di Marco Belpoliti
Che strana sensazione aprire Un paese riedito
da Einaudi
e sfogliare le sue pagine, guardare le fotografie di Paul Strand e leggere le parole di Cesare Zavattini. Strano, perché le poche immagini del fiume Po che ci sono, salvo qualche dettaglio, come il ponte di barche a Viadana, potrebbero essere state scattate nei mesi scorsi, mentre il paese, Luzzara, non c’è più, o meglio ora è un altro paese.
Pubblicato sessantasei anni fa, nell’aprile del 1955 questo libro ci mostra un mondo scomparso, quello appena uscito dalla Seconda guerra mondiale e da una guerra civile che da quelle parti era stata particolarmente dura e crudele, per entrare di lì a poco nella immancabile modernità italiana. Si può dire che Un paese segni la fine del neorealismo passando dal campo del cinema a quello della fotografia, dopo essere transitato attraverso la letteratura, e al tempo stesso questo libro inaugura un capitolo della sociologia visiva del nostro Paese, dell’Italia, nuovo e originale.
La storia del libro ha tre protagonisti: Paul Strand e Cesare Zavattini, attori principali, e il team della casa editrice Einaudi composto da Giulio Einaudi, Giulio Bollati, Italo Calvino e Oreste Molina, attori secondari eppure decisivi, perché senza di loro il libro non ci sarebbe stato e non come è stato pubblicato: grafica, formato, carta, qualità di stampa.
Zavattini aveva da tempo in mente di realizzare un progetto: costruire una serie di libri, “Italia mia”, come racconta nell’introduzione a Un paese. Pensava di sguinzagliare in giro per la penisola, nei piccoli centri ma anche nelle città maggiori, dei giovani fotografi muniti di macchine fotografiche leggere e portatili – Leica o Condor –, per scattare immagini e raccogliere parole delle persone comuni: impiegati, contadini, balie, ferrovieri, disoccupati.
Insomma, il prolungamento di quello che aveva già fatto mescolando storie pensate e occasioni inattese con i film. Il progetto però non prendeva forma per molteplici ragioni, tra cui quella che il vulcanico Za mille ne pensava: la testa troppo piena di progetti e troppo poco tempo per realizzarli. Qui entra in scena Paul Strand.
Il fotografo americano, nato nel 1890 a Brooklyn, aveva anche lui un progetto simile. Ispirato dalla lettura dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e da un libro di Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio, come spiega Laura Gasparini in un ampio saggio, voleva ritrarre gli abitanti di una cittadina. Strand aveva già provato recandosi a Taos: scattare foto e trascrivere le storie dei personaggi che ritraeva.
Dopo essersi trasferito negli anni della caccia alle streghe del maccartismo in Francia nel 1949, per sfuggire alle pressanti investigazioni degli uffici federali, aveva ripreso questa idea. Tuttavia non conoscendo bene il paese in cui era arrivato aveva desistito. Nel 1949 incontra lo sceneggiatore, scrittore, umorista Cesare Zavattini al Congresso internazionale di Cinematografia a Perugia, dove Paul Stansky, questo il suo vero nome, figlio di ebrei boemi emigrati in USA, si è recato come presidente della “Frontier Film”, con cui ha realizzato il film Native Land. Strand è convinto che la fotografia possa modificare la società mostrando la “condizione umana”.
Per lui l’artista non è separato dalla comunità che ritrae. A questa istanza sociale s’unisce poi un gusto particolarmente raffinato, risultato della collaborazione da giovanissimo con Alfred Stieglitz, fotografo che ha influenzato notevolmente le sue idee estetiche.
In questo differisce Strand da quanto andava facendo negli anni Trenta Walker Evans, in giro per le zone povere dell’America e per le strade di New York. La posizione di Strand si può riassumere così: la fotografia d’arte contrapposta al documento fotografico.
L’allievo di Stieglitz fotografa ancora con gli strumenti tecnici d’inizio Novecento: non usa le macchine portatili come Walker Evans, con cui coglie le persone a loro insaputa nella metropolitana di New York. Strand si munisce di lastre di vetro di grande formato e di una macchina a soffietto su treppiede, e stampa a contatto.
Così farà a Luzzara, come si vede anche nella ristampa di Einaudi, dove a colpire non sono solo i ritratti ma i muri con le viti rampicanti, i dettagli degli attrezzi da lavoro affissi alle pareti o poggiati sulle panche dei ripostigli … leggi tutto