Bologna 2021-26. La mortadellosa mitomania di Bologna che non è sfuggita al New York Times (linkiesta.it)

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Vuoi mettere la community

Ho l’identità di codice postale, mi percepisco milanese.

Del resto, i bolognesi pensano seriamente che dei cuochi amatoriali locali potranno cucinare alla Casa Bianca

Tu, mi dice sempre una postmodernista che conosco, dovresti capire meglio di chiunque altro la questione delle persone trans, avendo anche tu un’identità non di genere ma di codice postale: sei di Bologna ma ti percepisci di Milano.

È in effetti vero che il tempo che trascorro a Bologna lo trascorro a borbottare qualche variazione su «vuoi mettere Milano»: le amiche telefonano lamentandosi di Sala, del fatto che non funziona più niente, del metrò che passa con frequenza romana, e io come un disco rotto chiedo se vogliano fare a cambio con Lepore che non raccoglie la spazzatura.

È però altrettanto vero che il tempo che passo a Milano lo passo borbottando «si vede proprio che sono finiti i soldi». Solo in un pomeriggio di questa settimana: i cartelli nella fermata del metrò di Montenapoleone che avvisano che gli ascensori li stanno riparando e se avete bagaglio dovete usare un’altra fermata, come se la città ad agosto ancora si fermasse come quando c’erano i soldi; la trasformazione di Corso Como 10, il concept store del lusso quando c’erano i soldi, in spaccio di saldi; il Ratanà che è chiuso a pranzo perché quel genio del sindaco, con l’imprinting della sua giovinezza in un secolo in cui c’erano i soldi e Milano ad agosto era deserta, fa fare i lavori lasciando la zona senz’acqua per intere giornate; i taxi che non si trovano, perché i tassisti saranno organizzati come quando c’erano i soldi e le città d’agosto erano deserte, e se si trovano non riescono però a venire a prenderti in via della Spiga perché via del Gesù è interrotta anche lei dai lavori: tutta la manutenzione concentrata ad agosto, come agosto fosse l’agosto del Novecento.

Il mio preferito tra gli account Twitter (o come si chiama ora) è uno che si chiama “Editing The Gray Lady”, tenuto da un picchiatello che, mentre noi dormiamo, sta lì a controllare come il New York Times cambia titoli o url degli articoli che solo dopo averli messi on line si rende conto possano risultare imprecisi o, peggio, disturbanti per qualcuno.

Ieri mattina mi ha segnalato che il pezzo su Bologna che avevano pubblicato aveva cambiato titolo, rinunciando al meraviglioso “Come la mia amata città italiana è diventata un incubo di mortadella”. Chissà se l’autrice ha fatto notare alla redazione che “Mortadella nightmare” sarebbe parso, ai più anziani bolognesi, un attacco a Romano Prodi. Bologna nel titolo è diventata “inferno di turisti” – che, converrete, è troppo generico.

(Davide Cantelli)

L’articolo del New York Times mette a parte gli stranieri d’un’osservazione che chiunque sia cresciuto a Bologna fa da parecchi anni. Ricopio da un articolo che scrissi per La Stampa nel 2021, parlando della cartoleria in cui compravo scemenze color pastello da piccina: «Adesso, a quel civico di piazza Minghetti c’è un bistrot, perché ormai Bologna è fatta solo di posti dove mangiare (al posto di Naj Oleari c’è una pizzeria)».

Nel frattempo ha smesso d’esser vero: le mie madeleine non sono più rimpiazzate solo da mense di vario tipo. L’ultimo posto a resistere, la mesticheria di piazza Galvani dove le bambine della mia generazione compravano i colori e il Das, ha chiuso l’anno scorso, ora al suo posto c’è un negozio di vestiti d’acrilico. Siamo troppi, è scomparso il gusto, e dobbiamo tutti comprare in continuazione vestiti brutti e cibo sovrapprezzato.

Al posto del cinema porno Ambasciatori, c’è la libreria preferita del ceto medio complessato, col suo bravo Eataly all’interno, e chissà perché quel baluardo culturale in cui i bolognesi andavano a farsi le seghe dopo aver pagato il biglietto nessuno lo rimpiange mai, reliquia di quando si pagava tutto, persino il porno.

Come da titolo originale, il pezzo del New York Times si concentra sull’iconografia porcina nelle vetrine, e sulla quantità di posti che vendono mortadella, ma quella è nient’altro che la mano invisibile del mercato. Quando Stanley Tucci venne a Bologna e andò a mangiare la mortadella col tizio delle Sardine (che, a nominarlo adesso, sembra più recente Ciro Cirillo), ricordo settimane d’indignazione social perché Tucci aveva detto che nella mortadella c’era l’aglio. Se pensate che i romani con la loro ortodossia della carbonara siano noiosi, non avete mai visto i bolognesi.

La cucina bolognese non esiste, ma su questo apriamo un dibattito un’altra volta. Pur non esistendo, è però l’unica attrattiva locale, l’unico orgoglio, l’unica specificità, epperciò: mortadella. Certo che è straniante vedere un posto che fa solo panini alla mortadella aprire succursali in tutto il centro, ma ogni volta che passo davanti a qualche succursale ci sono decine di persone in fila: è difficile resistere al mercato, amore mio.

Io d’altra parte non collaboro alla demortadellizzazione. Qualche sera fa, incuriosita da un articolo di Gastronomika, sono andata a cena in un giapponese che non conoscevamo né io né i miei commensali. Abbiamo mangiato molto bene, ma quando all’inizio la cameriera ci ha spiegato che avevano un solo vino perché loro non sono un ristorante ma un cocktail bar con assaggi di cibo, molti occhi si sono alzati al cielo: maronn’, Bologna quando vuol fare Milano che a sua volta vuol fare New York, e in tutto questo rimbalzo di desiderio mimetico arriva tre giri in ritardo.

Il turista che passa da Bologna preferirà fare la fila per cinque euro di panino alla mortadella o andare a mangiare in un posto che nelle foto per Instagram (l’unica ragione per cui ormai si viaggi) non sembrerà tipicamente bolognese? Il turista medio, che si percepisce viaggiatore perché come bagaglio a mano ha una borsa con stampato il mappamondo, saprebbe distinguere un posto in cui si mangia bene da una trappola per turisti? Certo che no, sennò nove decimi dei ristoranti nel centro di Roma avrebbero già chiuso, e a Venezia ci sarebbero solo i residenti.

Che siamo troppi e troppo privi di gusto e che lo scempio delle città dipenda da questo ben più che da RyanAir è un dato di realtà che nessuno ha voglia di affrontare. Mentre scrivo questo articolo mi arriva la mail d’una lettrice che dice che no, la questione della sovrabbondanza di turismo non è come l’ho descritta l’altro giorno, è che chi ci governa non ci educa con un’offerta culturale – sì, buonanotte.

Ieri mattina, mentre nel mondo leggevano il New York Times, a Bologna leggevano il dorso locale del Corriere, che in prima pagina aveva questo titolo: “Una Cesarina per la Casa Bianca – La rete di cuochi amatoriali nata a Bologna si offre per cucinare al prossimo presidente”. Procedo a leggere convinta si parli della Cesarina, famoso e antico ristorante bolognese. E invece.

E invece, m’informa il Corriere senza mai ridere in faccia alla proposta che sta riferendo, si tratta della «community riunita attorno alla piattaforma cesarine.com, nata a Bologna nel 2004». Quando vedo la parola «community» metto mano alla pistola, ma mi contengo e proseguo nella lettura.

La cuoca della Casa Bianca vuole ritirarsi, e quindi «la proposta di Cesarine prevederebbe la rotazione trimestrale di cuoche e cuochi amatoriali, provenienti da diverse regioni».

Come ogni persona sana di mente, sono svenuta all’idea che non solo sia plausibile che alla Casa Bianca optino per «cuochi amatoriali» (la mia insalata di pesche e pomodori varrà un invio di curriculum?), ma anche che le indagini di sicurezza vengano rifatte ogni tre mesi per far entrare alle dipendenze del presidente dei nuovi dilettanti con la passata di pomodoro in valigia. Ma il Corriere non ride, e insiste.

«Non sta nella pelle Davide Maggi, ceo di Home Food Società Benefit, cui fanno capo la community e la piattaforma: “Siamo entusiasti – conferma – di annunciare la candidatura delle nostre 1.500 Cesarine e Cesarini”». Immagino che non stiano, come si direbbe in frasifattese, nella pelle neanche i servizi segreti americani, che non vedono l’ora di vagliare mille e cinquecento fedine penali a scopo di soffritto.

Spero che al New York Times non si siano persi questo ritaglio del Corriere, e abbiano capito che non la mortadella, non il numero tendente a infinito di posti dove si mangia (male), non le torri e le tette e i tortellini, distinguono Bologna da Milano, Bologna da New York, Bologna da qualsivoglia luogo.

Sempre e solo, a caratterizzare la città rispetto alla quale vorrei variare sui documenti la mia identità, è la mitomania. Specialità locale diffusa anche altrove (Manuel Fantoni e Bruno Cortona sono entrambi romani), ma mai mai mai con la totale, assoluta, talentuosa mancanza di senso del ridicolo che caratterizza la nostra più mortadellosa mitomania di provincia.

(Paolo D’Andrea)

La parola della settimana. Vela Riccardo Rosa Video Player (napolimonitor.it)

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(credits in nota 1)

Si alza il vento, bisogna tentare di vivere (paul valery, il cimitero marino)

S’erano nascosti oltre l’undicesimo piano della Vela numero 6 vicino alla porta che dava sull’enorme terrazzoscempio del caseggiato. Lì o si andava a fare o si andava a pomiciare. […] Quel giorno di agosto c’era molta calma in giro, era controra, la calura asfissiante aveva portato al mare un po’ tutti, quelli che erano rimasti erano troppo apatici e asfittici per arrampicarsi sul terrazzo. Altri ragazzi in giro non se ne vedevano. Lele e Mariagrazia, con le spalle alla porta del terrazzo della loro Vela guardavano da un finestrone enorme tutto ciò che si offriva loro all’orizzonte. […] Dopo qualche minuto Lele le regalò l’America la Spagna e la Cornovaglia, e Mariagrazia che ne sapeva lei? Si lasciò sorprendere rossa in viso tesa emozionata accucciata vicino a lui sotto a lui che era una colonna e guardandolo poi fumare gli chiese: “Questo è l’amore?”. “Questa è una specie di amore”. “E l’amore che cos’è?”, chiese Mariagrazia. “L’amore lo fanno i grandi – rispose Lele – a letto, gli sposati o i fidanzati che vanno negli alberghi, nelle macchine. E poi a te che interessa? Sei grande tu? Già vuoi fare l’amore tu?”, e sorridendo mentre le sfiorava i capelli chiese: “Lo vuoi un gelato?”.  (peppe lanzetta, gelato pistacchio e limone, in: figli di un bronx minore)

(credits in nota 2)

Dopo il terremoto occupammo la Vela gialla, il 13 dicembre 1980. Le situazioni al Centro storico in parte si trasferirono nell’edilizia pubblica denominata “167”, e in particolare al lotto C, qui a Scampia. La provenienza era in gran parte dai Quartieri Spagnoli. All’epoca c’erano dei progetti di radere al suolo i Quartieri Spagnoli. […] Tante persone provenienti dal Centro storico si insediarono qui con noi al lotto G e in altre parti della città. Tanti furono espulsi attraverso la legge 219 in paesi di provincia […] All’epoca le Vele non erano abitate. Quella dove noi ci insediammo, questa qui del Comitato, la gialla, non era completata neppure. C’erano tanti alloggi laterali, praticamente senza nulla, infatti tra gli inquilini che occuparono questa struttura, alcuni venivano definiti i “senza niente” perchè gli alloggi non erano stati completati. Alla fine riuscimmo a farli terminare e far rientrare gli occupanti. (vittorio passeggio intervistato da giuseppe de stefano in: cartografie sociali, rivista di sociologia e scienze umane, novembre 2016)

Facce ‘e paura, sotto ‘e Vele scagnate
Tonino ‘a casa nun è turnato.
Maradona nun po’ turna’
pe’ continua’ a sunna’…
(franco ricciardi, 167)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

Il mio letto è come un veliero:
Cummy alla sera mi aiuta a imbarcare,
mi veste con panni da nocchiero
e poi nel buio mi vede salpare.
Di notte navigo e intanto saluto
tutti gli amici che attendono al molo,
poi chiudo gli occhi e tutto è perduto
non vedo e sento più, navigo solo.
(robert louis stevenson, da: il mio letto è una nave)

(credits in nota 3)

Ngopp’ ‘e culonne ‘e Scampia,
a Marianella aret’ ‘a casa mia,
ce sta scritta sta frase
ca’ dice tutt’ cos’.

(enzo avitabile, quando la felicità non la vedi cercala dentro)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

Tre vele sono state abbattute, non è che vediamo grandi risultati, a me il modo in cui si sta sviluppando questo progetto mi sa di computo metrico per capire come demolire tre vele e mettere a posto la quarta. La qualità di vita del quartiere non è un tema, non  è chiaro cosa si è deciso di mettere dopo in quello spazio, e con quali soldi procedere. […] Certo, sulle Vele si sta dialogando con il Comitato, che è un soggetto importante per il territorio, ma a Scampia ci sono quarantamila abitanti. Non mi pare siano stati tenuti in considerazione nel decidere il loro destino. (daniela lepore, intervista del 2016)

(credits in nota 4)

Spettatori innocenti non ne esistono. Prima di tutto: che cosa ci fanno lì? (w.s. burrough)

(credits in nota 5)

Disgustato ‘a stu clamore ‘e l’informazione
votto ‘nterra ‘a radio e sputo int’ ‘a televisione.
È bello a jì a Cannes c’a pellicola
a fa’ scalpore p’e ridicol’,
a fa’ ‘o meglio share cu ‘na fictiòn,
cu l’uocchie ‘ncuoll’ ‘e tutta ‘a nazione,
n‘e maje capito over’ chi so’.
(co’sang & fuossera, nun saje niente ‘e me)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

«Dentro le Vele – continua Benfenati – al momento ci sono ancora circa cinquecento nuclei familiari, che hanno avuto un riconoscimento attraverso una delibera comunale; attendono un alloggio da circa quindici anni; abbiamo avuto la sfortuna del Covid mentre era in corso il processo di abbattimento, questo ha tenuto fermi i cantieri due anni. Oggi i lavori sono ripresi, anche grazie all’arrivo dei fondi del Pnrr. Noi abbiamo detto fin dall’inizio che chi vive in posti del genere non può essere considerato benestante, deve necessariamente essere in una situazione di indigenza, quindi deve stare dentro una graduatoria speciale sul diritto all’abitare, che poi in questo caso è anche diritto alla salute, all’infanzia, a un’esistenza degna». (omero benfenati intervistato da luca rossomando, napolimonitor.it, maggio 2024)

(credits in nota 6)

E ogni riferimento è puramente casuale, brò! Quello che vogliono mostrare di noi in tivvù è totalmente diverso da ciò che siamo. Ma la sveglia sta suonando. La televisione ci droga con i suoi programmi del cazzo. Apri gli occhi: Dove Ognuno Nasce Giudicato! …tanto alla fine capiscono sempre il cazzo che gli pare. (enzo dong, italia1)

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¹ Vittorio Passeggio e i bambini delle Vele in: L’uomo col megafono, di M. Severgnini (2012)

² Felice Pignataro in: Felice!, di M. Antonelli e R. D. Klain (2006)

³ Vittorio Passeggio, i bambini e gli abitanti delle Vele in: L’uomo col megafono

⁴ Felice Pignataro in: Felice!

⁵ Mirko Calemme, Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Tonino Stornaiuolo, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella in: Il Convegno. Azione teatrale sul tema delle periferie, di Punta Corsara (2011)

⁶ Marina Suma in: Le occasioni di Rosa, di Salvatore Piscicelli (1981)

Bologna 2021-26. Nuova casa per le scuole Besta: scelta intelligente o subalternità ai centri sociali? (bolognatoday.it)

di B.D.R.

Il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ha definito 
"una scelta intelligente" il trasferimento delle 
scuole Besta nel polo dinamico accanto al 
liceo Copernico. 

Tuttavia, questa decisione ha suscitato polemiche da parte del centrodestra

Da parte del sindaco Matteo Lepore la scelta di trovare una nuova “casa” alle scuole Besta all’interno del polo dinamico, accanto al liceo Copernico, viene definita “una scelta intelligente”.

Dall’altra parte c’è chi, come gli esponenti di Fratelli d’Italia Marco Lisei e Marta evangelisti, non esitano a definire il “passo di lato” del Comune come un atto di “subalternità ai centri sociali violenti”.

Lisei: “La sinistra forte con i deboli e debole con i forti”

Durissimo è l’attacco del senatore di Fratelli d’Italia Marco Lisei. “Con la decisione di fermare il cantiere delle Besta il sindaco mette nero su bianco la sua totale subalternità ai centri sociali violenti – denuncia – . Quando erano i cittadini per bene e la politica a criticare il progetto se n’è fregato, poi è arrivata la violenza dei centri sociali, a loro si è piegato. Il perfetto esempio di quanto diciamo da tempo, la sinistra forte con i deboli e debole con i forti oggi sublima questo concetto e ne fa un punto del proprio programma elettorale”. Lo dice

“Da domani – prosegue – chiunque sa a Bologna che se vuole ottenere qualcosa può farlo solo con la violenza. Tra le altre cose, ci domandiamo e domanderemo se tutto ciò non costituisca un danno erariale. Perché spendere soldi e tempo pubblico, tagliare alberi a caso, versare sangue delle forze dell’ordine, per portare avanti un progetto per poi accantonarlo ci pare un danno erariale immenso. E dire che sarebbe bastato ascoltare il centrodestra, ma l’arroganza di Lepore oggi tutti sanno che ha solo un freno, la violenza dei centri sociali”.

Evangelisti: “La Regione controlli”

“In linea con il nuovo mantra della sinistra “pur di raccogliere consensi, si fa e dice tutto e il contrario di tutto” adottato sia per la corsa alla presidenza della Regione, vedasi il tema sanità, oggi assistiamo invece alla marcia indietro di Lepore sulle scuole Besta, dando così ragione a chi per avere ragione ha utilizzato solo la violenza, in barba ai percorsi partecipati e ai confronti con i cittadini”, rincara la dose Marta Evangelisti, capogruppo di FdI in Regione Emilia-Romagna.

“Tutto ciò con buona pace degli alberi tagliati, dei soldi spesi per l’impiego delle forze dell’ordine e per i disagi e le accuse sopportati da queste ultime, e molto altro – aggiunge – . E, soprattutto, con buona pace per gli alunni e per le famiglie se dovranno trovare nuove collocazioni agli allievi delle Besta di quelli del Sabin che avranno spazi occupati. Da verificare poi se tutto ciò sarà compatibile con i fondi Pnrr richiesti dal Comune e con la contabilità generale dell’ente. Chiederemo alla Regione ‘dai poteri affievoliti’ e senza presidente di controllare – conclude – sapendo già che non sarà possibile ottenere risposte perché per qualcuno (non per noi) prime dei cittadini c’è sempre la campagna elettorale”.

FI: “Sulle Besta ennesimo dietrofront della giunta”

“Sulle Besta ennesimo dietro front di una giunta che non ne becca una”, dicono Nicola Stanzani, capogruppo FI in consiglio comunale e Lanfranco Massari, segretario FI Bologna. “Si avvicina una nuova campagna elettorale e il Pd a Bologna ha paura di perdere voti a sinistra – aggiungono – . L’ennesimo segno di incapacità e di debolezza della giunta Lepore che ancora una volta si scontra con la realtà senza essere in grado di farci i conti. Quanti soldi, quanti alberi e quanti danni alla città ci costerà l’inadeguatezza e l’ottusità di questa giunta di estrema sinistra?”

Di Benedetto: “Bene cambio di sede, ma messaggio sbagliato”

“Bene la scelta del sindaco Lepore di cambiare la destinazione delle nuove scuole Besta, che non saranno più nel parco Don Bosco. Dall’inizio abbiamo espresso forti perplessità e chiesto se non fosse possibile scegliere un’altra sede: evidentemente lo era”, dice il capogruppo della Lega a Palazzo d’Accursio, Matteo Di Benedetto.

“C’è stata, quindi, dall’inizio, una progettualità sbagliata e poco ragionata da parte dell’amministrazione – aggiunge – che ha dimostrato i suoi limiti e la sua scarsa capacità programmatica. La scelta iniziale non era stata sufficientemente ragionata. Tuttavia, ci preoccupa il messaggio che il Sindaco sta mandando alla città: chiusa violenza, con Lepore, l’ha vinta e può influire sulle politiche della città, mentre chi rispetta le regole no. Chi ha manifestato in maniera ordinata o ha sollevato dubbi seguendo le regole, non è stato minimamente ascoltato. Viceversa, chi ha occupato abusivamente ha avuto la meglio. La stessa cosa che succede con l’emergenza abitativa: chi aspetta il suo turno, spesso vede la sua domanda insoddisfatta, mentre chi occupa abusivamente ha il Sindaco che gli dà una mano e gli trova casa.”

Lepore: “Solo gli stupidi non cambiano idea”

“Io ero interessato al bene di Bologna. Per alcune settimane si discuterà se abbiamo vinto o abbiamo perso. Poi, a settembre i ragazzi andranno a scuola, inaugureremo il polo dinamico e questo è l’importante. Hanno voluto portare la Val di Susa in viale Aldo Moro. Noi ci occupiamo dei residenti e della comunità scolastica delle Besta, che non si meritano il conflitto, che hanno questioni sociali, bisogni educativi. Ho fallito? Abbiamo così tante sfide, se dovessi considerare tutti i passi di lato dei fallimenti, finirei qui”, è la spiegazione del sindaco Lepore.

“L’obiettivo politico era fare una nuova scuola e tenere unita la città. Lo abbiamo fatto, non mi pare una sconfitta politica”, aggiunge il sindaco.

Quanto alla decisione di spostare la scuola media Besta nel polo dinamico “la scelta arriva adesso perché si sono create le condizioni – spiega Lepore –  Credevamo nel progetto Quadrifoglio, ma solo gli stupidi non cambiamo mai idea. Il sindaco non deve costringere una città, pur di dimostrare di avere ragione, a vedere scene che si sono viste altrove. Non è razionale pensare di procedere con uno sgombero di quel tipo. Abbiamo il pieno sostegno del questore e del prefetto. Bologna non ha bisogno della polizia e della forza per fare una scuola”.

Il Pd fa quadrato attorno alla scelta del sindaco
“Il compito di una buona amministrazione, è quello di affrontare e risolvere i problemi dei cittadini. Avevamo promesso una nuova scuola di grande qualità ai ragazzi e alle famiglie una nuova scuola media. L’obiettivo è raggiunto”. Il Pd di Bologna fa quadrato attorno al Comune, che oggi chiude un anno di tensioni e scontri sulle nuove scuole Besta al parco Don Bosco, rinunciando al progetto del nuovo edificio e spostando i ragazzi al Polo dinamico.
“La soluzione prospettata questa mattina dal sindaco e dall’amministrazione comunale, di utilizzare il nuovo polo dinamico in costruzione a fianco dell’area Besta e di costruire una nuova sede del Sabin a fianco alla attuale sede, serve anche ad abbassare i toni di scontro in città”, riconosce il segretario cittadino, Enrico Di Stasi, presente alla conferenza stampa del sindaco di questa mattina.
“Diversi soggetti politici e sigle organizzate si sono mosse in questi mesi e anche in questi ultimi giorni per strumentalizzare e fermare questo cantiere di un’opera pubblica, in questo caso di una scuola. È uno scontro politico e credo che gli alberi c’entrino poco”, sottolinea Di Stasi. “La soluzione di uno sgombero con l’uso della forza pubblica, oltre che di difficile realizzazione come dimostrano i precedenti, sarebbe stato di forte impatto per la città. La nostra città si merita altro che la riproposizione di dinamiche di scontro organizzate, da alcuni esperti del genere”, rimarca.
“Poter avere da subito una scuola per i ragazzi del quartiere ed averlo fatto senza arrivare allo scontro, essere usciti da questa situazione di stallo con delle proposte, al Pd di Bologna pare una soluzione intelligente. Saremo a fianco del sindaco, dell’amministrazione e dei cittadini nel supportare le scelte”, conclude Di Stasi.
Coalizione civica: soluzione che garantisce didattica, verde e evita prove di forza
Coalizione Civica parla di “una nuova scuola, sostenibile, efficiente, già pronta e che salva il bosco. Sembrava impossibile ottenere tutto, ma ci abbiamo lavorato e creduto” si legge in una nota  diffusa dal movimento che “ha sempre creduto che l’amministrazione dovesse trovare una soluzione che non trascurasse né le esigenze di una scuola bella e nuova, uno spazio pubblico e un servizio necessario, né le preoccupazioni per la qualità ambientale e del verde nel quartiere: elementi che, invece, sono entrati in conflitto. Un conflitto che non avrebbe mai potuto risolversi a manganellate”.
“L’intelligenza collettiva è sempre superiore a quella individuale o di parte – aggiunge Coalizione Civica – . È per questo che la soluzione individuata per le scuole Besta risponde a più esigenze collettive e non solo a quelle di parte. Crediamo che oggi si sia scritta una pagina di politica fuori dall’ordinario, volta al bene comune, capace di riflettere, capire, interrogarsi, assumere scelte importanti guardando alla collettività e non guardandosi allo specchio. La città, con tutte le sue contraddizioni e sfaccettature, chiedeva una soluzione politica nel senso più alto che evoca. Oggi la soluzione c’è e non prevede l’uso della forza pubblica ed evita che le alunne e gli alunni siano messi in moduli provvisori e inadatti o costretti ad andare a scuola in un clima conflittuale attorno ai cantieri per diversi anni”.
“Ringraziamo il sindaco Matteo Lepore, la vicesindaca, Emily Clancy – conclude la nota –  l’amministrazione e tutti coloro che hanno contribuito a questo risultato, che deve rappresentare un punto di svolta per la nostra capacità di mettere in campo politiche ambientali, sviluppo della scuola pubblica, cura delle relazioni, partecipazione reale, rispetto del territorio”.
Verdi: “Soluzione va nella direzione da noi indicata”
“La soluzione annunciata oggi dal sindaco Matteo Lepore va nella direzione che noi Verdi invochiamo da tempo. Abbiamo iniziato nel luglio 2023 a segnalare le criticità del progetto della nuova scuola media Besta nel parco Don Bosco”, osservano Danny Labriola, portavoce Europa Verde-Verdi Bologna, e Silvia Zamboni, consigliera regionale Europa Verde-Verdi

“Abbiamo incontrato il sindaco nell’agosto 2023 e siamo intervenuti diverse volte in consiglio comunale, ma la giunta non ha mai voluto rinunciare al progetto Quattrofoglie  – proseguono – che prevedeva la costruzione di un nuovo plesso scolastico nel parco, con il conseguente sacrificio di decine di alberi ad alto fusto. Oggi la retromarcia del sindaco rappresenta la vittoria di un vastissimo movimento civico e ambientalista, che ha oltrepassato i confini cittadini e che abbiamo contribuito a far nascere un anno fa.  Oggi si dà finalmente risposta a migliaia di cittadini e residenti che in questi mesi hanno presidiato il parco in modo pacifico per rivendicare il loro diritto alla salute”.

“Il sindaco Lepore dichiara di aver fatto degli errori in questa vicenda e che dagli errori si impara – concludono – . Ci auguriamo che sia l’occasione per comprendere l’importanza dell’ascolto e della vera partecipazione, soprattutto quando le amministrazioni propongono progetti che impattano sull’ambiente e sulla qualità di vita delle persone”.

«Traditi dalla giunta Lepore». Nasce il «cartello» dei comitati che unisce destra e sinistra (corriere.it)

Nel manifesto proposte su mobilità, sicurezza, 
commercio, verde

Comitati e cittadini uniti a tutela dei beni comuni e contro l’arroganza e la violenza.

S’intitola così il manifesto di protesta verso le politiche di Palazzo d’Accursio e le modalità di partecipazione «blande e insufficienti» ai progetti, attuate dall’amministrazione.

La grande novità di questo «cartello» (che non comprende tutto l’ampissimo ventaglio di comitati cittadini, ma che è pronto ad accogliere nuove adesioni) è la presenza di realtà legate sia alla sinistra, nelle sue diverse componenti, sia alla destra, alle prese con un’opposizione consigliare risicata e poco efficace. Un manifesto, quindi, che va oltre le coloriture politiche.

«Questo è quello che ha prodotto la politica del sindaco», dice Andrea De Pasquale, fra i principali coordinatori del manifesto e forte di un doppio sguardo visto il suo passato nei Quartieri con incarichi pubblici, nell’urbanistica e nella mobilità.

Immediato arriva l’endorsement dell’ex candidato sindaco e presidente di Bologna ci piace (uno dei comitati del Manifesto), Fabio Battistini: «Vedo così realizzato il primo passo di un progetto che mi vede coinvolto anche come ideatore: unire, fuori e oltre gli steccati dei partiti che rappresentano l’opposizione, tutte le aree di disagio dei cittadini che non si riconoscono in questa amministrazione».

Al momento i comitati riuniti (mancano ad esempio quelli assai numerosi della zona universitaria) sono Associazione Percorsi, Associazione ViviAmo Bologna, la stessa Bologna ci piace, Bologna Vuole Vivere, il comitato Bertalia-Lazzaretto, Besta-Parco Don Bosco, Bologna l’aeroporto incompatibile, No Palazzoni Due Madonne, Non rivogliamo il tram a Bologna, Palasport, Parco Acerbi-Nido Cavazzoni, Residenti Santa Viola, Tutela Alberi Bologna e provincia, Viale Oriani, gruppo civico abolizione Bologna 30, Una Bologna Che Cambia.

Una bufera di voci, una valanga di temi, un concentrato di forti insoddisfazioni.

Il sunto del manifesto è ‘concentrato in 18 pagine assai dettagliate suddivise in 6 temi principali che nella loro esplicazione politica e pratica sarebbero stati traditi e non correttamente attuati dalla giunta Lepore.

Eccoli sotto il titolo «cosa vogliamo»: tutelare il verde urbano, patrimonio pubblico maltrattato; difendere la salute, minacciata da inquinamento e rumore; rivedere l’uso degli spazi pubblici, con meno privilegi e più equità; rendere la mobilità davvero sostenibile; tutelare il commercio di vicinato per una città abitabile (non solo visitabile); opporsi all’arroganza che diventa violenza.

Un punto, quest’ultimo, con fortissime critiche verso il sindaco ritenuto responsabile delle «manganellate» ricevute dai cittadini attivisti che si battono nelle diverse aree della città (il caso Besta è ovviamente in primo piano). «In questo modo l’amministrazione fa una scelta grave, di cui dovrà rispondere, in futuro», si legge nel manifesto dove si sottolinea «la scelta di negarsi all’ascolto e alla partecipazione vera, autentica, non pilotata, e di difendere le proprie decisioni politiche con i manganelli piuttosto che con gli argomenti e ancora la scelta di reprimere con la violenza le espressioni di dissenso, e di denigrare i manifestanti dipingendoli come estremisti, talvolta fascisti, talvolta antagonisti e anarchici».

Riguardo alla composizione e alle modalità di «lotta» del «cartello» tutto è in divenire. Intanto alle scuole Besta ci sarà un’assemblea dei comitati della zona aperta a tutti gli altri (bolognesi e non).

L’America profonda non esiste (rivistastudio.com)

di Andrea Beltrama

In Italia l'espressione ritorna ogni volta che 
si devono spiegare la politica negli Usa o 
personaggi come J.D. Vance. 

Ma la formula non descrive l’America reale, solo una versione esotica del Paese che esiste negli occhi di chi lo osserva da lontano.

Dal primo dibattito presidenziale non sono nemmeno passate tre settimane. Il tempo di assistere a un attentato, esaminare minuziose perizie psichiatriche a distanza sulla salute di Joe Biden, e registrare la nomina freschissima di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza per i Repubblicani. In buona sostanza, dopo una stanca fase di studio, la corsa alla presidenza americana sembra essere finalmente entrata nel vivo.

E con essa, ha iniziato a consumarsi a velocità sempre crescente uno dei rituali più classici dei mesi di campagna elettorale: la grandinata di commenti, previsioni, saggi di sociologia in in cui esperti di varia estrazione e appartenenza politica articoleranno la loro ricetta per spiegare l’America.

Mentre tormentoni linguistici inossidabili torneranno a darci materiale per partite di bingo all’ultimo sangue. “Un paese diviso”; la “working class”; le “elite costiere” e i loro “prestigiosi atenei”; “il voto dei latinos”. Oppure ancora “le casalinghe di periferia” — perché “donne dei quartieri residenziali suburbani” suonerebbe effettivamente malissimo; o i “rednecks”, con i loro fucili ovviamente spianati e pronti a sparare

Tutto impallidisce, però, di fronte alla regina di tutte le ossessioni: l’America profonda. Un termine elusivo, magnetico, che si è fatto strada nei generi testuali più vari. Blog di viaggio, articoli di fondo, recensioni di concerti di Bruce Springsteen e Bob Dylan, reportage fotografici.

Fino alle opere, quelle davvero illuminanti, dei grandi studiosi della cultura americana – da Alessandro Portelli Marco D’Eramo. Ma il cui significato continua però a rimanere piuttosto difficile da afferrare.

Cosa si intende, esattamente, per America profonda? Attestata nell’editoria italiana già dagli anni ’80, l’espressione ha avuto un’impennata a cavallo del nuovo millennio, in concomitanza con la prima vittoria elettorale di George W. Bush. Il termine si riferisce essenzialmente a qualsiasi area del Paese non faccia parte delle città costiere principali: New York, Washington e Boston a Est; Los Angeles, San Francisco e Seattle a Ovest.

Un’accozzaglia eterogenea di biomi, paesaggi, insediamenti, economie, tutti racchiusi nel territorio sconfinato che si estende dai monti Appalachi al deserto della California. Ma i cui abitanti, a fronte di tanta diversità, finiscono spesso con l’essere rappresentati come un blocco monolitico, quasi caricaturale: conservatori, isolazionisti, religiosi fino al bigottismo.

Il tutto, inserito in una prospettiva di paternalismo marcato, tanto affranto quanto morboso. In cui l’America Profonda diventa “ineffabile regina dei parcheggi per camionisti” e “santa miracolosa per viaggiatori solitari”; una terra di “atmosfere torbide e intrise di sotterranea violenza” e “sudici motel”;  di “casalinghe ed operai” e “intensi traumi nell’anima”.

Per citare giusto alcune espressioni che parrebbero il frutto di un malfunzionamento di ChatGPT, ma accompagnano in realtà alcune tra le prime venti occorrenze di “America profonda” prese a caso dal database ItWac – con oltre un miliardo e mezzo di parole la più grande raccolta digitale annotata di testi in italiano.

È proprio questo ossessivo evocare atmosfere da beat generation – riguardo a luoghi che in certi casi non sono poi troppo diversi da un paese di provincia italiano – a illustrare come il termine abbia una funzione espressiva, più descrittiva. Non serve a identificare degli aspetti tangibili della realtà esterna; ma ad esprimere l’atteggiamento di chi lo usa.

Dando voce alla modalità ambivalente che abbiamo di rapportarci alla parte del continente americano che conosciamo meno, eppure ci attrae di più. Un mondo che immaginiamo come puro e autentico, ma pure inaccessibile e selvaggio – geograficamente e, soprattutto, culturalmente.

Non è un caso che, alla prova dei fatti, l’America profonda sia una categoria in larga misura esogena. Che nella società americana – che pure di tempo ad auto-analizzarsi ne trascorre parecchio – non esiste. O almeno, non negli stessi termini. L’espressione stessa, del resto, sembra la fusione ideale di due nozioni simili ma assolutamente distinte, quelle sì, invece, molto salienti nell’immaginario statunitense.

Una è quella di rural America. Un termine che gli analisti d’oltreoceano usano per identificare tutto quanto sfugge al tessuto urbano, e che tende a portare il grosso dei voti conservatori. L’espressione è apparentemente simile alla nostra, ma presenta due importanti differenze: rappresenta una categoria demografica ben più precisa – St. Louis e Chicago sono America profonda, ma non certo rurale; e non si porta dietro una valenza emotiva particolarmente forte – a parte l’occasionale spruzzata di disprezzo classista che permea il discorso liberale.

L’altra è quella di deep South. Il nocciolo degli Stati meridionali compresi tra l’Atlantico e il Mississippi: Louisiana, Mississippi, Alabama, South Carolina and Georgia. Questi sì “profondi”, e infatti rappresentati nell’immaginario americano attraverso una prospettiva estremamente simile alla nostra. Da una parte retrogradi e reazionari, aggrappati a una nostalgia del passato che spesso sconfina nel razzismo più becero.

Ma dall’altra misteriosi e magnetici. Come le paludi sconfinate, le verande coloniali, le fritture ciclopiche, e le fascinose note di jazz e blues che sono diventate delle icone globali di questi territori. L’effetto finale è quello di generare una sorta di matrioska degli stereotipi. Ricreando dall’interno, e su una regione molto più ristretta, quello stesso sguardo esoticizzante che gli stranieri adoperano per parlare dell’intero Paese.

Eppure, l’essenza di un’espressione assimilabile a “deep America” nel lessico americano non deve trarre in inganno. Anche oltreoceano, fantasie nostalgiche molto simili alle nostre sono ben documentate, e vanno ben oltre i confini del profondo Sud. L’esempio più fulgido, e di cui nei prossimi mesi si parlerà di più, è quello di J.D. Vance.

Appunto, fresco candidato alla vicepresidenza repubblicana, che ha vissuto sulla propria pelle due delle incarnazioni più vivide del concetto di America Profonda: le impenetrabili montagne dell’Appalachia, teatro di estrazione mineraria incontrollata prima, e dell’altrettanto violenta epidemia degli oppiacei qualche decennio dopo; e le pianure dell’Ohio orientale, dove l’industria pesante della Rust Belt prima è esplosa, e poi è caduta vittima dell’abbandono.

Proprio di questi luoghi Vance ha parlato a lungo nel suo memoriale Hillbilly Elegy (uscito in Italia per Garzanti con il titolo Elegia americana). Una raccolta di ricordi in cui, tra aneddoti surreali e analisi antropologiche sommarie, ha cercato di mettere assieme l’affetto nostalgico per quegli ambienti rustici, presentati come una jungle sociale in cui i cazzotti e gli insulti erano gli unici strumenti efficaci per comunicare; e la voglia disperata di smarcarsi da quelle dinamiche.

Da un lato l’esperimento ha funzionato, come mostrato dal successo, e dal genuino apprezzamento, che ha accompagnato la pubblicazione del libro, anche da buona parte parte del pubblico progressista. Dall’altra, qualcuno ha prontamente smascherato il giochino, accusando Vance di essere un grifter, un approfittatore che ha sfruttato la propria posizione per imbastire una gigantesca operazione nostalgia, volta essenzialmente ad accumulare capitale politico – una tesi che, dopo tre anni da senatore, vari voltafaccia ideologici, e una candidatura da vice-presidente, appare sempre più difficile da confutare.

E proprio il desiderio di smontare le fantasie esoticizzanti di Vance ha ridato linfa a uno dei filoni giornalistici e letterari più interessanti delle scienze sociali americane: una serie crescente di saggi e articoli volti a decostruire l’immagine dell’Appalachia bifolca e primitiva dipinta dall’elegia, e a inquadrare la sofferenza dei suoi abitanti nelle devastanti dinamiche storiche ed economiche che da sempre mettono in ginocchio la regione (per chi fosse interessato, qui un ottimo esempio)

E così, da qualsiasi parte la si guardi, si fa strada un dubbio: se l’America profonda non si sa bene cosa sia e forse non esiste nemmeno, ha davvero senso parlarne? Probabilmente sì, almeno dalla nostra parte dell’Oceano. Un po’ perchè è comunque una categoria utile per farsi un’idea di massima – seppur estremamente approssimativa – di certe dinamiche geografiche e culturali.

Che è poi la funzione cognitiva che permette a molti stereotipi, pur nel loro conclamato pressapochismo, di continuare a sopravvivere. E un po’ perché il termine stesso presenta una preziosa occasione di riflessione, facendo emergere un sottile nesso linguistico che accomuna il nostro modo di associare la provincia all’esotico – dalle praterie degli Stati Uniti al cortile del nostro vicino.

Così come essere profonde non sono mai Manhattan o Hollywood, non lo sono nemmeno Milano o Roma quando si parla di Italia. Profondo è invece tutto lo spazio che riempie gli interstizi, inglobando luoghi che percepiamo come tanto inquieti quanto irresistibili. Raramente la persona che scrive si identifica con queste realtà profonde.

E se lo fa, se ne distacca e riavvicina con sguardo straniante, come se non gli appartenessero davvero. Come il profondo Veneto cantato dalle Luci della Centrale Elettrica, “quello senza traffico, dove il cielo è limpido”. O il profondo Molise, “dove la banda ultra-larga è ancora un miraggio”.

In fin dei conti, proprio come in molte contee del Mississippi.

La resistenza degli ulivi palestinesi (rivistastudio.com)

Il libro Anchors In The Landscape di Adam Broomberg 
e Rafael Gonzalez, edito da MACK, è un viaggio tra 
ciò che rimane degli ulivi centenari e millenari 
nei territori occupati.

L’ulivo è più di un albero, per l’identità palestinese. È un totem culturale, oltre che una fondamentale fonte di resilienza economica per un territorio che, dal 1967, è sotto l’occupazione israeliana.

Sono più di centomila le famiglie palestinesi che dipendono economicamente da questi alberi, che in molti casi sono antichi di secoli, e non solo di anni. Essendo così importanti, sono purtroppo anche vittime della brutalità dell’occupazione: si stima che, dal 1967, circa 800 mila ulivi siano stati distrutti dalle forze israeliane e dai coloni.

Il libro Anchors In The Landscape è il risultato di viaggio fatto nel corso di diciotto mesi dai fotografi Adam Broomberg e Rafael Gonzalez nei Territori occupati di Palestina, con cui ci si riferisce alla Cisgiordania, Gerusalemme Est inclusa, e la Striscia di Gaza.

Ancore nel paesaggio, dice il titolo: alcuni di questi alberi hanno migliaia di anni, e sono cresciuti in quella terra, quindi, da prima ancora che nascesse l’impero ottomano, per dirne una. Impressionante, pensarci, e immaginarli come testimoni di tutta questa quantità di storia.

Testimoni non come le chiese, le moschee, i palazzi e i muri, però: testimoni vivi, con radici che si sono nutrite – e si nutrono ancora ora – del sottosuolo di quella terra, di quell’ossigeno e di quella pioggia. Le fotografie sono in bianco e nero, al centro dell’immagine c’è l’albero, sullo sfondo dipende: a volte un palazzo, a volte una moschea, a volte il profilo brullo e arso di una collina, talvolta la compagnia di altri ulivi.

Il libro è uscito per l’editore inglese MACK a maggio 2024, tempismo – tragicamente – perfetto in un anno in cui l’offensiva israeliana a Gaza si è fatta sempre più violenta, causando – mentre scriviamo queste righe – circa 35 mila morti, interi quartieri rasi al suolo, e quasi 80 mila feriti.

Durante la cosiddetta guerra di Gaza, iniziata – lo diciamo per tracciare dei confini convenzionali e storiografici – con la strage del 7 ottobre compiuta da Hamas e proseguita, dal giorno dopo, con la ritorsione israeliana e poi l’invasione di Gaza, sono stati commessi diversi crimini di guerra.

Diversi esperti della Corte penale internazionale e delle Nazioni Unite hanno citato la strage di Hamas e poi l’evacuazione forzata della popolazione di Gaza nord, l’assedio completo della Striscia in cui sono stati tagliati acqua, elettricità, cibo e carburante.

Intanto, la violenza continua anche in Cisgiordania: solo nel mese di aprile i villaggi di al-Mughayyir, Duma, Deir Dibwan, Beitin e Aqraba sono stati assaliti da centinaia di coloni, che hanno bruciato abitazioni, automobili e anche alberi. Almeno quattro cittadini palestinesi sono stati uccisi, racconta Amnesty International.

«Ho vissuto la Brexit e avverso i populismi: per questo mi candido con gli Stati Uniti d’Europa» (ildubbio.news)

di Giacomo Puletti

Intervista a Graham Watson, 

britannico con doppia cittadinanza e capolista per Renzi e Bonino nel Nord-Est

Sir Graham Watson, britannico con nazionalità italiana e già parlamentare europeo dal 1994 al 2014, è capolista per gli Stati Uniti d’Europa e spiega di aver vissuto sulla sua pelle il «disastro della Brexit in Gran Bretagna», avversandola «fino all’ultimo» e che si candida alle Europee perché sente anche in Italia «un vento simile».

Da dove arriva, vista la sua storia personale, l’idea di candidarsi alle Europee?

Amo l’Italia, che è la mia seconda patria, ho una moglie di Firenze, due figli che parlano italiano. Per dire che per me è stato naturale accogliere la proposta di Emma Bonino, Matteo Renzi ed Andrea Marcucci di fare il capolista nel Nord Est. Ci metto la faccia, proprio per dire agli elettori che chi dice meno Europa vuole impoverire il Paese. Lo faccio, perché ho vissuto sulla mia pelle il disastro della Brexit in Gran Bretagna, che ho avversato fino all’ultimo. In Italia sento un vento simile, a quello che respirai allora.

In che modo gli Stati Uniti d’Europa possono alimentare il sogno europeo?

A Bruxelles serve una squadra di deputati liberaldemocratici ed europeisti. Una squadra che abbia il compito costante di spingere sul versante dell’integrazione, del federalismo, della reciproca solidarietà. Bisogna finalmente raggiungere un accordo europeo sull’immigrazione, l’Italia non può continuare ad essere l’unico Paese a sopportarne il peso. Un’altra priorità è la politica estera e di difesa, bisogna procedere verso l’esercito comune. L’Europa deve tornare protagonista nei tavoli globali. Poi c’è la questione della competitività, delle aziende, del lavoro. Noi europeisti ci battiamo per un Unione Europea più vicina ai cittadini ed alle condizioni economiche dei territori e meno burocratica.

Da più di due anni va avanti una guerra ai confini dell’Europa, c’è il rischio che il conflitto possa allargarsi e come dovrebbe agire l’Ue per impedirlo?

Apprezzo gli sforzi che sono stati fatti in questi due anni ma non bastano. L’Europa deve mettersi in testa che è la casa delle democrazie e delle libertà e che la Russia di Putin è un pericolo costante per tutti noi. Sostenere e difendere Kiev significa difendere i nostri confini, le nostre istituzioni, il nostro modo di vivere. Mi hanno stupito le parole di un candidato del Pd, Marco Tarquinio: siamo tutti per la pace, ma la non violenza va chiesta all’aggressore, non all’aggredito. Ho detto del Pd, ma sono fortemente imbarazzato dalla posizione della Lega e del M5S.

I partiti che fanno riferimento a renew sono divisi, con IV e piu Europa da un lato e azione dall’altro: avrebbero dovuto correre insieme?

Lo sforzo di Emma Bonino e Più Europa e dei Libdem di Andrea Marcucci da una parte, il senso di responsabilità di Matteo Renzi dall’altra, sono stati sinceri. Non c’era una preclusione verso Carlo Calenda, che secondo me ha sbagliato a dividere. Per propensione personale però, io guardo più al futuro che al passato. Mi auguro che ci siano tante nuove occasioni di incontro con Azione, facciamo tutti riferimento a Renew Europe, la nostra matrice e’ comune.

L’Europa fatica a tenere il passo di Cina e Stati Uniti nel “governo” del mondo: cosa serve per colmare il gap?

Purtroppo l’Europa è ancora un nano politico a causa della sua frammentazione. Una dinamica che ci prefiggiamo di cambiare nella prossima legislatura. Intanto passando dall unanimità al voto a maggioranza, per togliere i diritti di veto che tanti Stati esercitano, pensi all’Ungheria di Orban. Più integrazione significa arrivare ad una politica estera condivisa, solo così torniamo ad essere attori globali. Dobbiamo completare il sogno di Adenauer, De Gasperi e Schuman. Un sogno che è nato su un’isola italiana, a Ventotene, dove un gruppo di reclusi del fascismo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, ed Eugenio Colorni, hanno immaginato un orizzonte più largo, per uscire dalle dittature.