pasolini nel 1973, difendendo la decisione di ritirarsi nella letteratura. “Passo dodici ore al giorno a leggere, quasi tutti i giorni dell’anno.”

L’epoca di Calvino e i suoi esperimenti con il genere rendono naturale per i lettori pensare a lui come un postmoderno, un maestro del pastiche, un ironista e un mimo – per classificarlo con Jorge Luis BorgesVladimir Nabokov o i membri dell’OuLiPo, la società letteraria d’avanguardia francese a cui apparteneva. Eppure i saggi appena raccolti in “The Written World and the Unwritten World” (Mariner), tradotti con precisione senza fronzoli da Ann Goldstein, ci ricordano quanto Calvino fosse innamorato dell’artigianato dell’era pre-moderna; come adorava l’approccio episodico selvaggiamente divertente alla narrazione di Ariosto, Boccaccio, Cervantes e Rabelais.

Questi scrittori, credeva, si avvicinavano di più al racconto orale e alla rivisitazione delle storie, creando una “infinita molteplicità di storie tramandate da persona a persona”. I romanzi a puntate di Dickens e Balzac erano eredi di questa tradizione di Sheherazadean; “Bouvard et Pécuchet” di Flaubert ne segnò la fine. Calvino ha cercato di recuperare il legame tra forme narrative intricate e intrattenimento. In risposta a un sondaggio del 1985, “Perché scrivi?”, dichiarò: “Ritengo che intrattenere i lettori, o almeno non annoiarli, sia il mio primo e vincolante dovere sociale”.

Ciò che appariva nuovo nei romanzi di Calvino era, in verità, una resurrezione di qualcosa di considerevolmente più antico: una semplicità romantica nutrita da una devozione agli archetipi della letteratura epica e cavalleresca. In Italia, si è fatto un nome con tre libri ora noti come la trilogia “I nostri antenati“.

In “The Cloven Viscount” (1952), il visconte Medardo viene dimezzato da una palla di cannone turca. Il suo lato destro diventa un sadico, ossessionato dai sistemi di tortura; la sua sinistra è ora posseduta da una bontà e da una grazia malaticcia; entrambe le parti sono innamorate della stessa donna, Pamela. “Il barone tra gli alberi” (1957) tratteggia episodi della vita di un giovane aristocratico libresco che litiga con la sua famiglia e fa la sua casa nel baldacchino di rami che circondano la loro tenuta, facendo amicizia con animali, contadini e ladri.

In “Il cavaliere inesistente” (1959), il soldato omonimo è un’armatura bianca vuota animata da uno spirito di nome Agilulfo, che segue il codice cavalleresco alla lettera, ma non ha sentimenti carnali per l’amore o la guerra.

I primi romanzi di Calvino sono romanzi di dualità, ambientati in mondi divisi da forze rituali e anarchiche. Le divisioni non sono sottili, ma sono varie e deliziose. I personaggi appaiono come doppi e opposti: Agilulfo è all’ombra di un cavaliere appassionato e indisciplinato di nome Raimbaut. La vita donchisciottesca del barone che abita sugli alberi è narrata da un fratello minore che rimane saldamente a terra. Il visconte diviso in due è la sua immagine speculare.

L’atmosfera broccata delle ambientazioni medievali e della prima età moderna da cui Calvino trasse ispirazione è irruvidita dalla sua voce, delicatamente ironica nel tono, moderna nei dialoghi e sempre pronta per una buona battuta corporea. Infatti, per Calvino il linguaggio, nella sua capacità di dividere e unire allo stesso tempo le persone, impone il proprio tipo di separazione.

“Non abbiamo altra lingua in cui esprimerci”, spiega a Pamela la metà cattiva del Visconte. “Ogni incontro tra due creature in questo mondo è una reciproca lacerazione.” La sua buona metà conferma pateticamente: “Si comprende il dolore di ogni persona e cosa nel mondo come la propria incompletezza”.

Come in tutti i romanzi, ciò che è diviso all’inizio deve essere unito insieme alla fine; Il mondo e tutte le persone in esso devono essere guariti. Attraverso l’amore di Pamela, il visconte “divenne di nuovo un uomo intero, né buono né cattivo, ma un misto di bontà e cattiveria”.

Raimbaut alla fine indossa l’armatura vuota di Agilulf, unendo forte sentimento e buona forma, e cavalca verso il convento dove Bradamante, la damigella-cavaliere per cui si innamora, si è chiusa e sta scrivendo furiosamente la storia che stiamo leggendo. Il barone continua a saltare tra gli alberi fino a quando, un giorno, si aggrappa all’ancora di un pallone di passaggio e scompare nel cielo.

Eppure l’immagine più memorabile del romanzo è sicuramente quella di sua madre, la Generalessa, che segnala amorevolmente a suo figlio con bandiere militari. Sembra tornare indietro. Il loro allontanamento si dissolve.

La Generalessa è un personaggio minore, ma il connubio tra tecnica ed emozione che la porta in vita cattura in miniatura la teoria della buona narrativa di Calvino. A corte solo la tecnica doveva finire con vuote imitazioni di grande narrativa, come “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, un romanzo raccontato in “un linguaggio pieno di arte e significato ma che giace su cose come uno strato di pittura: un linguaggio chiaro e sensibile come nessun altro che dipingere comunque”, scrisse Calvino.

Ma corteggiare solo l’ineffabile mistero della vita significava finire con “romanzi noiosi come l’acqua dei piatti, con il grasso dei sentimenti casuali che galleggiava sopra”. Il romanzo dipinto mancava di un cuore pulsante. Il romanzo untuoso mancava di una cornice solida. Era l’ambizione di Calvino, sempre, di fondere i due in un lampo di pura magia.

Dopo “I nostri antenati”, Calvino cominciò ad allontanarsi dagli ordinati sdoppiamenti del romanticismo. La sua narrativa non si inclinava più verso una fantasia di epica interezza, ma verso la sensazione spezzata e dispersa dell’esistenza moderna. “La letteratura è stata frammentata (non solo in Italia)”, ha osservato nel suo saggio “Gli ultimi fuochi”. “È come se nessuno potesse più immaginare un argomento che colleghi e contrapponga opere, strutture, tendenze, al momento dell’invenzione, ricavando un significato generale dalla totalità delle singole creazioni”.

I suoi romanzi degli anni Settanta e Ottanta mettevano in scena questo argomento implicitamente, annidando storie attorno a elaborati schemi formali: i tarocchi si diffondono in “Il castello dei destini incrociati”, numerologia medievale in “Città invisibili”. Ma nemmeno questi sistemi potevano ripristinare ciò che il mondo moderno aveva perso: una connessione organica tra la parola e il mondo.

Le città che Marco Polo descrive a Kublai Khan in “Città invisibili” hanno nomi femminili affascinanti: Despina, Isidora, Dorothea, Theodora. Ci sono cinquantacinque città in tutto, e ognuna corrisponde a uno degli undici tipi di racconto che Marco Polo narra – città e desiderio, città e segni, città sottili e così via – quindi ognuno degli undici tipi appare cinque volte nel corso del libro.

Il romanzo inizia a Diomira, una città di bronzo e argento, abitata da persone stregate della cui felicità il visitatore diffida e invidia. Finisce a Berenice, la città ingiusta, un inferno di avidità, intrighi e decadenza, ma che nasconde tra le sue mura una città sofferente, giusta che viene anche chiamata Berenice. Come Marco Polo descrive all’imperatore, entrambe le versioni della città sono “avvolte l’una nell’altra, confinate, stipate, inestricabili”.

Cosa spiega la mutevolezza delle città di Marco Polo? Un quarto dei racconti apprendiamo che Marco Polo non ha alcuna conoscenza delle lingue asiatiche. Il nostro narratore non ha parlato affatto ma “ha estratto oggetti dal suo bagaglio – tamburi, pesce salato, collane di denti di maiale di verruca – e li ha indicati con gesti, salti, grida di meraviglia o di orrore, imitando la baia dello sciacallo, il fischio del gufo”.

Basandosi su segni esotici, è molto simile ai personaggi de “Il castello dei destini incrociati”, costretto a comunicare con i tarocchi. Entrambi i romanzi sono registrazioni di discorsi muti, del divario tra ciò che una persona crede di trasmettere quando manipola un oggetto e il modo in cui un’altra persona interpreta le sue manipolazioni. La città dei bei ricordi di una persona può essere la città degli incubi di un’altra, riflettendo la mancanza di una casa esistenziale di un mondo in cui nessuno può essere certo che le persone dicano ciò che vogliono dire o significano ciò che dicono.

Una dolorosa paura dell’incomprensione emerge da questi frammenti sfuggenti di storie, da questi personaggi sfuggenti e dalle strutture altamente artificiali che Calvino escogita per tenerli insieme. Questa paura è compensata in “Città invisibili” e “Il castello dei destini incrociati” dall’utopismo di Calvino, la sua sincera fede in un tempo e in un luogo in cui le immagini oniriche del romanzo di amore e giustizia possono essere rese reali e condivise, nonostante l’anomia dell’umanità. Come Marco Polo cerca di dire a Kublai Khan:

A volte mi basta un breve scorcio, un’apertura in mezzo a un paesaggio incongruo, un bagliore di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che si incontrano tra la folla, e penso che, partendo da lì, metterò insieme, pezzo per pezzo, la città perfetta, fatta di frammenti mescolati al resto, di istanti separati da intervalli, di segnali che si inviano, senza sapere chi li riceve.

Rimane una piccola speranza che qualcuno li riceva e, dopo averli ricevuti, li decodifica correttamente.

Il dolore dell’incomprensione è più acuto e irredimibile in “Mr. Palomar“, un romanzo propriamente tragicomico e l’opera più toccante di Calvino. Mr. Palomar prende il nome dall’Osservatorio Palomar, in California, un tempo sede del più grande telescopio ottico del mondo, in grado di catturare oggetti nel cielo a diverse scale e luminosità.

A differenza di questo tremendo apparato, il signor Palomar è un piccolo essere umano, “un po’ miope, distratto, introverso”. Le cose che si presentano alla sua osservazione non sono pianeti e galassie, ma onde, tartarughe, formaggi, pantofole, i seni di una donna che prende il sole sulla spiaggia e, naturalmente, se stesso – “l’io”, l’ego”, che porta solo la relazione più provvisoria con il mondo che lo circonda.

La fragilità di Palomar sembra rispecchiata dalla fragile struttura del romanzo: tre sezioni, ciascuna ramificata in tre sottosezioni, queste a loro volta ramificate in tre esili vignette; Ventisette vignette in totale. Sembrano a malapena abbastanza supporto per un’intera vita.

Ma la pura bellezza e il buon umore delle vignette trasformano ogni frammento della vita del signor Palomar in uno stato espansivo dell’essere. Il ritmo delle onde, uno stormo di storni, le venature blu del formaggio, la luce del sole che si increspa sul mare: racchiudono una bellezza e un mistero che il signor Palomar contempla con tale intensità da trasformarli in piccoli universi di significato per se stessi. L’ironia è che mentre possiamo vedere le infinite possibilità della sua visione, il signor Palomar stesso non può.

“Da un po’ di tempo si è reso conto che le cose tra lui e il mondo non procedono più come prima”, scrive Calvino. “Ora non ricorda più cosa c’era da aspettarsi, buono o cattivo, o perché questa aspettativa lo teneva in uno stato perennemente agitato e ansioso”. L’unico modo per essere in armonia con il mondo potrebbe essere quello di assentarsi completamente da esso. Nella vignetta finale, “Imparare ad essere morti”, il signor Palomar cerca di immaginare la cosa più oscura: il mondo dopo la sua morte:

“Se il tempo deve finire, può essere descritto, istante per istante”, pensa Palomar, “e ogni istante, quando descritto, si espande in modo che la sua fine non possa più essere vista”. Decide che si prefisserà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più di essere morto. In quel momento muore.

È un finale terribilmente divertente e terribilmente cupo. Eppure anche qui si trova un barlume di speranza. Se ognuna delle ventisette vignette è un istante della sua vita, e se ogni istante, quando descritto, si espande per sempre, allora nel momento in cui il signor Palomar muore vive. E se vive per sempre, non dobbiamo mai riconciliarci con un mondo senza di lui.

Il libro che ci dà Calvino il romantico e Calvino l’artigiano in egual misura è “Se in una notte d’inverno un viaggiatore“. È il libro che fa innamorare Calvino, perché è un libro sull’innamoramento attraverso la lettura, in particolare “leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, Se in una notte d’inverno un viaggiatore“.

All’inizio, tu, il lettore, vieni trasportato in libreria dove scegli “Se in una notte d’inverno un viaggiatore” tra le centinaia di libri che avresti potuto scegliere, solo per scoprire, dopo aver letto le prime trentadue pagine (su uno sconosciuto in una stazione ferroviaria in attesa di una misteriosa valigia), che c’è stato un errore di stampa e le precedenti sedici pagine continuano a ripetersi.

Restituendo il libro al negozio, scegli un libro diverso, chiamato “Fuori dalla città di Malbork” e, dopo aver letto un capitolo, scopri che anche lui è difettoso. Inizi un altro libro, “Appoggiati dal ripido pendio”, e un altro dopo, e così via, leggendo l’inizio di un romanzo dopo l’altro, in una ricerca prolungata segnata da frustrazione, rinvio e infinite possibilità.

I capitoli iniziali dei romanzi difettosi o incompleti si alternano a capitoli che descrivono la vita interiore solitaria di te, il lettore, e la tua ricerca sia del libro che di qualcuno con cui leggerlo. Quando torni al negozio per scambiare il primo libro, incontri una donna di nome Ludmilla, anche lì che restituisce una copia difettosa. Sei irrimediabilmente attratto da questa donna, che diventa, nella tua immaginazione, l’Altro

Lettore. L’altro lettore, tuttavia, viene fornito con un bagaglio serio. C’è sua sorella, Lotaria, una femminista militante i cui amici ti gridano contro la “sessualità polimorfa-perversa” e “le leggi di un’economia di mercato”. C’è l’eccentrico professor Uzzi-Tuzii, esperto di cimmero, la lingua morta da cui sembra essere stato tradotto uno dei libri. E c’è il misterioso Ermes Marana, un traduttore che è un operativo o un infiltrato di un gruppo o gruppi che organizzano un commercio clandestino di romanzi contraffatti.

Alcuni di questi sono prodotti da algoritmi informatici; altri da ghostwriter senza volto che, sotto le spoglie del realismo, infilano pubblicità di liquori, abbigliamento, mobili e gadget. Il Lettore percepisce che tutto e tutti sono collegati attraverso Ludmilla. Ma come? E, cosa più importante, cosa imparerai se colleghi un libro a un altro?

Ciò che imparerai, soprattutto, è quanto poco sai, e quanto poco puoi sapere, sulla somma totale degli scritti che compongono la categoria della letteratura. Nella libreria, devi navigare in una gerarchia letteraria insidiosa, un campo di battaglia non meno scoraggiante di quelli affrontati dai cavalieri medievali:

Ti sei fatto strada attraverso il negozio oltre la spessa barricata di libri che non hai letto, che ti aggrottavano le sopracciglia dai tavoli e dagli scaffali, cercando di intimidirti. Ma sai che non devi mai lasciarti stupire, che tra loro si estendono per acri e acri i libri che non hai bisogno di leggere, i libri fatti per scopi diversi dalla lettura, libri letti anche prima di aprirli poiché appartengono alla categoria dei libri letti prima di essere scritti.

È contro la base dei libri non letti che il Lettore fa la scelta di cosa leggere. Il sistema di classificazione di Calvino ci libera dalle tipiche gerarchie di genere – Serious Fiction contro Genre Fiction, Adult versus Young Adult Novel – e dalle noiose discussioni che le accompagnano.

Ci ricorda che ogni scelta che si fa su cosa leggere è fatta in un contesto di profonda e umiliante ignoranza, e che qualsiasi tentativo di chiamare un libro il migliore o il peggiore libro che si sia letto questo mese, quest’anno o in questa vita richiede un necessario autoinganno per quanto riguarda la propria conoscenza della letteratura.

Questo è un punto facile da trascurare, perché la conoscenza di Calvino è vasta e profondamente riconoscente. La prova è nel pastiche. “Se in una notte d’inverno” è un romanzo che rifiuta di cominciare, perché è tutto un inizio: come lo riassumeva Calvino, “un romanzo fatto di sospetti e sensazioni confuse; uno di sensazioni robuste e piene di sangue; uno introspettivo e simbolico; uno rivoluzionario-esistenziale; uno cinico-brutale; una delle manie ossessive; uno logico e geometrico; uno erotico-perverso; uno terroso-primordiale; uno apocalittico-allegorico”.

Sentiamo piccoli tocchi rubati a Tolstoj, Bulgakov, Tanizaki, Borges e Chesterton. I cliché del romanticismo, del mistero, del crimine e dell’erotismo vengono elaborati e rielaborati fino a quando non si sentono di nuovo nuovi. Al di sopra di questi effetti locali rimbomba la voce dell’antico, gioioso e onnisciente narratore del romanzo, un “fratello e doppio” per te, il lettore, da cui il libro continua costantemente a scivolare via.

L’incapacità di leggere, o di leggere abbastanza, è la sfida da cui il desiderio di leggere trae il suo potere compulsivo ed erotico. In “If on a Winter’s Night”, l’incapacità di leggere è colpa di un’industria culturale in decadenza – una cospirazione di editori, editori, traduttori, ghostwriter – che non dedica più molta attenzione amorevole a come vengono creati i suoi prodotti.

Ha sostituito l’ingegno umano con la prevedibilità dello stile algoritmico, l’artigianalità con la produzione globale. Sotto il suo controllo, la letteratura si è ossificata in una serie di risposte dei lettori decodificate. Al contrario, “If on a Winter’s Night” ci presenta un narratore in sintonia solo con i desideri ribelli di Ludmilla.

“Il romanzo che più vorrei leggere in questo momento”, dichiara Ludmilla in un capitolo, “dovrebbe avere come forza trainante solo il desiderio di narrare, di accumulare storie su storie” – e il prossimo romanzo è proprio così. E in un altro: “Il libro che vorrei leggere ora è un romanzo in cui senti la storia arrivare come un tuono ancora vago, la storia storica insieme alla storia dell’individuo” – ed ecco, il suo desiderio è il suo comando.

In “If on a Winter’s Night”, il libro magico è il libro dei contro-incantesimi alle arti oscure dell’industria editoriale. È il libro che muta secondo gli impulsi imprevedibili di un lettore, piuttosto che il libro che standardizza e offusca i desideri di un lettore. È il libro incompiuto e incompiuto; Il libro che è la contraffazione di tutti i libri contraffatti, il loro doppio e la loro negazione.

La peculiare inventiva del romanzo risiede nella peculiare mancanza di inventiva dei romanzi al suo interno. Sono imitazioni prodotte in serie o originali? Buono o cattivo? Come si può dire la differenza? L’incapacità di vedere l’oggetto intero e intero guida la storia d’amore. Il libro magico si presta a conversazioni frenetiche e inesauribili con Ludmilla sulla sua vera natura, e quelle conversazioni portano dritte a letto.

Il romanzo può mettere insieme il lettore e l’altro lettore, ma la loro connessione più profonda emerge dalla decisione di parlare, discutere, interpretare l’uno con l’altro i segni che appaiono dentro e fuori la pagina – una necessità sensuale e intellettuale in un mondo in cui le parole sulla pagina contano per sempre meno persone.

“If on a Winter’s Night”, nonostante la sua mescolanza di ironia e serietà, non immagina l’amore tra i lettori come un primo amore o addirittura un giovane amore. La scelta che tu, il Lettore, fai di quale libro leggere, o quale amante prendere, avviene in relazione a tutti gli altri libri che hai letto, o a tutte le altre persone che hai amato. Ti portano ad apprezzare questo particolare membro di un genere o di una specie.

Questa è la negoziazione su cui ruota il giudizio – dei libri, delle persone. L’effetto non è quello di sminuire i propri sentimenti sottoponendoli al linguaggio della classificazione. È quello di espandere la portata dell’amore a molti oggetti diversi, o persone diverse. La sua molteplicità ricorda lo sfogo più esuberante di Calvino ne “Il mondo scritto e il mondo non scritto”:

Amo Stendhal soprattutto perché solo in lui la tensione morale individuale, la tensione storica, la forza vitale sono una cosa sola, una tensione romanzesca lineare. Amo Pushkin perché è chiarezza, ironia e serietà. Amo Hemingway perché è concreto, sobrio, volontà di felicità, tristezza. Amo Stevenson perché sembra volare. Amo Cechov perché non va più lontano di dove sta andando. Amo Conrad perché naviga nell’abisso e non vi affonda dentro. Amo Tolstoj perché a volte mi sembra di capire come fa lui e poi non lo faccio. Amo Manzoni perché fino a poco tempo fa lo odiavo.

C’è sempre un pericolo nel leggere Calvino direttamente. Può l’amore – delle persone, dei libri – essere così ampiamente diffuso e intenso? Quando la molteplicità sfuma nella doppiezza o nella superficialità? Come per suscitare queste domande, “If on a Winter’s Night” si conclude, sorprendentemente, con una scena di tranquilla contentezza domestica:

Ora sei uomo e moglie, Lettore e Lettore. Un grande letto matrimoniale riceve le tue letture parallele.

Ludmilla chiude il suo libro, spegne la luce, appoggia la testa contro il cuscino e dice: “Spegni anche la tua luce. Non sei stanco di leggere?”

E voi dite: “Solo un attimo, ho quasi finito Se in una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”.

Quanto è intelligente il trucco con cui il personaggio del lettore e il lettore del libro finiscono esattamente allo stesso tempo! E quanto è conveniente che a te, lettore, sia stato permesso di indulgere in avventure intellettuali ed erotiche senza mai lasciare le comodità di casa! La narrativa iniziata in libreria finisce così nel grande letto matrimoniale, dove infiniti libri si sono ridotti a due libri, infiniti lettori a due persone definite: uomo e moglie.

Ricorda un altro letto, alla fine di un romanzo enciclopedico che Calvino ammirava, “Ulisse”, in cui anche l’uomo e la moglie perseguono letture parallele della loro vita e dei loro giorni. Eppure, dove quel romanzo termina con un estatico “Sì”, questo termina con un implicito “No” o, peggio, un distratto “Solo un momento, cara”.

In questa casta scena della camera da letto, tutto è tranquillo. Tutto è risolto. I sentimenti disordinati e disordinati della ricerca – di un libro, di un amante – sono stati sottomessi. “Non fare ironia su questa prospettiva di armonia coniugale: quale immagine più felice di una coppia potresti contrapporle?” Chiede Calvino.

Ma se tu, il lettore, ti senti disobbediente, potresti guardare con un certo sospetto la distanza tra il lettore dell’inizio e il marito della fine. Se si svegliasse la mattina dopo e andasse al lavoro a piedi e passasse davanti alla libreria nell’angolo trafficato, si fermerebbe a esaminare il libro nella finestra? Avrebbe aperto la porta ed entrato? Avrebbe lasciato che la sua mente scappasse via con lui, allora e lì? Davvero?

Il governo governa male e le opposizioni si oppongono peggio (auguri, Italia) (linkiesta.it)

di

I pasquettari

Meloni ha preso il centro del ring e né la malattia di Berlusconi né le sparate dei suoi ministri la impensieriscono. Sul fronte avverso, il Pd guarda sempre più a sinistra, Conte è il nulla mischiato a niente e il Terzo Polo deve capire cosa fare da grande

Le sorprese politiche di questa Pasqua sono tre. La più importante è naturalmente la malattia di Silvio Berlusconi, con tutte le conseguenze sulle quali si interroga soprattutto il mondo di Forza Italia; la seconda riguarda il Terzo Polo e la direzione del Riformista da parte di Matteo Renzi; la terza è la nuova segreteria del Partito democratico annunciata ieri da Elly Schlein.

A proposito dell’impatto che la forzata assenza di Berlusconi dalla politica potrebbe avere sul governo è probabile che Giorgia Meloni non abbia molto da temere nella sostanza da eventuali fibrillazioni degli “azzurri”: i problemi del governo dipendono da fatti reali (Pnrr, immigrazione, prezzi eccetera) più che dai nervosismi nella maggioranza.

E dietro gli aspetti persino pittoreschi o grotteschi delle performance di ministri e dirigenti di Fratelli d’Italia resta la sensazione, a livello di massa, che la premier abbia preso saldamente il centro del ring, mentre l’opposizione sbuffa in acque procellose così che invece di andare a un’opera di chiarificazione e a una tendenziale unità di intenti questa continua a parlare lingue diverse e talvolta incomprensibili.

Lasciando stare Giuseppe Conte – che si è inabissato in un silenzio che in realtà non disturba affatto ma che è comunque singolare – ora che Schlein ha formato la sua segreteria (ventuno persone, un po’ tantine) non ci sono più alibi per rimandare idee, progetti e iniziative del cosiddetto “nuovo Pd”, e già dai prossimi giorni si dovrebbe cominciare a capire quale sia la lettura che il gruppo dirigente dà della situazione italiana e soprattutto come intenda mutare il corso delle cose: quale linea politica, insomma, perché fino ad oggi non si è capita.

La nuova segreteria è a somiglianza della leader, giustamente. Molte facce nuove e sconosciute, il che è un bene come segno di liberazione dei vecchi capibastone e i loro famigli. I più noti sono per lo più – diciamo con termine generico – di sinistra: Peppe Provenzano, Sandro Ruotolo, Cecilia Guerra, Pierfrancesco Majorino, Alfredo D’Attorre, Alessandro Zan, Marta Bonafoni (che dovrebbe essere la numero due, in quanto coordinatrice della segreteria) mentre i riformisti sono in netta minoranza.

Si conferma dunque quello che più volte abbiamo definito «la radicalizzazione del Partito democratico», una sorta di neo-movimentismo che rompe decisamente con una lunghissima tradizione che ha sempre posto al centro il gioco politico, la ricerca di una sintesi e di una visione generale.

Alcune biografie parlano chiaro. Ruotolo viene da Sel, Guerra e D’Attorre da Articolo Uno, l’emergente Bonafoni vanta il classico movimentismo tra radio private, associazionismo, beni comuni, femminismo, ambientalismo: altro che Ds e Margherita, i tempi stanno per cambiare.

È certamente troppo presto per giudicare, ma questo, che pare un panel buono più per i talk show, sarà in grado di dirigere un’organizzazione politica di massa? Sarà il tempo, e fra non molto, a dire se l’operazione avrà funzionato. Mentre il Partito democratico sancisce una volta di più il suo spostamento a sinistra, nel Terzo Polo ci si chiede cosa succederà dopo la decisione di Matteo Renzi di andare a dirigere Il Riformista, stando peraltro fuori dagli organismi dirigenti del Terzo Polo, decisione maturata in gran segreto e addirittura non nota nemmeno a Carlo Calenda il quale, a ragione, tiene a specificare che il nuovo quotidiano non sarà l’organo del partito.

È chiaro che la questione è tutta politica. Questa sorta di doppio binario (giornale e partito) nelle intenzioni di Renzi dovrebbe rappresentare una combinazione produttiva di idee, dibattito e finanche allargamento dell’area d’influenza del Terzo Polo – o come si chiamerà – soprattutto verso i moderati di destra, ma è anche possibile una confusione di messaggi e una sovrapposizione di ruoli fra lui e Calenda tale da complicare il tutto.

La mossa di Renzi, insomma, ripropone una volta di più l’esigenza di un chiarimento interno sulla linea del nascente partito, tenendo conto delle varie novità che stanno emergendo. Dunque anche in questo caso solo il tempo chiarirà come stanno realmente le cose e i ruoli dei due leader.

Quello che si può dire adesso è che che mentre la destra tende a unificarsi e comunque nel bene e nel male riesce a occupare tutta la scena – comprese le follie di Fabio Rampelli e le provocazioni di Ignazio La Russa –, le opposizioni vanno ognuna per conto loro affastellando una Babele di messaggi che va dal corteggiamento di Forza Italia alla sintonia con i centri sociali, addentrandosi in un labirinto politico di cui al momento non si scorge l’uscita.