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Il libro Francesco Diasio, «Etere. Storie di
radio antenne e frequenze dal mondo»
È un atto di pura poesia chiamare Radio Gardenya un’emittente all’interno di un campo profughi: «È una storia alla quale sono affezionato.
Parliamo del Kurdistan iracheno. In quella situazione di post conflitto abbiamo messo in piedi due radio. La prima nella capitale Erbil, la seconda nel campo profughi di Arbat, che conta circa duecentomila persone, nei pressi di Sulaymaniyah vicino al confine con l’Iran.
Radio Gardenya è stata un’esperienza eccezionale, in quanto siamo riusciti a installarla in un luogo che includeva culture diversissime e con tanti giovani che avevano veramente voglia di fare pur non avendo gli strumenti necessari».
Lui è Francesco Diasio, di mestiere specialista internazionale di comunicazione per lo sviluppo per conto della FAO. Prima di questo è stato segretario generale dell’Associazione Mondiale delle Radio Comunitarie, ha fondato e portato avanti Amisnet a cui si è dedicato dopo l’esordio presso l’emittente romana Radio Città Futura. Una vita dedicata alla diffusione del mezzo radiofonico e alle istanze libertarie che questo può portare con sé.
Quanto accaduto negli ultimi venticinque anni, Diasio lo ha raccontato nel libro Etere. Storie di radio, antenne e frequenze dal mondo che include anche la prefazione di Marino Sinibaldi, la postfazione di Francesca Paci e le illustrazioni di Gianluca Costantini.
Il progetto ha un carattere multimediale in quanto implementa qrcode che rimandano a inserti audio e visuali provenienti direttamente dalle missioni svolte da Diasio in giro per il mondo. Le narrazioni incluse nel testo sono il racconto dei progetti da lui seguiti in vari continenti, a cui si aggiunge volta dopo volta una descrizione storico-politica per aiutare il lettore a contestualizzare al meglio.
Sempre su Radio Gardenya: «Si è trattato di un momento particolare. Di fatto, una radio pirata. Mentre per la radio ad Erbil abbiamo svolto ogni procedura necessaria per avere la licenza ufficiale, dentro il campo dei rifugiati questo era impossibile. Nei fatti, abbiamo acceso una frequenza tenendo la potenza di trasmissione bassa di modo che il segnale rimanesse all’interno del campo.
Al cui interno va ricordato che si trovano anche rifugiati iracheni, siriani ed altri ancora. Ognuno con la sua lingua e il proprio credo religioso: mettersi attorno a un tavolo per avere una sorta di politica editoriale comune è stata una sfida. Riuscita».
Sfogliando il libro, ci si rende conto di come il lavoro di Diasio e di chi con lui ha collaborato, equivale per certi versi ad una missione. Raggiungere territori mai agevoli e dove prosperano difficoltà di vario genere per impiantare trasmettitori e antenne, costruire studi e redazioni, ha indubbiamente con sé l’aura di un mestiere quasi ottocentesco.
Detratte le considerazioni romantiche, rimane l’importanza dell’accensione di un megafono che permette di diffondere notizie, insegnamenti, confronti e critiche politiche e sociali al potente di zona del momento. L’accessibilità al messaggio on air, ha un valore politico nei contesti geografici in cui viene irradiato.
Significativa in tale direzione è la presenza reiterata da Diasio in Tunisia: «È stata per certi versi l’emblema delle primavere arabe, con quella luce di speranza che in tempi recenti purtoppo non brilla più come prima. Da quelle parti è stato fatto un doppio lavoro: prima della caduta di Ben Ali sostenendo in maniera clandestina gli attivisti per i diritti umani che volevano un proprio strumento di comunicazione, supportandoli sia dall’Italia che facendo formazione in loco, così permettendogli di metter su delle strutture che aggirassero la censura in Tunisia.
Dopo la caduta di Ben Ali, in quanto si sono aperte praterie di possibilità, agevolandoli nella scrittura di regolamenti e leggi di settore e allo stesso momento aiutando le radio clandestine che uscendo allo scoperto hanno pian piano ottenuto l’accesso alle licenze di trasmissione e conseguentemente, necessitavano di strumentazione e formazione per l’utilizzo delle stesse, orientamento al lavoro e messa in rete fra di loro per far si che non lavorassero in maniera isolata».
Il racconto scivola agile e privo di tecnicismi, zeppo invece di aneddoti in cui la Tunisia di Diasio è anche quella delle giornate in cui incontra attivisti, si da il via a Radio Kalima, si cerca di far entrare trasmettitori in incognito divisi in vari pezzi, si incontra chi sta facendo nascere un’altra radio dal nome meraviglioso, Radio 3R, dove la consonante sta per Regueb, Révolution, Renouveau.
Capitolo dopo capitolo ci si ritrova in Mauritania, dove gli viene chiesto di favorire lo sviluppo del settore radiofonico indipendente giungendo fino nel meridione del paese a Kiffa distante circa ottocento chilometri da Nouakchott, dalle parti di Pristina, Kosovo, per cercare di supportare Radio 21 mentre attorno si respira ancora l’atmosfera funerea lasciata dalle Tigri di Arkan, ed ancora ad Islamabad in Pakistan nel 2010 per raggiungere Power 99 FM tra aree interdette alla telefonia e green zone di sicurezza.
Oltre ogni memoria, quello che emerge dalle pagine con veemenza è l’importanza del senso di responsabilità di un lavoro che ha numerosi punti di contatto con quelle che sono le regole auree del giornalismo di frontiera.
In primis, il rispetto per il fixer e relative figure che sul campo sono d’aiuto durante i progetti svolti: «Questo pericolo esiste. Una delle cose che bisogna sempre tener presente, soprattutto quando si parla di sostegno ai giornalisti in caso di pericolo, è che spesso si compie l’errore di tirar su progetti con strumenti fantastici per poi non curarsi delle conseguenze del proprio operato una volta tornati a casa nel nostro mondo sicuro, mentre le persone che restano in quei territori sono quelle che rischiano davvero.
Non bisogna mai spingersi troppo in là, non bisogna mai pensare che il nostro mondo ideale di libertà di espressione sia quello che vogliamo installare. Il meglio è nemico del buono, per cui cercare la migliore soluzione spesso e volentieri è nemico del trovare la soluzione buona, accettabile in quel contesto. Questa è una cosa da non dimenticare mai. Il pericolo è che quando finiscono le attività sul campo, i progetti si afflosciano o muoiono.
In tale senso, uno degli elementi su cui ho sempre cercato di lavorare assieme a colleghe e colleghi sul posto, è stato quello di garantire una sostenibilità. Ovvero come riuscire a far si che una volta finiti i soldi di un progetto, le strutture possano continuare ad andare avanti. Con una sostenibilità che deve essere prima sociale e poi finanziaria: solo con quella sociale la rete che lavora sul territorio attorno a te, può trovare una sostenibilità reale e quindi economica.
Tutto ciò, può trasformarsi in una politica editoriale della radio, aperta a nuove esperienze e gruppi sociali. Dobbiamo pensare che tutte queste cose debbano continuare a lavorare quando noi andremo via. E chi vi è dentro, che possa farlo in sicurezza».
L’arte fotografica come arma del cambiamento. Le mostre a Lodi fino al 27 ottobre.
Per il direttore Prina: “Una fotografia necessaria”
La parola guerra è tornata sulle nostre bocche e per questo “la fotografia è necessaria”, come ama definirla Alberto Prina, direttore del Festival della Fotografia Etica che si terrà a Lodi tutti i week end fino al 27 ottobre. Una forma d’arte che (da sempre e per fortuna) obbliga a prendere contatto con la realtà e a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie. 843 i fotografi dei cinque continenti che hanno inviato oltre un migliaio di progetti. Sette i fotografi che si sono aggiudicati la vittoria, o la menzione speciale, nelle categorie che costituiscono il Premio.
“Gli scatti sono sempre un bilancio tra la componente estetica e quella etica, quest’ultima nelle nostre fotografie ha un peso molto importante – ci spiega Alberto Prina. – C’è bisogno di dare attenzione ai valori reali e concreti e di ragionare su di essi. L’elemento fondamentale di questi lavori è che rispecchiano la realtà che viviamo”.
Alcuni dei valori a cui Prina fa riferimento, trattati in questa edizione del Festival – giunto al suo quindicesimo anno – sono: la solidarietà, con il progetto di PizzAut del fotografo Leonello Bertolucci, che racconta la pizzeria rivoluzionaria fondata sull’inclusione, dove pizzaioli e camerieri sono giovani con autismo; il valore della pace, trattato dalla sezione “Uno Sguardo sul Mondo” – visitabile al Palazzo della Provincia – con la mostra “The War in Gaza Through the Eyes of its Photojournalists”, promossa dall’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA); e ancora, il valore di un buon governo, investigato dagli scatti di Giles Clarke con il reportage “Haiti in Turmoil”, in cui viene raccontata la drammatica guerra civile che imperversa il Paese dal 2021.
“Noi crediamo che la fotografia sia lo strumento più potente su cui ispirarci – continua Prina. – Potente perché le fotografie creano emozioni. Senza emozioni non vi è coinvolgimento e senza coinvolgimento non vi è cambiamento”.
Per Prina si tratta di una “necessità”: di ragionare, di confrontarsi, di dialogare di fronte a delle foto che ci rimandano lo specchio della realtà che ci circonda.
Per il direttore, il Festival della Fotografia Etica è paragonabile ad una nave, dove il vento favorevole è la fotografia, ovvero i lavori dei fotoreporter: “Noi dobbiamo dire un immenso grazie a questi fotografi, perché sono loro con i loro lavoro sul campo a fare la vera fatica, con perseveranza e costanza”.
L’edizione del Festival quest’anno sarà arricchita da due importanti progetti: un podcast in collaborazione con Chora Media, che accompagnerà tutti e cinque i week end inaugurali dell’evento e poi la mostra ospitata nella Chiesa dell’Angelo per festeggiare i 15 anni del Festival, dove verranno esposte le 15 copertine che ne hanno fatto la storia. Inoltre, sarà possibile visitare l’unica tappa lombarda della mostra itinerante “World Press Photo”, il grande concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da quasi 70 anni, indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam.
Oltre 150 immagini, provenienti dai cinque continenti, che narrano storie straordinarie, attraverso i lavori realizzati per alcune delle più importanti testate internazionali come National Geographic, BBC, CNN, The New York Times, Le Monde, ed El Pais. Un’occasione preziosa per riflettere, accompagnati anche da visite guidate, incontri e dibattiti. Per non chiudere più gli occhi davanti a quello che ci circonda.
Speciale USA 2024: verso le elezioni
Questa storia non esiste. È una bufala, un falso, una bugia. Parla di alligatori liberati nel Rio Grande per dilaniare i clandestini al confine Sud, sostanze chimiche nell’acqua che trasformano i bambini in transgender, cani e gatti fatti arrosto, bagni di sangue. Mette in piazza le abitudini sessuali di JD Vance, il vero colore di Kamala e i finti attentati a Trump. Spiega che il governo controlla gli uragani, il wifi provoca il cancro e il vaccino anti-Covid è tutta una cospirazione.
In un mondo migliore, la vera notizia sarebbe che se ne parli. Le presidenziali hanno però la capacità di tirare fuori il peggio dall’America e da mesi la gara è a chi la spara più grossa. Vale dunque la pena tornarci sopra perché la somma dei falsi che da mesi animano la conversazione pubblica è la fotografia di uno stato d’animo – un distillato degli umori che ribollono nella pancia del paese.
È un gioco al ribasso dove nessuno è innocente, i fact-check lasciano il tempo che trovano e la deriva partigiana è garantita. E mentre i fatti sfumano in un’approssimazione, la verità finisce all’angolo e il terreno di scontro diventa sempre più scivoloso.
La traiettoria del falso è ormai rodata. Quella degli immigrati haitiani che nella cittadina di Springfield, Ohio si dice divorino cani e gatti è un caso da manuale. La bufala debutta sui social locali, il regno delle paranoie, e da lì prende il volo verso la scena nazionale. È la parabola perfetta delle paure che animano l’elettorato di destra. Intercetta in chiave di razzismo i due temi al centro di queste elezioni, economia e immigrazione.
Mescola orrore, disprezzo, violenza: è la voce del cittadino qualunque travolto dai demoni alla modernità in una delle infinite piccole città che punteggiano la flyover country. Rimbalza su X e da lì a un comizio di JD Vance. Trump, che della menzogna ha fatto il suo stile, la rilancia al dibattito presidenziale e a quel punto non c’è verso di tornare indietro.
Seguono smentite, inchieste, interviste, commenti – un cataclisma che chissà quanto sposta in chiave elettorale. I sostenitori si compattano, gli oppositori urlano allo scandalo e ognuno resta della propria opinione. Intanto a Springfield fioccano gli allarmi bomba, le scuole sono evacuate e gli immigrati haitiani si sentono a rischio. Poco dopo, un gruppo di estremisti di destra sbarca nella cittadina e pattuglia in armi le vie a difesa dei cittadini americani, s’immagina quelli bianchi.
È il genere di scenario diventato familiare negli anni della presidenza Trump – forse l’unica ad aprirsi con un falso clamoroso (il milione e mezzo di persone alla cerimonia di inaugurazione) e concludersi con un falso ben più terrificante (le elezioni rubate nel 2020). Allora come oggi, le parole sono pietre e i social hanno la capacità di trasformare ogni idiozia in un pericolo mortale. Per conferma, basta tornare al 6 gennaio e all’attacco al Campidoglio.
Per quanto ormai prevedibili, il caos e i fuochi d’artificio di Donald Trump restano abbaglianti. Il che non significa che i democratici siano candidi gigli del campo.
Pur senza scendere al suo livello, nota sul New York Times James Kirchik, ricercatore del Foundation for Individual Rights and Expression, nel dibattito presidenziale neanche Kamala Harris ha “aderito strettamente alla verità”. Come dire, tecnicamente non ha mentito ma sfumato, approssimato, aggiustato.
Prendiamo la storia della marcia suprematista a Charlottesville, in Virginia, dove nell’estate 2017 centinaia di estremisti di destra sfilano contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee, la violenza razziale esplode e la giovane Heather Heyer è uccisa.
Secondo Harris, scrive Kirchik, Trump “ha detto che c’erano ‘persone perbene’ tra i neonazisti e i suprematisti bianchi a Charlottesville sette anni fa, una distorsione ripetuta spesso di una dichiarazione fatta da Trump all’epoca che, tuttavia, rimane un articolo di fede tra i liberali americani”.
Harris, continua, “ha anche affermato in modo ingannevole che Trump ha detto che ci sarebbe un ‘bagno di sangue’ se non venisse eletto, quando il riferimento originale riguardava la perdita di posti di lavoro nell’industria automobilistica statunitense.”
Infine, conclude il commentatore conservatore, non è vero che come ha detto Harris “Non c’è un solo membro delle forze armate degli Stati Uniti in servizio attivo in una zona di combattimento in alcuna zona di guerra nel mondo — la prima volta in questo secolo.”
“Questa affermazione – continua Kirchik – ignora le migliaia di truppe americane schierate in Medio Oriente dal 7 ottobre, per non parlare dei militari uccisi in Giordania nell’attacco con droni di gennaio. Nonostante queste affermazioni siano false, tuttavia è stato solo Trump che i moderatori di ABC, David Muir e Linsey Davis, hanno cercato di correggere.”
Nel pieno di un dibattito presidenziale, con 67 milioni di spettatori collegati in diretta, sono decisioni che si prendono nel giro di secondi. A posteriori, la domanda diventa però inevitabile. È più importante demistificare in diretta la bufala sugli haitiani di Springfield o la storia del bagno di sangue annunciato da Trump in caso di sconfitta? Prima la clamorosa menzogna o la garbata mistificazione? Qual è più urgente, quale più allarmante? Sono interrogativi destinati a restare senza risposta perché non è un mistero che, fin dall’avvio della campagna elettorale, il circuito dell’informazione mainstream usi due pesi e due misure – uno standard per i democratici e uno per i repubblicani.
A meno di ricorrere a qualche strampalata teoria della cospirazione, non si spiega altrimenti come le condizioni di Biden siano rimaste così a lungo un mistero e come a giugno le rassicurazioni della portavoce della Casa Bianca Karin Jean-Pierre siano passate senza colpo ferire.
Il presidente, aveva garantito Jean-Pierre, era come sempre al lavoro e i video che lo mostravano traballante, smarrito e in difficoltà pura “disinformazione” – “falsi da due soldi”. Una settimana dopo, il disastroso dibattito con Trump illuminava la menzogna di una luce impietosa aprendo una crisi politica senza precedenti.
Nel vortice seguito alle dimissioni di Biden, i ranghi si sono stretti ulteriormente. Le domande scomode tacciono, i fact-check si applicano di preferenza all’opposizione e gli articoli adoranti rimpiazzano il ragionamento politico. “The only patriotic choice for President”, titolava di recente l’inserto di opinioni del New York Times sotto una gigantesca foto in bianco e nero di Kamala Harris e la ragione è tutta qui. In gioco c’è il ‘bene del Paese’.
Non è il momento di fare gli schizzinosi e dunque si sorvola sui limiti della candidatura, le inversioni di rotta (il fatto che i suoi valori non siano cambiati pare una spiegazione sufficiente), una piattaforma elettorale a lungo così vaga da far sembrare Trump uno statista e perfino sugli scivoloni di Tim Walz, che durante Tienanmen forse era a Hong Kong o forse chissà.
Sono mesi d’oro per quel giornalismo educativo che negli Stati Uniti aveva già dato pessima prova di sé nel 2016, quello che conduce il lettore/ascoltatore/spettatore alla giusta conclusione più che informare. Si può solo sperare che la Storia non si ripeta. In ogni caso, è uno spettacolo snervante e se sia davvero un bene per il tessuto della democrazia è tutto da dimostrare.
Mentre scrivo, mancano tre settimane all’Election Day e in molti stati già si vota. Per dirla con Obama, oggi il più influente sostenitore di Harris, elezioni come questa si vincono e perdono negli ultimi giorni. In questa volata, il circuito dell’informazione riveste un ruolo centrale. Milioni di americani, fra cui la sottoscritta, si avviano alle urne senza mai essere stati lambiti dal flusso vivo della politica.
La stampa locale sta esalando ovunque l’ultimo respiro mentre per ovvie ragioni i comizi, dibattiti e incontri si concentrano negli stati in bilico e nelle metropoli. Nel resto del paese non resta dunque che affidarsi ai giornali, alla tv, ai podcast e ai social, sempre più decisivi soprattutto per l’elettorato più giovane.
A queste condizioni, realtà e fiction, informazione e spettacolo si confondono senza tregua – il Rio Grande pullula di alligatori; Harris costruirà il muro al confine Sud; il governo ha abbandonato le vittime dell’alluvione; Trump non beve, non fuma, non usa droghe; gli immigrati divorano i pets; Robert F. Kennedy Jr. ha un verme nel cervello; Trump ci ha lasciato la peggiore disoccupazione dopo la grande depressione; Trump deporterà 13 milioni di immigrati illegali.
Cos’è vero, cos’è falso? E chi ha tempo e voglia di starci dietro? In questo fuoco incrociato di bugie e mezze verità, ognuno si aggrappa ai suoi giudizi e pregiudizi, la spaccatura fra democratici e repubblicani si approfondisce e il malessere cresce come i prezzi al supermercato.
Peccato, perché i sondaggi mostrano che la credibilità dei media resta molto più elevata delle diverse piattaforme social e secondo uno studio di Bookman e Kalla pubblicato dall’American Journal of Political Science, “i messaggi persuasivi cambiano sia le valutazioni dei candidati che le scelte di voto e inducono defezioni partitiche; e i messaggi con maggiore contenuto informativo sono più persuasivi”. In altre parole, la gente merita rispetto. E non è questo il sale della democrazia?
In Se noi bruciamo ha raccontato tutte le contestazioni e le rivolte dell’ultimo decennio.
Abbiamo parlato con lui di rabbia, repressione, e della rara e famosa pars construens.
Se noi bruciamo è il secondo libro di Vincent Bevins, pubblicato da Einaudi. È un racconto di tutte le proteste popolari scoppiate negli anni Dieci: in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud, Cile. Bevins racconta le speranze e le delusioni di queste proteste, dando voce a chi vi ha preso parte. E si chiede: come possono funzionare queste rivolte? Bevins è nato a Santa Monica, ha quarant’anni, è stato corrispondente dal Brasile e dall’Indonesia per il Financial Times, il Los Angeles Times e il Washington Post.
ⓢ Come ti è venuta l’idea di scrivere Se noi bruciamo?
Non ho scelto di interessarmi alle rivolte popolari, è un fenomeno esploso fuori da casa mia a San Paolo, in Brasile, nel giugno 2013. Da lì, mi sono appassionato. Nel 2019, subito dopo l’uscita del mio primo libro, ho deciso di ampliare le ricerche. Ho trascorso quattro anni in giro per il mondo, intervistando circa 250 persone provenienti da 12 nazioni diverse e leggendo i libri più rilevanti sull’argomento. Ho scritto Se noi bruciamo in quattro anni, dopo averlo concepito per un decennio.
ⓢ Pensi sia vero che, come diceva Churchill, la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che sono state sperimentate finora?
Io e Churchill abbiamo una concezione diversa di cosa sia una democrazia. Il mondo è cambiato. Se consideri democrazia soltanto la gestione formale di elezioni periodiche, penso che sia una forma di governo imperfetta. Nel contesto di Churchill ci sta guardarsi intorno e vedere il fascismo, i totalitarismi, e considerarli inferiori. La democrazia, però, non dovrebbe essere soltanto l’esistenza di processi che selezionano i leader, ma un sistema dove i leader rappresentano davvero il popolo, dove gli elettori hanno un potere decisionale, non solo di scegliere se sarà questo o quel partito a governare. Le prime proteste sui generis sono nate alla fine del ventesimo secolo, e sono esplose negli anni Dieci. Oggi gli eletti rispondono alle élite economiche, non ai cittadini. C’è differenza fra i finti processi democratici e le democrazie nel vero senso della parola.
ⓢ In Italia abbiamo il Movimento 5 Stelle, utile strumento per incanalare la rabbia popolare in un partito tutto sommato innocuo. Hai seguito le vicende italiane negli ultimi anni?
Ho incluso nel libro soltanto le proteste di massa così grandi da rovesciare un governo, o destabilizzarlo obbligandolo a profonde riforme. C’è però un fenomeno parallelo: l’antipolitica come risposta a crisi di rappresentanza nel sistema globale. È successo la scorsa decade in molti Paesi, uno di questi è l’Italia. In Brasile nel 2010 un clown si è candidato alle elezioni con lo slogan: «Votate per me, le cose non possono andare peggio». Questa soluzione, cioè premiare chi dice “votami, sono un outsider quindi farò meglio di chi è già lì, sto sfottendo il sistema, sfrutto un potere alternativo, magari perché sono ricco o una celebrità”, è emersa come strategia politica. È il contesto dove sono nati i 5 Stelle. Comunque, anche se ti presenti alle elezioni gridando che odi il sistema, se vinci poi devi governare. Un outsider non è più illibato delle persone all’interno delle istituzioni. Donald Trump è l’esempio perfetto, come Zelensky, Macron, Obama.
ⓢ Boris Johnson?
Anche lui. Spesso, chi si definisce alieno alla stanza dei bottoni mente. Boris Johnson appartiene per nascita alla casta che domina il Regno Unito. Donald Trump è un miliardario che finge di essere un imprenditore immobiliare, quando in realtà è un ereditiere che adora stare in televisione. La Brexit è stata alimentata dall’antipolitica, prima di trasformarsi in un autosabotaggio. L’antipolitica, così come il populismo di destra, è una pessima soluzione a problemi reali. È facile dire io non sono parte di questo, io farei meglio. Le cose si possono migliorare anche dall’interno. C’è il rischio altrimenti di scadere nell’autoritarismo alt-right, vedi Bolsonaro in Brasile. Liberiamoci dai partiti politici, dalla lotta e dal dibattito, l’essenza della democrazia, e affidiamoci a un uomo forte, a un gruppo di uomini che rappresenteranno l’intera nazione. Questo è lo sbocco più pericoloso.
ⓢ Secondo te è possibile immaginare oggi una rivoluzione negli Stati Uniti? Non tipo il 6 gennaio, qualcosa di più sistemico.
C’è una regola generale, nella storia dei movimenti rivoluzionari: di solito, arrivano di fretta e inaspettatamente. La Storia può bussare alla porta quando meno te l’aspetti. Posso immaginare nel mio Paese il collasso di una società che crea un vuoto di potere? È possibile, gli Stati Uniti sono un sistema politico potente ma disfunzionale. Temo però che, se succedesse fra poco, predominerebbero le frange più di destra dell’esercito. Una milizia estremista vincerebbe comodamente terribili battaglie combattute per strada.
ⓢ In Italia, al confine della cortina di ferro, negli anni ’70 il Partito comunista aveva il 30 per cento dei voti, e movimenti rivoluzionari di estrema sinistra ottennero un grande potere. Secondo alcune teorie, questi sommovimenti popolari morirono quando l’eroina venne introdotta nel mercato italiano dalla Cia per assopire i giovani, e spegnere le loro velleità rivoluzionarie. È realistico immaginare un simile disegno manipolatorio dietro al boom dei social media, perfetto strumento per depotenziare le proteste, confinandole sul telefono?
Non servono dietrologie, sappiamo per certo che negli ultimi vent’anni l’esplosione di aziende che sviluppano social media, guidate dal profitto e dalla pubblicità, ha profondamente trasformato la percezione umana del senso di comunità, del mondo, della politica. Siamo cambiati, da un punto di vista cognitivo, dal costante rapporto con i social media. Non è internet in generale ad aver inquinato il modo in cui le persone interagiscono, la colpa è di un modello d’impresa nato in California che prevede l’appropriazione di infrastrutture pubbliche da parte di un gruppo di oligarchi che hanno scoperto la formula per massimizzare i profitti: aumentare il tempo che passiamo incollati allo schermo del telefono.
ⓢ C’è anche l’influenza politica, vedi il caso di Elon Musk.
Elon Musk usa il potere economico per cambiare il discorso pubblico. I social media sono stati creati negli Stati Uniti, una delle società più individualiste. È molto semplice spiegare cos’è accaduto, quanto sia stato un fenomeno sconvolgente. È difficile levare internet a questi oligarchi, riprenderlo, creare un movimento democratico per rendere pubblico ciò che avrebbe già dovuto essere esserlo. Immaginiamo cent’anni fa, ai tempi dell’invenzione del telefono: cosa sarebbe successo se le persone che sostenevano di averlo inventato, invece di fornire servizi ai cittadini, si fossero arrogate il diritto di manipolare le tue conversazioni per tenerti in linea più tempo possibile, magari mettendo la pubblicità a metà chiamata?
ⓢ Hai fatto a lungo un mestiere da sogno, il corrispondente dall’estero. Che cosa ne pensi del citizen journalism?
Gli strumenti che fornisce internet sono un’aggiunta positiva all’ecosistema dei media. È un bene che una persona comune, non stipendiata da un’organizzazione, possa registrare l’intervista a un attivista di un movimento locale e pubblicare il video online. Nel frattempo il giornalismo professionistico, una parte importante della democrazia e della civiltà negli ultimi cinquecento anni, sta morendo perché non c’è più un modello di business sostenibile. Il giornalismo come vocazione, qualcosa che fai perché servono delle abilità e una dedizione a tempo pieno, sta sparendo. Dovremmo trovare dei modi per salvarlo. È difficile, penso ci sia bisogno di progetti politici, non di un piano aziendale. Non si può creare un modello economico innovativo, ci vuole un movimento per proteggerlo. Se non lo creiamo, il giornalismo scomparirà. E, dato che sta morendo, qualsiasi cosa che testimonia la prima bozza della storia va bene. Il problema è che il citizen journalism sembra rispondere alle stesse logiche dei social media, spesso viene messa in risalto la cosa più scioccante, strana o scandalosa. E questo non per colpa di quello che il giornalismo partecipativo è o può essere, è colpa dei social media. C’è il rischio che le aziende di marketing e pubblicità prendano possesso dello spazio che una volta era dei giornali, spacciandosi per attività editoriali.
ⓢ Se dovessi ritrovarti leader di una protesta popolare, quali sarebbero le tue prime tre richieste all’autorità?
Idealmente, ci potrebbe essere un tumulto se il governo commettesse abusi evidenti. Bisognerebbe rispondere organizzando gli attivisti in un sistema democratico all’interno del movimento per eleggere i rappresentanti e responsabilizzarli. Sarebbe necessario creare una lista di riforme. E, ovviamente, ci vuole una forte partecipazione popolare. Così quando vai dal governo con le tue domande, dopo una preparazione strategica, puoi dire: guarda, ho questo milione di persone, sono dietro di me e li rappresento davvero. La prima cosa che chiederei è tre pasti gratis al giorno nelle scuole pubbliche. Ci sono persone affamate in America. Potremmo chiamarlo il Black Panther Breakfast Program. Il governo non può rifiutare, e miglioreremmo gli Stati Uniti.
ⓢ L’Italia in confronto è un paradiso socialista, qua tutti i bambini hanno pasta e pizza gratis a scuola.
Anche il Brasile. Questo è un buon modo di negoziare. Chiedi una cosa grande, che non riuscirai a ottenere, ma fai nascere una conversazione.
ⓢ “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, come dicevano nel ’68.
Nel 2020 molte persone in America hanno chiesto di abolire la polizia. Una richiesta troppo radicale per essere accettata, ma che ha fatto nascere un dibattito sullo status quo. Non puoi sperare di sfamare tutti i bambini del mondo, ma puoi accendere la scintilla che mette in moto un dibattito. Pasti gratis a scuola, e cercare di rendere gli Stati Uniti un Paese che non si senta al di sopra delle leggi internazionali. Sarebbero due belle conquiste.
ⓢ Aggiungerei, come terza, ospedali gratis. Ultima domanda: pensi che il cambiamento climatico sarà la forza che, in futuro, ci obbligherà a cooperare?
Lo spero. Ci sono molte possibilità in questo scenario apocalittico, tra cui l’inevitabilità di una collaborazione globale. Molti ostacoli la impedirebbero, ci vorrebbe un lavoro profondo, al momento improbabile, fra agenti internazionali. Le catastrofi climatiche aumenteranno l’immigrazione verso le nazioni più ricche, che potrebbero rispondere con violenza. Questo sarebbe catastrofico per la maggioranza dell’umanità, che casualmente non è nata nel mite bacino nord atlantico.
Architettura
“Se la città deve essere messa con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa assomiglia a un sogno”, così scrive Joseph Rykwert nella prefazione del suo libro più noto L’idea della città: antropologia della forma urbana nel mondo antico, tradotto in italiano nel 1976, da Einaudi (e ora ristampato da Adelphi), ma scritto negli anni Sessanta del Novecento e pubblicato negli Stati Uniti.
Senza i sogni, come ci raccontano i miti e le leggende, le città antiche non sarebbero sorte, e non avrebbero avuto ciascuna una propria specifica forma. Rykwert, nato in Polonia nel 1926 e morto ieri, ha studiato negli anni Quaranta in Gran Bretagna con i grandi ricercatori della prima generazione del Warburg Institute di Londra, in particolare con Rudolf Wittkower, per poi insegnare il resto della sua lunga vita anche negli Stati Uniti.
Dotato d’una capacità di scrittura saggistica che è racconto e fabulazione, lo studioso polacco ha messo in luce come le grandi innovazioni architettoniche e urbanistiche derivino dallo stretto rapporto tra questa disciplina, atta a costruire, e le espressioni religiose del mondo classico, quella greca e romana prima di tutto e, per quanto riguarda quest’ultima, le sue ascendenze etrusche che si compendiano in un “rito” assorbito e rielaborato dalla civiltà costruttiva di Roma, in cui la lettura dei movimenti celesti e delle pratiche religiose erano strettamente intrecciate con i principi giuridici: ordine divino e ordine umano.
Bellissime sono le pagine dedicate a mura, porte, templi, o agli spazi sociali come il foro: forme e simboli che organizzano lo spazio collettivo e quello privato. Senza mai cadere in nostalgie, Rykwert ci ha fatto capire come la morfologia del paesaggio urbano nasca in stretto rapporto con i miti che innervano le pulsioni più profonde delle antiche civiltà.
Capace di affrontare la lettura dell’architettura modernista, e al tempo stesso a suo agio con la filosofia di Hegel, come con il disegno di Piranesi o le idee di Leon Battista Alberti, con il pensiero antropologico come con quello sociologico, questo magnifico studioso, che parlava un italiano non solo corretto ma elaborato e colto, è stato un personaggio solitario nella cultura architettonica del Novecento, capace di dialogare con saperi e discipline di cui aveva appreso i primi rudimenti nella Polonia ebraica nell’ambito di quella scienza interpretativa che è il Talmud.
Dotato d’una forza immaginativa davvero unica, come mostra l’altro capolavoro della sua produzione, La casa di Adamo in Paradiso, tradotto da Adelphi nel 1972, si può dire che Rykwert sia stato un materialista religioso, in grado d’accostarsi alle immagini della sfera del sacro sapendovi leggere insieme le strutture più profonde.
Strutturalista senza strutturalismo, aveva una conoscenza profonda dell’architettura di ogni luogo e d’ogni epoca, da quella giapponese a quella australiana, superando le tradizionali divisioni accademiche. In quel libro scandagliava il mito della “prima casa” intesa come archetipo sempre presente e agente sia sul piano immaginativo che su quello simbolico.
Pochi forse sanno che proprio Rykwert è stato uno degli ispiratori delle Città invisibili di Italo Calvino, che non a caso fu tra coloro che vollero la traduzione einaudiana di L’idea di città.
Tra gli abbozzi e le note vergate dallo scrittore ligure nel corso dell’elaborazione del suo poema in prosa, che tanto ha ispirato il pensiero di architetti e urbanisti, il nome di Rykwert compare accanto all’elenco di temi e oggetti che gli interessavano.
Nel momento in cui si accingeva a scrivere il suo viaggio tra le città del passato e quelle del futuro, un’opera che ha ancora tanto da dirci riguardo al crogiolo di culture e immagini che sono oggi le città del mondo, Calvino pensava alla presenza degli dèi occulti e sconosciuti nelle nostre metropoli.
Ma se si vuole capire cosa sia stata l’architettura per l’umanità bisogna aprire un altro libro di Rykwert dal titolo invitante e insieme misterioso e ossimorico: La colonna danzante (Libri Scheiwiller), il cui emblematico sottotitolo non a caso è: Sull’ordine in architettura.
Un libro che stabilisce la corrispondenza tra gli edifici e il corpo umano, procedendo a una ricostruzione rigorosa e motivata delle successioni formali legate al tema architettonico della colonna, opera tradotta nel 2020 e ben presto scomparsa dagli scaffali delle librerie, che invece dovrebbe essere adottata da tutte le facoltà d’architettura del mondo.
In uno dei suoi ultimi lavori, La seduzione del luogo: storia e futuro della città (Einaudi 2008), lo studioso polacco ha fatto il punto in modo inequivocabile sulla perdita di quel valore religioso delle città, dove la questione centrale riguarda il legame che gli uomini e le donne stringono gli uni con gli altri, unione simbolica dissolta e trasformata oggi in un puro valore economico.
Nella prefazione al volume Rykwert spiega come l’architettura non possa essere guidata da ragioni solamente razionali o economiche, ma piuttosto da concetti, sentimenti e soprattutto da desideri. La città intrattiene un rapporto profondo con il conscio e l’inconscio degli esseri umani, e anche con quelli delle società, poiché esistono forme oniriche collettive che attraversano tutte le città.
Senza mai abbandonarsi a forme irrazionali, Rykwert ha dosato con cura i due poli della natura umana, quello della tendenza alla costruzione raziocinante, incarnata per forza di cose in architettura dalle tecniche costruttive, e quello del meraviglioso, che prescinde dagli interessi economici e politici che oggi invece vorrebbero dirigere dall’alto, mentre inevitabilmente emergono forze pullulanti e inafferrabili generate dal basso.
Nella parte del libro intitolata Interrogativi per il nuovo millennio, e nella nuova postfazione scritta per la edizione italiana, Rykwert sottolinea come il proliferare di grattacieli nelle maggiori capitali del mondo – il suo sguardo si appuntava in quel momento sulla città cinese di Shanghai, per lui la New York del nuovo millennio –, sia composto di edifici che aboliscono la forma tradizionale del grattacielo pensato e realizzato nel corso del XX secolo.
Ora all’inizio del XXI secolo queste costruzioni, che hanno racchiuso nel bene e nel male tutta l’energia e lo spirito d’iniziativa che alimentava il sogno americano, cancellano i grandi piani che un tempo contenevano spazi pubblici e commerciali, a vantaggio di forme che all’inizio degli anni Novanta sorgono bruscamente dal marciapiede e si stagliano contro il cielo – rampicanti “a punta di matita” li definisce – i cui ingressi sono sorvegliati da guardie armate.
La diagnosi di Rykwert, vecchio studioso per nulla incline all’estremismo politico, è che l’architettura non è più il frutto del sogno di un individuo, di un progettista o d’un architetto, ma il risultato di studi professionali guidati dagli interessi economici di chi ne ha finanziato la costruzione. Una mente collettiva e astratta che sembra prescindere dalla necessità di mediare tra le istanze degli individui singoli e quelle dell’intera società.
Salvo rare eccezioni, scrive lo studioso polacco, gli architetti non producono più grandi metafore del mondo e l’edificio oggi più riconoscibile non è né un palazzo governativo, né un parlamento o un ministero, oppure una chiesa, bensì un museo, come mostrano il Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry o il Museo ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, edifici che sembrano l’esposizione di sé stessi e non luoghi o spazi dove esporre opere d’arte.
L’impietosa e insieme ricca analisi di Rykwert evidenzia in modo acuto che esiste tra la forma della città e il problema della democrazia partecipativa, oggi così in crisi. Parla di Londra, città dove Rykwert ha deciso di stabilirsi da un certo punto in poi, e scrive: “la democrazia partecipativa sta passando di mano dagli elettori agli azionisti e utenti”.
Il mondo dei “custumers” ha soppiantato quello dei “cittadini” fossero quelli antichi della polis greca e della civitas romana o il mondo agglutinato di mattoni delle città medievali: senza sogni, senza dèi e senza leggi sacre condivise, le città implodono e divengono metropoli espanse senza forma, slabbrate e identiche le une alle altre, come narrano le pagine futuribili di Italo Calvino.
Il nostro è oggi un mondo uniforme, identico da un capo all’altro del globo, che non sogna più, che si divide e confligge, travolto da un elemento economico e commerciale che distrugge la forma stessa del nostro stare insieme in quell’agglomerato imprevedibile e organizzato che sono le nostre città.
20 Ottobre2024
18 Ottobre 2024