di Guia Soncini
Vuoi mettere la community
Ho l’identità di codice postale, mi percepisco milanese.
Del resto, i bolognesi pensano seriamente che dei cuochi amatoriali locali potranno cucinare alla Casa Bianca
Tu, mi dice sempre una postmodernista che conosco, dovresti capire meglio di chiunque altro la questione delle persone trans, avendo anche tu un’identità non di genere ma di codice postale: sei di Bologna ma ti percepisci di Milano.
È in effetti vero che il tempo che trascorro a Bologna lo trascorro a borbottare qualche variazione su «vuoi mettere Milano»: le amiche telefonano lamentandosi di Sala, del fatto che non funziona più niente, del metrò che passa con frequenza romana, e io come un disco rotto chiedo se vogliano fare a cambio con Lepore che non raccoglie la spazzatura.
È però altrettanto vero che il tempo che passo a Milano lo passo borbottando «si vede proprio che sono finiti i soldi». Solo in un pomeriggio di questa settimana: i cartelli nella fermata del metrò di Montenapoleone che avvisano che gli ascensori li stanno riparando e se avete bagaglio dovete usare un’altra fermata, come se la città ad agosto ancora si fermasse come quando c’erano i soldi; la trasformazione di Corso Como 10, il concept store del lusso quando c’erano i soldi, in spaccio di saldi; il Ratanà che è chiuso a pranzo perché quel genio del sindaco, con l’imprinting della sua giovinezza in un secolo in cui c’erano i soldi e Milano ad agosto era deserta, fa fare i lavori lasciando la zona senz’acqua per intere giornate; i taxi che non si trovano, perché i tassisti saranno organizzati come quando c’erano i soldi e le città d’agosto erano deserte, e se si trovano non riescono però a venire a prenderti in via della Spiga perché via del Gesù è interrotta anche lei dai lavori: tutta la manutenzione concentrata ad agosto, come agosto fosse l’agosto del Novecento.
Il mio preferito tra gli account Twitter (o come si chiama ora) è uno che si chiama “Editing The Gray Lady”, tenuto da un picchiatello che, mentre noi dormiamo, sta lì a controllare come il New York Times cambia titoli o url degli articoli che solo dopo averli messi on line si rende conto possano risultare imprecisi o, peggio, disturbanti per qualcuno.
Ieri mattina mi ha segnalato che il pezzo su Bologna che avevano pubblicato aveva cambiato titolo, rinunciando al meraviglioso “Come la mia amata città italiana è diventata un incubo di mortadella”. Chissà se l’autrice ha fatto notare alla redazione che “Mortadella nightmare” sarebbe parso, ai più anziani bolognesi, un attacco a Romano Prodi. Bologna nel titolo è diventata “inferno di turisti” – che, converrete, è troppo generico.
(Davide Cantelli)
L’articolo del New York Times mette a parte gli stranieri d’un’osservazione che chiunque sia cresciuto a Bologna fa da parecchi anni. Ricopio da un articolo che scrissi per La Stampa nel 2021, parlando della cartoleria in cui compravo scemenze color pastello da piccina: «Adesso, a quel civico di piazza Minghetti c’è un bistrot, perché ormai Bologna è fatta solo di posti dove mangiare (al posto di Naj Oleari c’è una pizzeria)».
Nel frattempo ha smesso d’esser vero: le mie madeleine non sono più rimpiazzate solo da mense di vario tipo. L’ultimo posto a resistere, la mesticheria di piazza Galvani dove le bambine della mia generazione compravano i colori e il Das, ha chiuso l’anno scorso, ora al suo posto c’è un negozio di vestiti d’acrilico. Siamo troppi, è scomparso il gusto, e dobbiamo tutti comprare in continuazione vestiti brutti e cibo sovrapprezzato.
Al posto del cinema porno Ambasciatori, c’è la libreria preferita del ceto medio complessato, col suo bravo Eataly all’interno, e chissà perché quel baluardo culturale in cui i bolognesi andavano a farsi le seghe dopo aver pagato il biglietto nessuno lo rimpiange mai, reliquia di quando si pagava tutto, persino il porno.
Come da titolo originale, il pezzo del New York Times si concentra sull’iconografia porcina nelle vetrine, e sulla quantità di posti che vendono mortadella, ma quella è nient’altro che la mano invisibile del mercato. Quando Stanley Tucci venne a Bologna e andò a mangiare la mortadella col tizio delle Sardine (che, a nominarlo adesso, sembra più recente Ciro Cirillo), ricordo settimane d’indignazione social perché Tucci aveva detto che nella mortadella c’era l’aglio. Se pensate che i romani con la loro ortodossia della carbonara siano noiosi, non avete mai visto i bolognesi.
La cucina bolognese non esiste, ma su questo apriamo un dibattito un’altra volta. Pur non esistendo, è però l’unica attrattiva locale, l’unico orgoglio, l’unica specificità, epperciò: mortadella. Certo che è straniante vedere un posto che fa solo panini alla mortadella aprire succursali in tutto il centro, ma ogni volta che passo davanti a qualche succursale ci sono decine di persone in fila: è difficile resistere al mercato, amore mio.
Io d’altra parte non collaboro alla demortadellizzazione. Qualche sera fa, incuriosita da un articolo di Gastronomika, sono andata a cena in un giapponese che non conoscevamo né io né i miei commensali. Abbiamo mangiato molto bene, ma quando all’inizio la cameriera ci ha spiegato che avevano un solo vino perché loro non sono un ristorante ma un cocktail bar con assaggi di cibo, molti occhi si sono alzati al cielo: maronn’, Bologna quando vuol fare Milano che a sua volta vuol fare New York, e in tutto questo rimbalzo di desiderio mimetico arriva tre giri in ritardo.
Il turista che passa da Bologna preferirà fare la fila per cinque euro di panino alla mortadella o andare a mangiare in un posto che nelle foto per Instagram (l’unica ragione per cui ormai si viaggi) non sembrerà tipicamente bolognese? Il turista medio, che si percepisce viaggiatore perché come bagaglio a mano ha una borsa con stampato il mappamondo, saprebbe distinguere un posto in cui si mangia bene da una trappola per turisti? Certo che no, sennò nove decimi dei ristoranti nel centro di Roma avrebbero già chiuso, e a Venezia ci sarebbero solo i residenti.
Che siamo troppi e troppo privi di gusto e che lo scempio delle città dipenda da questo ben più che da RyanAir è un dato di realtà che nessuno ha voglia di affrontare. Mentre scrivo questo articolo mi arriva la mail d’una lettrice che dice che no, la questione della sovrabbondanza di turismo non è come l’ho descritta l’altro giorno, è che chi ci governa non ci educa con un’offerta culturale – sì, buonanotte.
Ieri mattina, mentre nel mondo leggevano il New York Times, a Bologna leggevano il dorso locale del Corriere, che in prima pagina aveva questo titolo: “Una Cesarina per la Casa Bianca – La rete di cuochi amatoriali nata a Bologna si offre per cucinare al prossimo presidente”. Procedo a leggere convinta si parli della Cesarina, famoso e antico ristorante bolognese. E invece.
E invece, m’informa il Corriere senza mai ridere in faccia alla proposta che sta riferendo, si tratta della «community riunita attorno alla piattaforma cesarine.com, nata a Bologna nel 2004». Quando vedo la parola «community» metto mano alla pistola, ma mi contengo e proseguo nella lettura.
La cuoca della Casa Bianca vuole ritirarsi, e quindi «la proposta di Cesarine prevederebbe la rotazione trimestrale di cuoche e cuochi amatoriali, provenienti da diverse regioni».
Come ogni persona sana di mente, sono svenuta all’idea che non solo sia plausibile che alla Casa Bianca optino per «cuochi amatoriali» (la mia insalata di pesche e pomodori varrà un invio di curriculum?), ma anche che le indagini di sicurezza vengano rifatte ogni tre mesi per far entrare alle dipendenze del presidente dei nuovi dilettanti con la passata di pomodoro in valigia. Ma il Corriere non ride, e insiste.
«Non sta nella pelle Davide Maggi, ceo di Home Food Società Benefit, cui fanno capo la community e la piattaforma: “Siamo entusiasti – conferma – di annunciare la candidatura delle nostre 1.500 Cesarine e Cesarini”». Immagino che non stiano, come si direbbe in frasifattese, nella pelle neanche i servizi segreti americani, che non vedono l’ora di vagliare mille e cinquecento fedine penali a scopo di soffritto.
Spero che al New York Times non si siano persi questo ritaglio del Corriere, e abbiano capito che non la mortadella, non il numero tendente a infinito di posti dove si mangia (male), non le torri e le tette e i tortellini, distinguono Bologna da Milano, Bologna da New York, Bologna da qualsivoglia luogo.
Sempre e solo, a caratterizzare la città rispetto alla quale vorrei variare sui documenti la mia identità, è la mitomania. Specialità locale diffusa anche altrove (Manuel Fantoni e Bruno Cortona sono entrambi romani), ma mai mai mai con la totale, assoluta, talentuosa mancanza di senso del ridicolo che caratterizza la nostra più mortadellosa mitomania di provincia.
(Paolo D’Andrea)