La storia rimossa della schiavitù dei rom (internazionale.it)

DoRRomania (Traduzione di Elena Di Lernia)

Negli anni novanta volevo scrivere la mia tesi 
di dottorato sulla cultura tradizionale rom, 

dei quali aspiravo a riaffermare l’identità etnica dal punto di vista di un’attivista alle prime armi, ma non sapevo quasi nulla della loro storia di schiavitù.

Avevo sentito solo qualche storia raccontata da anziani rom, come “lavoravamo per i boiardi” o qualche racconto del folclore rom che recitava “mamma e papà non sono più schiavi”, ma non avevo un’idea chiara su cosa avesse rappresentato la schiavitù nella storia dei rom di Romania e nella storia di questo stesso paese, per quanti secoli si fosse protratta e tanto meno sulle conseguenze della schiavitù sul piano giuridico, sociale, economico e, soprattutto, morale.

In realtà, sapevo proprio poco della schiavitù dei rom quando ho varcato timidamente la soglia del dipartimento che si occupava delle minoranze nazionali del ministero della cultura. “Sono zingara, mi sono laureata in lettere e vorrei fare il dottorato sui costumi tradizionali dei calderash”, così rispondevo alla domanda su cosa ci facessi nel suo studio che mi aveva rivolto Vasile Ionescu, anche lui rom e consulente per la questione dei rom. “Non lavoriamo con gli zingari, ma solo con i rom”, mi ha risposto seccamente. Mi era sembrato molto duro e ingiusto.

Ma ho capito, allora, che la storia del razzismo nei confronti dei rom nella cultura romena comincia con il falso nome che gli viene attribuito: țigani (zingaro). Nella lingua rom la parola țigani non esiste. Il termine proviene dal greco medievale athinganos o athinganoi, che significava “pagano”, “intoccabile” o “impuro”.

La parola fu utilizzata per la prima volta nel 1068 in un monastero dell’attuale Georgia da un monaco durante la sua spiegazione su cosa fosse l’eresia degli athinganoi, considerati nomadi, indovini e stregoni, e che consigliò ai suoi parrocchiani cristiani ortodossi di evitare quegli eretici.

Nel medioevo, la parola romena țigani indicava lo status giuridico di servo o schiavo, e non un gruppo etnico. Ed ecco già due significati della parola: prima eresia, poi status giuridico fuori del sistema gerarchico della società. Lo schiavo/țigani non faceva parte della struttura sociale, si situava al di fuori di essa, era semplicemente merce di scambio ed era di proprietà del principe, dei boiardi o dei monasteri.

In seguito la parola țigani è rimasta nella memoria collettiva romena ed è oggi usata nella lingua corrente con accezione dispregiativa.

Leggendo i pochissimi libri di storia che hanno osato affrontare il difficile argomento della schiavitù dei rom, ma ancor di più studiando i documenti conservati negli archivi, ho capito che l’attuale identità dei rom di Romania si è strutturata intorno a una storia di esclusione sociale e razzismo istituzionalizzato: dalla prima attestazione dei rom in territorio romeno, nel 1385 (quando ai rom viene dato lo status di schiavo), passando per l’olocausto romeno (che si è proposto ed è riuscito a sterminare decine di migliaia di rom), per l’integrazione forzata o il genocidio culturale del periodo socialista, agli omicidi e agli incendi appiccati alle case dei rom negli anni tra il 1994 e il 2000 e ancora agli abusi, le persecuzioni e la violenza usati dalla polizia contro le comunità dei rom dagli anni novanta fino a oggi, quando questi episodi sono aumentati con la pandemia … leggi tutto

(La bandiera rom, creata nel 1933)

Un viaggio illuminante: il batterista jazz Gregory Hutchinson scopre un passato ancestrale (euronews.com)

Il musicista jazz Gregory Hutchinson  ha 
visitato la storica città di Luanda, che  si 
appresta a celebrare il suo 450° anniversario.

Prima dell’arrivo dei portoghesi,  nel 1575, Luanda era un avamposto commerciale per i grandi regni del Congo e di Ndongo. Cinque secoli dopo, la città  sta riscoprendo, affrontando e abbracciando gran parte del suo passato e spera di affermarsi come una delle città storiche del continente africano, un riferimento soprattutto per coloro che fanno parte della diaspora angolana globale.

Uno dei tanti spazi culturali di Luanda è dedicato al tema del ritorno a casa. Il batterista americano Gregory Hutchinson ha suonato con artisti del calibro di Betty Carter, Wynton Marsalis, Joe Henderson e John Scofield. E ha organizzato un concerto nella terra dei suoi antenati.

Appuntamento con la storia

Nel corso dei secoli, milioni di angolani furono inviati come schiavi nelle Americhe. E c’è molto di più in questa storia che è anche una storia di resistenza  contro i colonizzatori e di rinnovamento nella capitale dell’Angola di oggi.

Gregory Hutchinson ci racconta la sua esperienza:

“Per me è stato fantastico venire qui , è stata un’illuminazione,  camminare e vedere le diverse attrazioni. Ti sveglia e ti fa capire che c’è ancora molto da imparare. Questa è  una giornata importante per me”

Hutchinson parla dal Museo Nazionale della Schiavitù, che espone i manufatti e gli orrori di un commercio che ha fatto molte vittime, oltre ogni immaginazione. Sono esposte le catene e gli altri dispositivi utilizzati per trattenere gli schiavi mentre venivano condotti alle navi…

Ad aiutarlo a entrare in contatto con questa storia è Carlos Bumba, fondatore del TAC Tour Angola.

” Questa  – spiega Bumba – è una Luanda che ha secoli di testimonianze della tratta degli schiavi, dello sfruttamento e della deportazione di persone al di là dell’Atlantico. Gli schiavi venivano catturati nell’interno a poi trasportati fino all’incontro con i loro acquirenti.  Questa Luanda ha tracce, ha segni, ha testimonianze di dove sono passati gli schiavi, dove sono stati incatenati gli schiavi e dove sono stati immagazzinati .

A questa storia si affianca quella di una lotta contro i colonizzatori portoghesi, condotta dalla regina più famosa dell’Angola … leggi tutto

America Latina: l’impegno di 12 paesi per proteggere gli attivisti ambientali da minacce e violenze (valigiablu.it)

di Susanna De Guio

L’accesso all’informazione e alla giustizia in 
materia ambientale e la partecipazione pubblica 
ai processi decisionali sono i tre grandi assi 
dell’Accordo di Escazú, 

un trattato regionale firmato da 12 paesi dell’America Latina e dei Caraibi. 

Tra il 20 e il 22 aprile scorsi, a Santiago del Cile si è riunita la prima Conferenza delle Parti (COP) di questo trattato che ha diverse somiglianze con la Convenzione di Aarhus, in vigore a livello europeo, che l’Italia ha firmato nel 2001 e di cui ha ospitato la prima COP l’anno seguente.

L’importanza dell’Accordo di Escazú risiede negli strumenti legali che mette a disposizione di difensori territoriali e attiviste per l’ambiente in una tra le regioni più megadiverse del pianeta, che possiede cioè ampia biodiversità e un ricco patrimonio naturale. In America Latina e il Caribe si trova il 28% delle terre coltivabili del mondo, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% di tutte le foreste.

Allo stesso tempo, questa regione è tra le più esposte ai disastri naturali che il cambio climatico sta intensificando: oltre alla violenza dei fenomeni atmosferici come tempeste e tornado, la desertificazione e la siccità sono una realtà problematica in aumento.

A questo si aggiungono i conflitti generati a causa della deforestazione, dell’agro business, dell’estrazione mineraria e dei mega progetti energetici, dove si producono i due terzi degli omicidi registrati a livello mondiale di persone che difendono l’ambiente, la maggior parte appartenenti a popoli originari.

In questo contesto, l’Accordo di Escazú è il primo al mondo a garantire protezione e sicurezza a persone, gruppi, associazioni che lavorano in difesa della natura con misure specifiche che affrontino le minacce, violenze e limitazioni a cui sono sottoposti, e allo stesso tempo obbliga gli Stati membri a indagare, punire e prevenire le intimidazioni.

Inoltre, l’accordo tutela il diritto di accedere alle informazioni ambientali facendo richiesta alle autorità competenti, senza restrizioni e in tempi idonei, introduce meccanismi di partecipazione alle decisioni riguardanti progetti e autorizzazioni che possono incidere sull’ambiente e sulla salute delle persone, e infine introduce nei tribunali procedure specializzate per le controversie in materia ambientale per assicurare le condizioni di un giusto processo, oltre a promuovere la mediazione e la conciliazione come strumenti di soluzione dei conflitti.

La partecipazione in pericolo

La riunione del mese scorso tra i paesi firmatari, nella sede della CEPAL a Santiago, doveva servire principalmente per ratificare e far entrare in vigore il testo del trattato, già studiato e discusso da tempo, e invece durante la tre giorni della prima Conferenza delle Parti (COP), l’essenza dell’Accordo di Escazú si è vista in pericolo.

La tensione è stata causata dall’inaspettata richiesta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico, e l’intera COP è girata attorno a questo tema di estrema rilevanza. “Quel che pretendevano concretamente era far retrocedere l’Accordo di Escazú al 2014”, spiega Andrés Napoli, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN e uno dei sei rappresentanti del pubblico, i portavoce delle istanze della società civile alla Conferenza. 

Effettivamente, sebbene l’Accordo di Escazú stia attualmente muovendo i suoi primi passi, la sua costruzione è un processo di lunga data, che rimanda al 2012, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (chiamata Río+20) in cui fu elaborata la Dichiarazione di Río sull’Ambiente e lo Sviluppo in America Latina e il Caribe.

In particolare, il Principio 10 stabilisce che “il miglior modo di trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati,” base su cui si fonda l’attuale Accordo di Escazú.

Dopo due anni di riunioni preliminari, il 2014 è l’anno in cui in cui è stata inclusa la partecipazione del pubblico nel comitato per le negoziazioni tra i paesi interessati.

Questo organo si è riunito nove volte per giungere a una conclusione comune nel 2018, nella località di Escazú, in Costa Rica, poi il 22 aprile dell’anno scorso è entrato in vigore e quest’anno ha inaugurato la sua prima COP … leggi tutto

Termovalorizzatore, avanti tutta: c’è il decreto che dà poteri straordinari a Gualtieri per realizzarlo (romatoday.it)

di Ginevra Nozzoli

La bozza dovrebbe essere discussa lunedì in 
Consiglio dei ministri.

Si scalda il fronte dei contrari. Europa Verde: “Cosa ne pensa Papa Francesco?”

La bozza c’è già. I poteri straordinari che serviranno al sindaco Roberto Gualtieri per realizzare il termovalorizzatore sono contenuti in un decreto sul tema energia, e non solo, che dovrebbe arrivare lunedì prossimo in Consiglio dei ministri. Il comma in questione, come riporta l’agenzia di stampa Dire, recita così: “Al fine di assicurare gli interventi funzionali alle celebrazioni del Giubileo della Chiesa cattolica per il 2025 nella Città di Roma, in considerazione della esigenza di prevenire gravi criticità nella gestione dei rifiuti urbani, nonché in attuazione dell’art. 114, comma 3, della Costituzione, spettano al Commissario straordinario del Governo di cui all’art.1, comma 421 della legge n. 234 del 2021, limitatamente al periodo del mandato, le competenze assegnate alla Regione di cui agli artt. 196 e 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, con riferimento al territorio di Roma Capitale”.

Così, a poco più di una settimana dall’annuncio in Consiglio comunale, ecco arrivare gli strumenti normativi per realizzare l’impianto. Detto, fatto.

Perché la scelta dei poteri straordinari

La strada dei poteri straordinari è l’unica percorribile per accorciare i tempi di realizzazione dell’impianto, ma soprattutto per bypassare il piano rifiuti regionale, che non prevede nessun termovalorizzatore. Se si seguisse l’iter ordinario bisognerebbe passare da una modifica del testo in aula.

Opzione difficile dal momento che M5s e Pd, insieme al governo della Regione, sull’impianto hanno visioni diametralmente opposte. Per capirlo basta leggere le dichiarazioni quotidiane dell’assessora alla Transizione ecologica, la grillina Roberta Lombardi. Ogni giorno non manca post su Facebook per smontare la scelta di Gualtieri, appoggiata invece da Nicola Zingaretti.

Il rischio è chiaro: spaccare la maggioranza e far cadere la giunta a nemmeno un anno dalle elezioni regionali, mettendo a repentaglio l’alleanza giallorossa alle prossime consultazioni. Uno scenario da scongiurare. Da qui l’escamotage che nei fatti tiene la Regione ai margini: chiedere poteri straordinari per il sindaco di Roma in veste di commissario del Giubileo 2025. A questo punto alla Pisana rimane solo la parte tecnica, la Conferenza dei servizi per il rilascio delle autorizzazioni.

Cosa dice il decreto

Tornando alla bozza di decreto, il commissario, oltre a predisporre e adottare il piano di gestione dei rifiuti di Roma Capitale, “regolamenta le attività di gestione dei rifiuti, ivi compresa la raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche pericolosi”, recita la bozza, “elabora e approva il piano per la bonifica delle aree inquinate di propria competenza; approva i progetti di nuovi impianti per la gestione di rifiuti, anche pericolosi, e l’autorizzazione alle modifiche degli impianti esistenti, fatte salve le competenze statali di cui all’articolo 195, comma 1, lettera f), e di cui all’articolo 7, comma 4-bJs” e “autorizza l’esercizio delle operazioni di smaltimento e recupero di rifiuti, anche pericolosi, fatte salve le competenze statali di cui all’articolo 7, comma 4-bis”.

Un decreto del presidente del Consiglio regolerà “le competenze del commissario che, in via sostitutiva degli enti competenti, adotta, con ordinanza motivata, gli atti, i provvedimenti e le autorizzazioni di cui ai commi 1 e 2”.

E ancora il commissario “adotta altresì, motivandone la necessità, ordinanze contingibili e urgenti nel rispetto della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’ordinamento europeo, sentiti il Governo e la Regione Lazio- si legge ancora- La Regione esprime un parere non vincolante entro 30 giorni, trascorsi i quali il parere si intende acquisito”.

Sempre attraverso un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, d’intesa con il commissario e la Regione Lazio “possono essere nominati uno o più subcommissari” … leggi tutto

(italia oggi)

Sindaci ucraini, una delusione per Putin (lavoce.info)

di 

Dall’inizio della guerra, l’esercito russo ha 
rapito sedici sindaci ucraini, tutti sostituiti 
con commissari al servizio degli invasori. 

Le riforme in senso federalista dello stato ucraino erano state appoggiate da Mosca, che sperava di avvantaggiarsene.

Il federalismo ucraino

Nella guerra tra la Russia e l’Ucraina, le dinamiche belliche risentono inevitabilmente del progresso sociale, economico e istituzionale dei due stati. E i sedici sindaci rapiti (tanti sono secondo un elenco pubblicato dal canale Telegram di Kyiv Ucraina notizie) sembrano essere entrati a pieno titolo nel conflitto. Il fatto merita di essere sottolineato, nel tentativo di spiegarne le ragioni.

Le ultime elezioni amministrative in Ucraina si sono tenute il 25 ottobre del 2020: si è votato per l’elezione di sindaci, membri dei consigli comunali, distrettuali e regionali, così come dei capi delle comunità territoriali unite (“hromada”). Sono le prime elezioni su larga scala tenute dopo l’avvio della riforma del decentramento in Ucraina e di quella elettorale introdotte dalla “Verkhovna Rada”.

Il processo di decentramento amministrativo, cominciato nel 2015 dopo le rivolte di Euromaidan, ha ridotto il numero dei distretti da 490 a 136, di cui 119 sotto il controllo del governo ucraino e 17 controllati dai separatisti nei territori occupati del Donbass e nella Crimea, annessi alla Russia. Le comunità territoriali sono diminuite da 10 mila a 7 mila, di cui mille sono diventate comunità territoriali unificate. L’accorpamento ha garantito la possibilità di eleggere un nuovo governo locale, provvisto di potere esecutivo, e di trattenere nel territorio un’ampia parte delle tasse versate dagli ucraini.

Il governo locale ucraino è costituito da due sistemi basati sulle divisioni amministrative del paese; le relazioni concernenti l’organizzazione e l’attività degli enti del governo locale risultano disciplinate dalla costituzione ucraina e dalle leggi “Sull’autogoverno locale in Ucraina” e “Sulle amministrazioni statali locali”. Un primo sistema è costituito da organi locali decentrati del potere esecutivo statale che fungono da “agenti” subordinati e controllati dagli organi rappresentativi competenti (consigli locali) in materia di poteri loro delegati.

Le loro funzioni hanno natura statale (riflettono l’interesse statale), predeterminate da compiti e problemi di rilevanza statale. Il secondo sistema di autogoverno locale della comunità territoriale (“hromada amalgamata”) è formato da organi di governo municipale (autorità municipale e consigli locali).

Le comunità territoriali sono le corporazioni naturali di residenti locali che esercitano l’autogoverno direttamente o tramite le autonomie locali, si fondano su principi di auto organizzazione e non sono subordinate gerarchicamente ad altri enti di governo. Il sindaco del villaggio, del comune o della città è l’amministratore delegato della comunità locale a livello di villaggio (o associazione di più villaggi), eletto a suffragio ogni quattro anni.

Il fallito “blitzkrieg” e la delusione di Putin

Le riforme in senso federalista dello stato ucraino, auspicate dagli esperti Pavel Bykov, Olga Vlassova e Gevorg Mirzaïan, sono state accolte con favore anche dal governo russo (che, per motivi decisamente diversi, le ha caldeggiate fin dalla dichiarazione del suo Ministero degli Esteri del 17 marzo 2014), pensando di potere dialogare direttamente con le comunità locali ucraine, nel tentativo d’invertire la forza attrattiva della sirena Europa a favore di quella protettorata della Russia.

Per ragioni di geopolitica, Vladimir Putin e i suoi collaboratori si sono convinti che l’Ucraina stia prendendo una strada sbagliata e che, di conseguenza, il suo popolo vada liberato da un governo, non realmente rappresentativo, che non tutela la minoranza russofona – che nel paese è pari al 20 per cento, ma che nelle regioni dell’Est raggiunge oltre l’80 per cento della popolazione.

Ecco perché Putin, fin dai primi giorni dell’invasione, che pensava di risolvere in un “blitzkrieg” di tre giorni, si era illuso che i neo sindaci e i neo governatori si sarebbero piegati all’istante e che le comunità locali da loro amministrate si sarebbero consegnate al “liberatore”.

Così non è stato, sindaci e comunità locali si sono invece opposti all’invasore, attuando ogni forma di resistenza tenace e coraggiosa, pur nella consapevolezza dei propri limiti tecnici e militari.

I sindaci ucraini, ai quali sono state cedute dalle riforme quote consistenti di sovranità e di autonomia politica, sono così diventati obiettivi principali da rimuovere perché ritenuti responsabili di avere deluso le aspettative di Putin e perché considerati sgraditi megafoni di messaggi errati nei confronti delle medesime comunità locali che, all’indomani della svolta federalista dello stato ucraino, avrebbero dovuto emanciparsi dal pensiero unico maldestramente interpretato dall’europeista Volodymyr Zelensky.

La strategia di Putin era infatti quella di trasformare le città conquistate in repubbliche autoproclamate indipendenti, come Donetsk e Luhanks nel Donbass.

Appaiono eloquenti le dichiarazioni dei commissari compiacenti che subito hanno rimpiazzato i sindaci rimossi (liberamente e democraticamente eletti), che “in coro”, esordiscono davanti alle telecamere, dicendo non senza un certo imbarazzo: “bisogna accettare il sistema adattando la città alla nuova realtà”.

Il modello istituzionale che Putin vuole utilizzare, all’indomani della cessazione del conflitto armato, è quello di promuovere in tutte le città commissariate mirati referendum sull’autodeterminazione delle singole comunità locali (dall’esito scontato), al pari di quanto già avvenuto nel 2014 nella penisola di Crimea.

Esodo dall’Ucraina: dalla crisi umanitaria all’integrazione (lavoce.info)

di 

L’Europa ha risposto alla crisi umanitaria causata 
dalla guerra in Ucraina in modo unitario e solidale, 
con un piano in dieci punti per la gestione 
dei rifugiati. 

Ora tocca al sistema di accoglienza far sì che l’emergenza si trasformi in integrazione.

La risposta europea alla crisi umanitaria ucraina

La fuga di massa dall’Ucraina ha proiettato l’Europa in una delle peggiori tragedie umanitarie dalla fine della seconda guerra mondiale. Finora più di 4 milioni di persone si sono riversate nei paesi vicini, ma, finché la guerra continuerà, l’esodo è destinato ad allargarsi. Il flusso di rifugiati dall’Ucraina ha già di gran lunga superato il numero di richiedenti asilo dalla Siria, Afghanistan e Iraq, che sono arrivati in Europa subito dopo il 2015, sconvolgendo la politica europea.

A differenza del 2015, tuttavia, l’Europa ha risposto alla crisi umanitaria degli ucraini in modo unitario e solidale. Il Consiglio europeo ha deciso all’unanimità di introdurre una protezione temporanea “automatica” (della durata di massimo tre anni), che dà diritto di soggiorno immediato e collettivo, oltre a garantire ai rifugiati una serie di diritti armonizzati in tutta l’Ue. Tra questi, l’accesso al mercato del lavoro e agli alloggi, l’assistenza medica e l’accesso all’istruzione per i minori, tutti diritti che sicuramente influenzeranno positivamente il percorso di integrazione o ritorno dei profughi.

La reazione di grande assistenza e solidarietà nei confronti dei rifugiati è stata sostenuta concretamente anche dai cittadini europei: i profughi ucraini sono stati accolti nella case di migliaia di famiglie in tutta Europa (soprattutto nei paesi finora più contrari all’accoglienza dei rifugiati, come la Polonia).

L’investimento dell’Europa

Al di là delle ragioni umanitarie, tuttavia, l’accoglienza è un percorso che prevede un investimento iniziale capace di ripagarsi nel tempo – attraverso sia l’integrazione dei rifugiati sia le esternalità positive nel contesto in cui sono inseriti – solo se gestito in modo accurato.

Si tratta, infatti, di un investimento in “capitale umano” e i benefici sono tanto maggiori quanto più elevata è la qualità dell’investimento iniziale. Da anni manca all’Ue una visione lungimirante nella gestione delle politiche di asilo e di accoglienza dei rifugiati (con alcuni paesi, o governi, che, più di altri, hanno osteggiato una politica coordinata di accoglienza diffusa) e la crisi attuale può rivelarsi un’opportunità di miglioramento.

La Commissione europea, infatti, ha varato un piano in 10 punti per la gestione dei rifugiati dall’Ucraina, che prevede passi in avanti importanti in merito al rafforzamento del sistema di accoglienza nei paesi dell’Unione. Il piano beneficia di fondi europei (per il momento 17 miliardi di euro) da assegnare ai paesi ospitanti, ma anche come incentivi per il ricollocamento volontario e come contributo diretto ai rifugiati.

Inoltre, è prevista la creazione di una piattaforma comune per la registrazione delle richieste di protezione temporanea e la mappatura dell’accoglienza in tutti i paesi, con la creazione di un indice che misura il grado di dispersione dei rifugiati (ovvero il numero di rifugiati accolti in ogni paese).

Il piano include poi un sistema per contrastare il traffico di esseri umani, perché l’esodo in massa, soprattutto di donne e bambini, incentiva le infiltrazioni della criminalità organizzata.

C’è un cambio di passo, quindi, nel coordinamento di un piano comune per l’accoglienza a livello europeo, che forse permetterà di superare alcune “barriere culturali” del passato, ma che, senza dubbio, dimostra che l’accoglienza è politicamente e materialmente possibile in tutta Europa.

Cosa cambia in Italia

In linea con questi mutamenti, alcune modifiche al sistema di accoglienza sono già state apportate anche in Italia, dopo che una visione ostinatamente miope rispetto a quello che accade attorno all’Europa ha visto per molti anni ridurre le risorse e limitare i diritti relativi alla protezione umanitaria. Le principali novità di fronte alla crisi Ucraina includono l’ampliamento dei posti del sistema Sai, ovvero il sistema pubblico ordinario, incentrato sull’accoglienza diffusa con il coinvolgimento diretto degli enti locali e l’attenzione per l’inclusione socio-economica.

Inoltre, è previsto uno snellimento delle procedure per l’affidamento sia dei Sai sia dei contratti per i centri Cas (fino a 15mila posti saranno allocati tramite affidamento diretto al terzo settore). Aumenta il contributo per rifugiato (33 euro al giorno), dopo i tagli del passato, per chi viene accolto nel sistema Sai o Cas, mentre sono previsti 300 euro al mese per i rifugiati che trovano una sistemazione autonoma.

Sebbene siano importanti cambiamenti, che riconoscono i limiti del sistema vigente, sulla base dell’evidenza empirica rimangono ancora alcuni punti critici del sistema di accoglienza in Italia, su cui è necessario concentrarsi per evitare che l’investimento sia vanificato. Riguardano essenzialmente tre aspetti: l’eterogeneità dei richiedenti asilo, quella degli operatori dell’accoglienza e anche del nostro stesso territorio.

È importante che il sistema di accoglienza e l’attenzione alla qualità del percorso di integrazione siano uguali per tutti i richiedenti asilo e rifugiati. Invece, l’interpretazione italiana della protezione temporanea è estesa ai soli ucraini e non agli stranieri che si trovavano in Ucraina o agli ucraini che sono arrivati in Italia prima del 24 febbraio.

In generale, i principi su cui si fonda la politica di dispersione sul territorio, il rafforzamento dei diritti e la sottrazione dei rifugiati alla criminalità organizzata e allo sfruttamento devono applicarsi a tutti i richiedenti asilo che scappano da tutte le guerre e le situazioni di rischio, anche al di fuori dell’Ucraina.

È poi necessario che i servizi all’accoglienza siano affidati a operatori qualificati, presenti in modo stabile e omogeneo all’interno del paese al fine di garantire un percorso di integrazione efficace. Infine, è importante considerare le differenze fra i territori e il contributo che alcuni contesti locali, più di altri, possono offrire all’integrazione dei rifugiati o richiedenti asilo.

Per far ciò è necessario prevedere una maggiore condivisione delle risorse per l’accoglienza anche con la popolazione locale e valorizzare i servizi preposti come un’opportunità a disposizione dei territori. In tempi di guerra, investire nell’accoglienza vuol dire investire nelle persone, nella coesione sociale e nella pace.