Gemma Tuccillo: “Effetto Caivano? Carceri mai così piene di minori. Si dà troppa attenzione alla sanzione” (ilriformista.it)

di Giulio Goria

Giovani e devianza

Meno detenzione e più percorsi alternativi, così si ricostruisce il patto sociale. Grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici

Gemma Tuccillo, magistrato di Cassazione da un anno in quiescenza, conosce molto bene la giustizia minorile italiana; vi ha dedicato oltre vent’anni di carriera, prima nei tribunali minorili a Napoli e Potenza e dal 2017 al gennaio 2023 a capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia.

È la persona adatta per riflettere sul disagio giovanile senza farsi trasportare dall’emergenza.

Dottoressa Tuccillo, cominciamo dalla stretta attualità. Il report dell’associazione Antigone fotografa una situazione preoccupante degli istituti penitenziari minorili. Anche qui scoppia il problema del sovraffollamento; in particolare, l’allarme cade sui numeri in ingresso, che raggiungono i 500 detenuti ad inizio 2024. Un incremento sostanzioso che negli ultimi 12 mesi ha visto crescere soprattutto ragazze e ragazzi in misura cautelare e per violazione della legge sugli stupefacenti. Sono i primi effetti del decreto Caivano?

«È vero che questo sovraffollamento degli istituti minorili è una situazione nuova, mai registrata in passato in modo così significativo. Ed è vero che l’aumento delle misure cautelari detentive contribuisce ad alzare i numeri. D’altra parte, non si registra una diminuzione dei reati e neanche un loro aumento consistente. In realtà, il dato che più colpisce è un altro: l’aumento del numero degli imputati, anche a parità del numero di reati. Questo significa che i ragazzi delinquono in gruppo più che in passato e spesso in maniera più grave. Per questo serve una riflessione più ampia e più profonda».

Allarghiamo allora lo sguardo. Il decreto Caivano è nato sull’onda di episodi particolarmente gravi, cosa ci dicono del quadro complessivo della devianza giovanile nel nostro Paese?

«Il punto è il disagio giovanile, che non è un fenomeno sempre identico a sé stesso. Cambiano le fragilità, cambiano le forme del disagio, ne intervengono di nuove, e gli anni della pandemia hanno fatto da acceleratore a un processo stratificato di questo genere. Oggi il disagio giovanile si riscontra a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale; sono le statistiche a dircelo. E a fronte di episodi particolarmente gravi ci troviamo davanti a una devianza diffusa, disseminata in modo capillare, espressione di un disagio che investe l’adolescenza in quanto tale, anche a prescindere dalle diverse connotazioni territoriali. Le condotte che assumono poi una rilevanza penale sono la conseguenza di questa situazione generale. Per questo non è sufficiente inquadrare il sovraffollamento soltanto come effetto del cosiddetto decreto Caivano. Dobbiamo guardare a tutto quello che di più si può fare in termini di sostegno del disagio adolescenziale. Insomma, prima ancora di parlare di prevenzione della delinquenza minorile o della recidiva, dobbiamo mettere al centro la prevenzione del disagio».

La giustizia penale minorile è un fiore all’occhiello della giustizia italiana anche in ambito internazionale. La sua tenuta oggi è a rischio?

«I rischi ci sono. Di fronte al dato di cui parlavo la situazione del sovraffollamento diventa ancora più dolorosa e preoccupante: le strutture minorili, per lo più piccole e di consueto ben attrezzate per i programmi di trattamento, sono messe sotto pressione da numeri alti. Se la platea diventa troppo numerosa si rischia di non poter più offrire l’attenzione trattamentale necessaria per risolvere il problema del disagio, oltre che di non rispettare il principio di territorialità nell’esecuzione della pena».

Cosa la preoccupa di più?

«Non sono particolarmente preoccupata da un eccesso di repressione. Lo sono piuttosto dal fatto che ad una maggiore severità delle sanzioni non si accompagni una risposta trattamentale altrettanto forte. Il buonismo non mi appartiene e non mi è mai appartenuto, anche la severità è un valore su questi temi. Però è fondamentale che ci sia una seria campagna di educazione alla legalità da un lato e un serissimo investimento sui programmi trattamentali. Ai giovani che entrano nel circuito penale va garantita l’opportunità di seguire percorsi reali rivolti all’inclusione e al reinserimento in società. Pensare che, da sola, la risposta sanzionatoria sia sufficiente è una illusione, ed è chiaro da questo punto di vista che il sovraffollamento delle strutture rende quei percorsi di recupero più difficili. Né, voglio aggiungere, si può auspicare la costruzione di nuove carceri. L’obiettivo ideale da perseguire semmai dovrebbe essere quello opposto».

Meno carceri e più percorsi alternativi, quindi? È così che si ricostruisce il patto sociale con chi commette reati?

«Non c’è dubbio, l’implementazione delle misure alternative alla detenzione è molto importante. Non dimentichiamoci che queste misure mantengono una caratteristica restrittiva, al tempo stesso però danno la possibilità al ragazzo di condurre un percorso guidato sul territorio e nella sua comunità, senza essere sradicato. Oltre a questo, vanno rafforzate le comunità di accoglienza dell’area penale; grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici, che molto spesso accompagnano la commissione dei reati, soprattutto quelli legati alle sostanze stupefacenti».

Questo decreto ha riportato al centro il dibattito sulla funzione attribuita al diritto penale. Soluzione necessaria ma estrema o leva simbolica per produrre consenso?

«Sono un po’ preoccupata dall’attenzione che si dà alla sanzione, in un senso o nell’altro. E polarizzare eccessivamente il tema della repressione penale mi sembra un pericolo. Il problema della devianza va affrontato con severità, senza minimizzare la gravità dei fatti. Con altrettanta consapevolezza però vanno affrontati i bisogni di chi entra nel circuito penale per potersi reintegrare. Penso ad esempio all’importanza che riveste il dialogo di tutte le istituzioni con gli uffici minorili. Capita spesso che situazioni di disagio culturale, economico, famigliare intercettate in ambito civile si ritrovano in ambito penale. E se la cerniera istituzionale funziona bene diventa un fondamentale strumento di prevenzione. Antenne dritte nella scuola e nelle forze di polizia servono proprio per intercettare i segnali di disagio prima che si commettano reati».

Fuori da ogni retorica, è questa la prevenzione che serve?

«Sì, prevenzione significa creare situazioni di crescita sana e regolare che non portino il giovane alla devianza. Una scuola accogliente, la possibilità di svolgere attività sportiva, offrire ambienti inclusivi, queste sono le infrastrutture sociali e civili della prevenzione. Negli anni mi è capitato di incontrare ragazzi che hanno avuto la prima vera occasione di conoscenza quando sono entrati in carcere. Ecco: se è il carcere il posto dove un ragazzo scopre di possedere un talento, c’è qualcosa che non funziona nella società. È un fallimento di tutti. Il recupero della devianza non può aspettare che un ragazzo finisca in carcere, deve poter agire prima».

Perché la guerra in Ucraina è l’occasione per l’Europa di superare il colonialismo (linkiesta.it)

di

Vincere la pace

Dopo aver vinto la guerra, Kyjiv dovrà vincere anche la pace, spingendo l’Ue a compiere passi ancora più coraggiosi verso il rifiuto dell’eurocentrismo, delle gerarchie tra potenze in materia di politica estera e del principio delle “sfere di influenza”

Un progetto di Voxeurop in collaborazione con Eurozine indaga attraverso sei saggi il futuro dell’Europa, rileggendo alla luce del conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina uno storico intervento del 2003 di Jürgen Habermas e Jacques Derrida. Qui si può leggere il primo intervento, scritto da Carl Henrik Fredriksson e Klaus Nellen.

Dopo oltre un anno di resistenza all’invasione russa, l’Ucraina non mostra alcun segno di voler negoziare con l’aggressore. La determinazione delle forze armate ucraine nella difesa della sovranità e dell’integrità territoriale della nazione rimane intatta. In questo il governo di Kyjiv gode del sostegno unanime della società e delle élite politiche, così come di tutte le categorie della società ucraina – economiche, sociali o accademiche – che sono orientate a resistere ai piani della Russia.

L’Occidente globale ha certamente avuto un ruolo nel raggiungimento di questo risultato. Tuttavia, in questa guerra l’Ucraina è stata l’artefice principale del suo destino, la prima a fissare i propri obiettivi; l’Occidente ha semplicemente reagito.

L’Ucraina ha reso noto quali fossero le sue intenzioni e la sua capacità di metterle in atto, l’Europa e i suoi alleati hanno scelto di sostenerla. Lo hanno fatto fornendo assistenza finanziaria, politica e militare. Una scelta diversa avrebbe portato l’Europa ancor di più sulla strada dell’autolesionismo nelle sue relazioni con la Russia.

Le ragioni della decisione dell’Europa vanno al di là della necessità di proteggere il proprio fianco orientale. Dopo la confusione iniziale, l’Unione europea e l’Ucraina hanno allineato i loro interessi politici: la Russia non potrà portare avanti il suo programma imperialista, né creare un precedente per altri regimi autoritari. L’Ucraina ha spinto la divisione tra Est e Ovest fino ai confini della Russia.

finita l’epoca della zona cuscinetto tra la Nato e la Russia. In quell’utopia realista si considerava che gli Stati “cuscinetto” o “staterelli” avessero un’identità nazionale troppo confusa per poter avere aspirazioni che sfidassero “l’equilibrio delle grandi potenze”. La posizione dell’Ucraina in questa guerra ha mandato in frantumi questo scenario. Lungo il percorso, l’Europa postcoloniale e gli Stati Uniti sono oggi testimoni dell’autonomia decisionale dei Paesi più piccoli.

Non ignorando più la lotta dell’Ucraina per la sua sovranità e l’indipendenza, l’Europa ha dimostrato di voler abbandonare il principio delle “sfere di influenza” che l’aveva portata a capitolare di fronte alle “preoccupazioni” manifestate dalla Russia riguardo alla sua sicurezza.

L’Europa occidentale non considera più legittime le rivendicazioni delle “grandi potenze” – una visione che i Paesi dell’Europa centrale e orientale non hanno mai condiviso. L’Ucraina ha costretto l’Europa non solo ad adattarsi alle esigenze di sicurezza contemporanee, ma anche ad accelerare il suo programma di decolonizzazione.

La conversazione è ora un po’ più avanti rispetto a dove Jürgen Habermas e Jacques Derrida l’hanno lasciata nel 2003, quando hanno chiesto all’Europa di superare l’atteggiamento di “potenza coloniale”. Tuttavia, è ancora molto lontana da una trasformazione completa. L’Europa esiste, ma non è ancora emersa una chiara identità europea transnazionale.

Per andare ancora oltre su questa via, occorre non soltanto che l’Ucraina e i suoi alleati vincano la guerra, ma che vincano la pace. Questo vuol dire garantire che Ue e Stati Uniti si impegnino sul lungo periodo nella ricostruzione democratica dell’Ucraina una volta la finita la guerra. Per creare lo spazio politico per una cooperazione più intensa con l’Ucraina, l’Ue dovrà compiere passi ancora più coraggiosi verso il rifiuto dell’eurocentrismo e delle gerarchie tra potenze in materia di politica estera.

Adattarsi significa anche rivedere il processo di allargamento dell’Ue per coinvolgere l’Ucraina, la Moldova, la Georgia e i Paesi dei Balcani occidentali nel processo decisionale dell’Ue sin dall’inizio. Questo significa impegnarsi in un’autoriflessione per capire perché i Paesi del Sud e dell’Est del mondo non sono solidali con la lotta dell’Ucraina per la sovranità e l’indipendenza.

Le strategie che implicano zone cuscinetto e sfere d’influenza, e che di conseguenza implicano la “spendibilità” dei piccoli Paesi in contrapposizione agli interessi nazionali delle grandi potenze, fanno parte del retaggio imperialista o coloniale.

Questo è il tipo di discorso che Mosca usa e capisce. Quando l’Ucraina, la Moldova, la Georgia e più recentemente la Bielorussia hanno cominciato a mostrare un crescente interesse per un futuro democratico, europeo sotto l’egida della Nato, la Russia ha messo sul tappeto le sue “preoccupazioni in materia di sicurezza”.

Queste preoccupazioni erano infondate. L’Occidente globale non era una minaccia per la Russia. Al contrario, le potenze europee come la Germania e il Regno Unito ne erano perfino partner commerciali. Per tutti gli anni Novanta la Russia è stata anche un partner di pace per la Nato, ma il dilagare dei movimenti democratici nei Paesi vicini ha creato un precedente che minacciava Vladimir Putin e il suo regime.

I leader dell’Europa occidentale hanno preso in considerazione le preoccupazioni della Russia, mantenendo i Paesi “dell’Est” a debita distanza. La regione si è così trovata in una zona geopolitica grigia. L’Unione europea e la Nato hanno occasionalmente mostrato segni di apertura verso questi Paesi, celebrando retoricamente la loro autonomia e i loro sforzi di democratizzazione, ma senza mai passare all’azione.

Il momento in cui l’Occidente si è avvicinato di più all’idea di rafforzare i legami con l’Ucraina è stato al vertice Nato di Bucarest del 2008, quando alcuni capi di Stato, tra cui il presidente degli Stati Uniti George W. Bush Jr, si sono espressi a favore dell’adesione dell’Ucraina e della Georgia alla Nato. Ma in seguito non c’è stata alcuna azione concreta in questa direzione.

Francia, Germania e altri Stati dell’Europa occidentale si sono fortemente opposti all’iniziativa, citando le “preoccupazioni per la sicurezza” della Russia. All’Ucraina e alla Georgia non è stato offerto un piano d’azione per l’adesione, né la dichiarazione del vertice ha generato un’agenda della Nato incentrata su un ulteriore allargamento. Da quel momento l’Ucraina e la Georgia hanno partecipato solo marginalmente ai piani della Nato.

L’invasione della Georgia da parte della Russia nel 2008 non ha spinto la Nato a investire di più nelle sue capacità militari, né tanto meno in quelle di Paesi come l’Ucraina, la Georgia o la Moldova. Gli aiuti statunitensi alla Georgia dopo l’invasione si sono concentrati sulla ricostruzione e non comprendevano aiuti militari.

Anche dopo il febbraio del 2022 l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha mantenuto la sua decisione del 2008 di opporsi a un piano d’azione per l’adesione dell’Ucraina. Solo ora, con la sua determinazione a combattere la Russia, l’Ucraina ha finalmente posto fine alla sua condizione di pilastro del sistema di zone cuscinetto.

La società ucraina si sta avviando verso una rapida trasformazione. Gli ucraini hanno deciso di scegliere l’identità europea auspicata da Habermas e Derrida. È il momento per l’Europa di accogliere questa scelta e di rispondere alla richiesta dell’Ucraina. Questa scelta potrebbe sembrare in contraddizione con la tesi pacifista sostenuta da Habermas e Derrida nel contesto dell’invasione dell’Iraq, ma è coerente con il loro messaggio più ampio.

Se l’Europa decidesse che un’Ucraina libera e non amputata di parti del suo territorio non è più nel suo interesse e cessasse di aiutare l’Ucraina a raggiungere i suoi obiettivi, Kyjiv perderà la guerra. Il risultato non sarà una popolazione docile, felice di rinunciare alla propria sovranità e al proprio territorio in cambio della sicurezza.

Ci troveremo invece di fronte a un Paese pesantemente armato e agguerrito, che sprofonderà nel caos sociale e politico. In questo scenario, la Russia vince e l’Europa perde.

Vincere la guerra, tuttavia, non è sufficiente. Per vincere la pace l’Europa deve accelerare il suo programma di decolonizzazione della sua politica estera e opporsi all’esistenza di una gerarchia internazionale di privilegi. Deve ammettere l’errore di aver accettato la politica delle “sfere di influenza” e ridefinire, di conseguenza, il proprio ruolo geopolitico.

Rivedere il modo in cui funziona la politica di allargamento è fondamentale. Anni di aiuti (insufficienti) alla Moldova, all’Ucraina e ai Balcani occidentali hanno dimostrato che l’assistenza finanziaria non porta a cambiamenti. I Paesi candidati devono essere trattati da pari a pari ed essere coinvolti nel processo decisionale e legislativo dell’Ue fin dall’inizio dei negoziati di adesione.

In questo scenario, per esempio, la Macedonia del Nord non avrebbe bisogno di superare gli ultimi ostacoli verso la piena adesione per partecipare al processo decisionale dell’Ue negli altri capitoli “provvisoriamente chiusi”. Coinvolgere i Paesi candidati nella ristrutturazione delle diverse politiche europee prima dell’adesione con pieno diritto di voto porrebbe le relazioni tra l’Ue e i potenziali nuovi membri su un piano di maggiore parità. Inoltre, permetterebbe al processo di adesione di recuperare parte della credibilità che ha perso dopo anni di promesse non mantenute nei Balcani occidentali.

La posizione neutrale o antioccidentale dei Paesi del Sud globale nella guerra tra Russia e Ucraina è un ulteriore invito agli europei a riconsiderare la loro visione colonialista del mondo, a riconoscere i propri errori e a spiegare in maniera più chiara le proprie intenzioni.

Anche se il termine “Sud globale” non coglie la diversità dei Paesi che aggrega, la maggior parte di essi è unita da una posizione comune sulla guerra. Rifiutano di schierarsi e accusano l’Occidente di aver esagerato ancora una volta. Secondo i sondaggi, oltre il 60 per cento della popolazione mondiale è neutrale o favorevole alla Russia. Queste opinioni si riscontrano in prevalenza nei Paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. Nessun Paese dell’Africa o dell’America Latina ha imposto sanzioni alla Russia. L’Occidente è sempre più isolato.

Questa situazione non è solo il risultato di una sfiducia storica nei confronti dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti: è anche il prodotto di una disinformazione e di un’apologia filoimperialista di matrice europea e americana.

La narrazione secondo cui l’Ue e la Nato si sarebbero estese troppo nella “sfera d’influenza” russa è stata ampiamente diffusa in Occidente da personalità pubbliche e politiche che mantengono una visione coloniale del mondo secondo cui i diritti e gli interessi nazionali delle “grandi potenze” prevalgono su quelli dei “piccoli Stati”.

Per contrastare l’influenza di queste narrazioni l’Europa dovrebbe investire ingenti risorse economiche e diplomatiche per informare e coinvolgere i leader e l’opinione pubblica del Sud globale nel proprio processo decisionale. In questo modo l’Europa potrà dimostrare di non ignorare più la posizione di Paesi ai quali aveva precedentemente conferito lo status di “piccola nazione” subalterna.

Invece di considerarsi in una posizione dominante gli occidentali dovrebbero riconoscere, di fronte a un’opinione pubblica globale, che per decenni gli ucraini hanno lottato da soli, senza l’assistenza dell’Ue o della Nato, per la loro indipendenza contro le interferenze russe.

L’Occidente dovrebbe anche riconoscere che i Paesi del Sud globale nutrono legittime preoccupazioni riguardo all’adesione a un ordine mondiale guidato dall’Occidente, che non include ancora le preoccupazioni economiche e di sicurezza dei Paesi in via di sviluppo. Una politica estera europea di successo è quella che incoraggerebbe il Sud globale a ritenere l’Occidente responsabile della sua mancanza di apertura nei confronti delle richieste di assistenza e inclusione dell’Ucraina prima dell’invasione del 2022.

Dovrebbe essere chiaro a tutti i decisori politici che gli ucraini si stanno preparando a vincere la guerra. Per ottenere questa vittoria, faranno ciò che riterranno opportuno, finché potranno e al meglio delle loro capacità militari e politiche. Questo implica un deciso rifiuto di qualsiasi negoziato; gli ucraini non vogliono regalare al nemico ponti d’oro per ritirarsi. Qualsiasi posizione che non riconosca come giusta la richiesta dell’Ucraina e non comprenda l’entità del debito che l’Occidente ha accumulato nei confronti di quelle che ha a lungo percepito come nazioni piccole e sacrificabili, rimane legata alla visione coloniale.

Il futuro postcoloniale dell’Europa sarà determinato da come essa agirà e da come penserà di riemergere dalla battaglia per l’Ucraina. L’esito di questa battaglia non sarà determinato solo da quanto accade sul fronte orientale, ma sarà anche una battaglia per la pace in Ucraina.

La risposta dell’Europa alla richiesta dell’Ucraina di sostenere la sua ricostruzione democratica postbellica non è facoltativa. Se l’Europa deludesse le aspettative dell’Ucraina, significherebbe che ha rinunciato alla nascente resistenza contro le proprie tendenze imperialiste e contro le tendenze imperialiste altrui. In gioco ci sono l’indipendenza, la sovranità, la democrazia e la stabilità dell’Ucraina nel dopoguerra.

Traduzione di Giulia Federica Gadoni | Voxeurop

Dai territori ucraini occupati si scappa ancora (ilpost.it)

di Davide Maria De Luca

Decine di persone ogni giorno continuano a fuggire 
dall'est del paese, 

e raccontano com’è la vita nei territori occupati dalla Russia

Ufficialmente la dogana di Kolotylivka-Pokrovka non esiste. Dopo l’invasione russa del 24 febbraio del 2022, il governo ucraino ha chiuso tutti i posti di confine con la Russia e con i territori occupati. Nessuno può entrare o uscire. Ma nelle foreste della regione di Sumy, nell’Ucraina orientale, un tacito accordo tra i due paesi in guerra ha permesso l’apertura di un passaggio sicuro per i civili, l’unico in un fronte di guerra lungo migliaia di chilometri.

Circa cento persone al giorno attraversano la dogana di Kolotylivka-Pokrovka. Sono profughi partiti dai territori occupati dalla Russia che cercano di scappare per raggiungere parenti e amici sparsi per l’Ucraina. Si lasciano tutto alle spalle: il varco si può percorrere in una sola direzione. Le storie intorno a questo passaggio raccontano la realtà presente della guerra, ma offrono alcuni indizi anche su quello che potrebbe diventare in futuro.

«Abbiamo scoperto questo passaggio a gennaio quasi per caso», dice Katerina Arisoy, 36 anni, originaria di Bakhmut e fondatrice dell’organizzazione umanitaria Pluriton, che fornisce sostegno ai profughi che passano il confine. All’epoca, Arisoy lavorava come volontaria portando cibo e attrezzature ai militari al fronte e aiutando le persone a evacuare dalle zone di combattimento.

È un lavoro pericoloso. A dicembre tre volontari della sua organizzazione si sono trovati con una gomma a terra nella regione di Luhansk. Una pattuglia russa li ha sorpresi e fatti prigionieri. Per tre mesi sono stati tenuti in una prigione russa per poi essere liberati.

I tre si sono trovati nei territori occupati, ma senza documenti per loro era impossibile tornare in Ucraina passando per l’Europa. È stato allora che hanno sentito parlare per la prima volta del passaggio informale di Kolotylivka-Pokrovka.

«Quando siamo venuti a recuperarli li abbiamo aspettati per due giorni – dice Arisoy – E mentre attendevamo ci siamo resi conto che quel passaggio era frequentato. C’erano altre persone che passavano. Eravamo nel mezzo dell’inverno e non c’era alcuna infrastruttura per accoglierli, né un posto per scaldarsi, né per bere o mangiare qualcosa».

Nessuno sembra sapere quando i primi civili hanno iniziato ad attraversare il varco. Probabilmente il passaggio è stato aperto per la prima volta l’anno scorso, dopo che le truppe russe si sono ritirate dalla regione di Sumy e sono tornate dietro i loro confini. All’inizio il varco era usato solo dai soldati ucraini e da quelli russi, che si incontravano qui per scambiarsi prigionieri o corpi di soldati caduti in battaglia. Poi, qualche civile intraprendente ha provato ad attraversare e, sorprendentemente, i russi lo hanno lasciato passare.

Dopo aver recuperato i suoi amici, Arisoy racconta che nel giro di una settimana è tornata con loro sul posto e ha messo in piedi la prima struttura di accoglienza: una stanza con un bollitore per fare tè caldo e qualche letto su cui trascorrere la notte. Con il passare delle settimane e il miglioramento del tempo, le persone che attraversavano il confine aumentavano. Arisoy e degli altri volontari hanno iniziato a diffondere informazioni sul varco tramite i social. Il flusso continuava a crescere. Presto si sono dovuti trasferire in una sede più grande e poi in un’altra ancora.

Oggi Pluriton occupa una ex scuola di due piani a Krasnopillya, la prima cittadina dopo il confine. Le persone arrivano con i loro bagagli in un piccolo cortile di cemento, un volontario li accoglie e li porta in una stanzona al piano terra con ancora lavagne e carte geografiche dove depositare i loro bagagli prima di sottoporsi ai controlli dei militari ucraini.

Al piano superiore c’è un piccolo ambulatorio e una stanza con qualche letto per chi passerà lì la notte. Ma in pochi si fermano. Alle sei di mattino parte il treno per Kiev, gratuito per chi arriva dai territori occupati.

(Bagagli ammassati in una delle stanze del centro di accoglienza, situato in una ex scuola – foto Davide Maria De Luca)

La procedura di filtrazione, come la chiamano gli ucraini, può durare per ore. Militari e guardie di confine esaminano i documenti di chi arriva, li interrogano e poi consegnano loro documenti provvisori, se non li hanno. Accanto alle scrivanie dove i militari registrano i nuovi arrivati c’è un cestino pieno di rubli russi. Chi ha un passaporto russo si affretta ad assicurare che è stato costretto a prenderlo. Leonid, un ex bidello di 63 anni, lo ripete più volte: i soldati russi lo hanno obbligato, lui non voleva, è un patriota che crede nella vittoria del suo paese.

Leonid ha lasciato ieri il suo villaggio per raggiungere il figlio che studia nella città di Kherson, al di là del Dnipro. Un tempo, il viaggio avrebbe richiesto poco più di un’ora, ma ora il fronte corre lungo il fiume che separa il suo villaggio dalla città. Per attraversarlo, Leonid ha dovuto fare il giro di mezza Ucraina. Nei territori occupati ha lasciato una figlia, troppo spaventata dal viaggio per partire, due nipoti e molti amici che aspettano di sapere com’è andata a lui prima di decidersi a partire.

Un passaggio dai territori occupati fino a Kolotylivka-Pokrovka costa circa 200 euro, ma con un po’ di pazienza si riesce a viaggiare anche gratis, dice Olena, 36 anni. Nel pullmino c’era un posto libero e l’autista non ha fatto pagare la figlia. Sofia, 12 anni, è seduta accanto alla madre nella piccola cucina allestita al primo piano dell’edificio. Ritratti di barbuti poeti della tradizione ucraina sono appesi alle pareti, mentre due volontarie cucinano dentro grosse pentole.

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Il loro viaggio è iniziato a Melitopol, dove Olena lavorava in un centro per l’impiego. La città è stata occupata dai russi fin dai primi giorni della guerra e oggi si respira un’atmosfera plumbea, dice Olena. “Le persone hanno smesso di parlare tra loro per paura di essere denunciate. Molti hanno perso il lavoro per colpa dei russi”.

Da Melitopol ci vogliono 24 ore di viaggio per arrivare fino al posto di confine: bisogna attraversare tutta la parte orientale dell’Ucraina occupata ed entrare nei confini geografici della Russia. Poi serve un’altra giornata per attraversare il varco verso l’Ucraina. Sofia e Olena sono state tra le prime a passare questa mattina. La routine a Kolotylivka, sul lato russo, comincia alle 8 di mattino quando le guardie di confine iniziano i loro controlli. Sono scrupolose: sequestrano i telefoni ed esaminano fotografie e messaggi. I primi a entrare non escono prima dell’ora di pranzo.

Dal posto di confine russo ci sono due chilometri prima di arrivare alle postazioni ucraine. Dopo le incursioni compiute a maggio in territorio russo da alcune milizie affiliate all’Ucraina, i russi non fanno più passare veicoli. Olena e Sofia hanno fatto il percorso a piedi, lungo una strada sterrata ed esposta, cosparsa dai bagagli che si sono rivelati troppo pesanti per essere trasportati per quell’ultimo tratto.

(La strada che separa i due posti di confine – foto Croce rossa di Sumy)

Il confine sul lato ucraino è una postazione militare, con mitragliatrici, barriere di cemento e bunker sotterranei. Qui li attendono degli autobus con la scritta rossa “Evacuatsia”, “evacuazione”, sulle fiancate che li porteranno fino al Pluriton. Tra le procedure di controllo, il viaggio a piedi e poi quello in autobus, la maggior parte delle persone arriva al centro di accoglienza che ormai è buio.

Al momento, circa il 16 per cento dell’Ucraina è sotto occupazione russa. Un territorio grande quanto l’intera pianura Padana, dove vivono ancora circa 5 milioni di persone. Altrettanti sono fuggiti in Ucraina, quasi tutti nelle prime settimane di guerra. Circa diecimila nell’ultimo anno sono passati attraversato il valico di Kolotylivka-Pokrovka. Il tragitto è a senso unico. Passato il confine ed entrati in Ucraina, non si può più tornare indietro.

«Come si fa a lasciare tutto quello che hai guadagnato, che hai costruito, andartene solo con quello che puoi portare con te e ricominciare tutto da una pagina bianca? C’è uno psicologo al mondo che può aiutare in questa situazione?», chiede Oleksandr, 58 anni. Anche lui è fuggito da Melitopol. Imprenditore nella manutenzione ferroviaria, ha smesso di lavorare dopo l’occupazione quando si è reso conto che, se avesse continuato, avrebbe finito con l’aiutare l’esercito russo.

«L’invasione è stata inaspettata e rapida – dice – Abbiamo provato a fermare i russi, a chiedergli perché siete venuti qui? “Per liberarvi” Ci hanno risposto». Ma la liberazione per lui è stata brutale. Fermato a un posto di blocco, ha dovuto consegnare il suo telefono. I soldati hanno visto i messaggi che si era scambiato con la figlia a Kiev.

In uno si vedeva un panorama della città dalla finestra della sua casa. «Volevo solo farle vedere che tempo c’era», dice. Per i soldati russi, però, quei messaggi in ucraino e quelle fotografie della città lo facevano sembrare un partigiano o una spia. Lo hanno arrestato, portato in un sotterraneo, ammanettato e incappucciato. Gli hanno fatto domande per cinque ore, picchiandolo quando non erano soddisfatti delle risposte. È stato allora che ha deciso di andarsene.

Nessuno sa perché i russi abbiano deciso di tenere aperto il varco. Secondo molti la ragione è che se qualcuno è disposto a sobbarcarsi la fatica e il costo di questo tragitto, allora vuol dire che non è disposto in alcun modo a collaborare con gli occupanti. Meglio per tutti se se ne va: sarà una bocca in più da sfamare per l’Ucraina e una voce in meno a chiedere il ritorno del governo di Kiev quando un giorno si arriverà ai negoziati.

Quale che sia la ragione che ha portato all’apertura di questo unico passaggio nella linea del fronte, il destino Kolotylivka-Pokrovka è incerto e contraddittorio. I russi lo hanno chiuso già due volte senza fornire spiegazioni, l’ultima lo scorso luglio e voci di nuove chiusure hanno iniziato a circolare nelle ultime settimane. Ma a ottobre il portavoce delle guardie di confine ucraine assicurava che non solo il varco restava aperto, ma che presto sarebbero stati creati altri corridoi umanitari simili.

Per il momento, Kolotylivka-Pokrovka rimane il solo passaggio tra Russia e Ucraina, e con l’arrivo della prima neve decine di persone continuano ad attraversarlo ogni giorno, mentre i militari proseguono a utilizzarlo per scambiarsi corpi e prigionieri.

Sono scene che ricordano quello che avveniva prima dell’invasione, nella tesa normalità del conflitto congelato durato dal 2014 al 2022, quando la guerra tra l’Ucraina e le milizie filorusse dell’est rimase per anni a bassa intensità. L’apertura di nuove Kolotylivka-Pokrovka potrebbe essere il segnale che anche questa guerra “calda” si avvia a raffreddarsi. Ma nessuno qui lo dà per scontato.

Lucetta Scaraffia sbaglia, mezzo secolo fa eravamo meno beghini di adesso (linkiesta.it)

di

Maschile sovresteso

La giornalista ha detto che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin avrebbe rinunciato alla laurea e optato per il matrimonio, ma in realtà il 1973 era un’epoca di grande emancipazione rispetto al bacchettonismo attuale

«La mia idea di come dovrebbe essere una coppia? Io non ho un’idea di come dovrebbe essere una coppia, a me non frega un cazzo della coppia». Sandra Voyter forse ha ammazzato il marito, forse è diventata una scrittrice di successo saccheggiando le sue idee, forse è una madre anaffettiva, una bisessuale fedifraga, una schifezza di donna.

Tuttavia, quando nella seconda metà di “Anatomia di una caduta” il film smette per qualche minuto d’essere una rievocazione di scene che non vediamo, e diventa l’ultimo litigio tra i due coniugi prima della morte di lui, in quei minuti che sembrano usciti da una pièce di Yasmina Reza, è solo allora che Sandra Voyter si condanna alla disapprovazione di massa dicendo l’indicibile: non le importa nulla del totem cui è devoto il nostro secolo.

Ho un amico che è la persona più normale che conosca: è medio come padre, medio come professionista, medio come divorziato. Qualche tempo fa, la signora con cui si vedeva ha iniziato a rinfacciargli cose che non poteva sapere.

Me l’ha raccontato tardivamente, altrimenti gli avrei detto che probabilmente nella sua relazione stava succedendo una cosa media, che accade più o meno in tutte le relazioni di questi anni: quando dormi, o sei nella doccia, la persona con cui ti accoppi ti prende il telefono e guarda i messaggi, e nei messaggi c’è tutta la tua vita, ci sono tutti i tuoi segreti (che evidentemente tanto segreti non sono).

Me l’ha raccontato quando era già entrato in un abisso di paranoia, era già andato a parlare con esperti di sicurezza informatica, si era già convinto che nel suo telefono lei avesse inserito un virus che doppiava i messaggi mandandoli in copia a lei, e rendendo la vita di lui priva di segreti. Aveva cambiato la sim e il telefono, giacché gli esperti – ai quali storie analoghe vengono raccontate ogni minuto – gli avevano detto che non c’era modo d’esser sicuri che il telefono fosse bonificato una volta infettato.

Non vi sto raccontando questa storia per dirvi «ah, se l’avesse fatto un uomo a una donna, di spiarle il telefono con mezzi illegali, apriti cielo». Ve la sto raccontando per dirvi che, mentre il mio amico mi diceva ti rendi conto, sono stravolto, che angoscia, io pensavo (e a un certo punto gli ho anche detto): sì, ma pensiamo a lei.

Pensiamo alla vita d’inferno di questa tizia che passa le sue giornate a leggere messaggi altrui, a investire tempo ed energie nell’illusorio tentativo di sapere cosa succede in sua assenza, a frustrarsi con le vite degli altri. Pensiamo a come la mistica della coppia le ha rovinato il cervello, a quest’adulta.

Che sia adulta è per me la discriminante: a trent’anni lo facevo anch’io, quindi mi pare normale. Era meno impegnativo, giacché quando avevo trent’anni tutto quel che potevi fare per illuderti di avere il completo controllo di eventuali tradimenti era scoprire il codice segreto della segreteria a cassette di casa di qualcuno, e chiamare e ascoltare cosa gli avevano lasciato detto nel telefono di casa. Il controllo completo, ai tempi miei, era assai incompleto.

Uno dei primissimi articoli che scrissi, a ventott’anni, era su un saggio americano intitolato “Here comes the bride – Women, weddings, and the marriage mystique”. Non so cos’avessi scritto – erano anni in cui i giornali non mettevano i pezzi sull’internet, ed era una quindicina di miei computer fa – ma sono certa che fosse impreciso, giacché scritto prima che il fenomeno ci riguardasse.

La mistica del matrimonio, più di vent’anni fa, era un’americanata. Solo nei film americani vedevamo il pathos dell’attesa dell’anello, la proposta intorno alla quale venivano costruite intere stagioni della vita di lei, il concetto di bridezilla, cioè della sposa che impazzisce e per un anno pensa solo ai canapé e alle bomboniere.

Poi c’è stata l’americanizzazione del mondo, e assieme a essa il contraccolpo rispetto all’emancipazione. Quando Susan Faludi pubblicò “Backlash: The undeclared war against American women” (in Italia tradotto come “Contrattacco”) era il 1991, e nessuno – nemmeno lei – aveva idea della direzione in cui stavamo andando. Quella in cui non c’era bisogno di nessuna guerra, giacché le donne erano determinate a rimandarsi in cucina da sole.

Sui social in questi giorni gira molto un minuto di Lucetta Scaraffia che, ospite di Stasera Italia, dice che cinquant’anni fa Giulia Cecchettin quel ragazzo l’avrebbe sposato, e in quel modo lui non sarebbe diventato il suo assassino. I social, specialisti nel mancare il punto, sono indignati all’idea che per non farti ammazzare tu debba assoggettarti a un matrimonio, e nessuno nota il dettaglio dirimente.

Cinquant’anni fa era il 1973. C’era il post-68, c’era il femminismo, c’era il divorzio, ancora non c’era l’aborto legalizzato ma c’erano le donne che proprio non ci pensavano a non laurearsi per fare le mogli. Persino mia madre, che pure era la meno emancipata del mondo, si rifiutava di cucinare perché le sembrava una cosa da donna poco moderna. Persino mia nonna, che era una vedova molisana che non si toglieva il lutto dal 1950, non una californiana col dottorato di ricerca, aveva mandato all’università la femmina proprio come il maschio.

Nella confusione generalizzata che affligge i ragionamenti di questo nostro tempo, diciamo «cinquant’anni fa» e pensiamo di parlare del film della Cortellesi e della figlia femmina cui il padre si rifiuta di pagare la frequentazione delle scuole medie. Ma, nel secolo breve e in realtà lunghissimo, le cose cambiavano molto in fretta, e tra ottant’anni fa e cinquant’anni fa ci sono secoli di differenza.

Cinquant’anni fa è quando nasceva la mia generazione, quella che i diritti se li era trovati pronti e quindi poteva avviare il tempo dei capricci. Guardo le immagini dei liceali nei corridoi perché hanno ammazzato Giulia Cecchettin, e vedo in loro il comprensibile sollievo di perdere due ore di lezione, come quando a noi diciassettenni facevano guardare un film storico invece d’interrogare, o scioperavamo con un qualsivoglia pretesto; negli adulti di oggi, determinati a interpretarla come una manifestazione di sensibilità, vedo il disastro della mia stupidissima generazione.

I giornalisti italiani, che non si capisce cosa tengano a fare i social nel telefono se poi dei fenomeni social si accorgono sempre in ritardo, in questi giorni scoprono i video in cui alle giovani coppie viene chiesto «Lasceresti andare la tua ragazza a ballare da sola?», e i maschi rispondono no e le femmine tacciono.

Poiché il framing del momento è «uomini bruti e donne sottomesse», quei video vengono letti in quell’ottica, e non in quella che conosce chiunque ogni tanto si affacci sul paese reale: le donne vogliono che lui sia possessivo (e spesso lo sono anche loro), vogliono che controlli loro il telefono (e spesso lo fanno anche loro), vogliono che il mondo sappia che loro non sono la zitella al pranzo di Natale, non sono la rimastona che nessuno si è preso, loro sono una coppia, loro hanno dignità di obiettivo raggiunto, le donne e gli uomini hanno come priorità il far sapere al mondo che non hanno il difetto d’essere scompagnati.

E non è, come fa comodo inquadrarla in questo momento, una questione di gioventù. Non è esclusiva dei ventenni geolocalizzare il telefono della persona con cui si sta, spiarne i messaggi, ostentare il senso del possesso che fu prealessandrino.

La massa degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione, scriveva Thoreau quando, duecento anni fa, si poteva ancora usare il maschile sovresteso. Il mio osservatorio sulla silenziosa disperazione sono i gruppi Facebook al femminile, in uno dei quali qualche anno fa una signora adulta depositò il proprio nervosismo verso la mezzanotte.

Il marito era uscito per una birra con gli amici, non lo faceva mai, e ora non era ancora tornato, e lei cosa doveva fare. Le arrivavano varie rassicurazioni, e il giorno dopo ella aggiornava le convenute. Il marito era tornato verso le due, ma era molto allegro e sereno, e lei aveva capito che forse uscire non in coppia poteva essere una bella cosa, e ora, nientemeno, stava pensando di farlo anche lei.

Ma, convenivano tutte, non in discoteca, perché va bene tutto ma ballare con qualcuno che non è il legittimo coniuge è invero inaccettabile. Sono passati sessantadue anni da «con te, che sei la mia passione, io ballo il ballo del mattone», e abbiamo inserito la retromarcia.

Non è mai bello prendere il commento più stupido e usarlo per dimostrare qualcosa, ma lo farò comunque. L’altro giorno ho scritto che l’educazione sentimentale è una scemenza che serve a non dire che l’istinto della sopraffazione del più forte sulla più debole non è curabile. Ho ricevuto pochi commenti scemi, uno dei quali mi ha fatto tornare in mente la più illuminante interazione che abbia avuto su Twitter.

La ragazza che mi scriveva l’altro giorno, a occhio una ventenne di sinistra, diceva che avevo scritto così perché ero una «pick-me girl», espressione che sta per «una che farebbe di tutto per compiacere gli uomini» e che lei usa senza sapere da dove viene (da una puntata di “Grey’s Anatomy” in cui Meredith pregava Derek di scegliere lei e non la sua allora moglie).

Mentre archiviavo il commento della ragazza nel faldone «una generazione che non concepisce che a qualcuna possa non fregar niente di far colpo sugli uomini», mi sono ricordata del tizio di qualche mese fa, a occhio un adulto di destra eppure perfetto alleato della ragazza.

Avevo scritto che l’assurdità non è la gestazione per altri ma che qualcuna si sobbarchi una gravidanza gratis. Questo tizio mi aveva scritto che cercavo di spacciare per scelta il mio non aver avuto figli, lacuna che invece dipendeva evidentemente dal mio essere troppo cessa perché qualcuno si sacrificasse a ingravidarmi.

È un argomento che mi diverte sempre molto, questa convinzione che l’accoppiamento sia un privilegio esclusivo dei belli: un po’ perché mi chiedo come chi lo porta avanti pensi che siamo diventati otto miliardi sul pianeta; un po’ perché chiunque abbia avuto anche solo un paio di relazioni sa che non si sta con qualcuno per come quel qualcuno è, ma per come fa sentire noi, e in quest’ottica l’aspetto che questo qualcuno ha è un elemento invero minore.

A quel punto però lo scambio ha preso una piega inaspettata (grande festa: se frequentate i social, sapete che essere sorprendenti non è esattamente il loro specifico). Il tizio mi ha spiegato che non esistono donne che non abbiano avuto figli per scelta. Se non hai figli o sei sterile e ci hai provato invano, o sei una con cui nessuno ha voluto figliare (rivoglio subito tutti i soldi buttati in quasi quarant’anni d’anticoncezionali).

Il tizio è un’eccezione beghina? Secondo me no. Secondo me il tizio è la deriva probabilmente cattolica della tizia che si percepisce di sinistra e non riesce a concepire che qualcuna pensi perché è pagata per pensare, e non per ottenere qualsivoglia reazione dal mondo maschile.

È una società che sa pensarsi solo in coppia in ogni suo strato anagrafico e politico, e con questa premessa non mi meraviglia poi tanto se qualche volta ci scappa il morto al cinema, e la morta nella realtà.

E quindi tutto questo lunghissimo sbrodolamento serve a dire a Lucetta Scaraffia, a Twitter, a Nicola Porro, a chi va a vedere il film della Cortellesi e pensa sia sensato ragionare delle donne oggi come se il problema fosse l’accesso al suffragio, a chi “Anatomia di una caduta” non lo vedrà e quindi non potrà trattenere il respiro di fronte a quel manifesto d’indifferenza alla coppia, che no, nel 1973 la Cecchettin non avrebbe sposato il suo assassino, perché nel 1973 accadeva che una donna pensasse che a lei della coppia non fregava un cazzo; e, se oltre a pensarlo lo diceva, la platea non sussultava come di fronte a una bestemmia.

Erano emancipati, cinquant’anni fa. Mica come ora.

L’impegno e l’ascolto (corriere.it)

di Mirella Armiero

Con il suo sguardo su Napoli (e oltre) 
Fabrizia Ramondino ci parla ancora

Militanza. Uscito il 6 settembre da e/o gli scritti politici dell’autrice scomparsa nel 2008. In questa pagina il testo della curatrice

Se la voce di Fabrizia Ramondino risuona ancora forte e chiara nel panorama italiano contemporaneo è anche per la vocazione politica che innerva la sua produzione letteraria, anzi la precede.

Ramondino pubblica Althénopis nel 1981 e sorprende la cerchia dei suoi amici e compagni. Pochi sanno che coltiva da tempo la scrittura, eppure tiene sul tavolo la cartellina con il manoscritto. Una volta uscito, il romanzo dalla lunga gestazione la impone alla critica e al pubblico. Con una felice invenzione, il titolo attribuisce una presunta radice semantica «occhio di vecchia», Althénopis appunto, al nome di Napoli, la città che un anno prima il terremoto ha sconquassato sia geologicamente sia moralmente.

Fino allo svelamento della sua vocazione di narratrice, Fabrizia Ramondino ha fatto politica più che letteratura. Eppure sono per lei due militanze tutt’altro che distanti. Alla base di entrambe c’è l’attenzione all’altro, alla voce dell’individuo dentro il brusio indistinto della moltitudine, alle classi sociali disagiate, marginali, oppresse, agli interni domestici e miseri, ai lavori materiali, che ha conosciuto fin da bambina, nella dorata infanzia maiorchina, attraverso la presenza della servitù e della balia con la quale ha condiviso la quotidianità.

Figlia di genitori alto borghesi e cosmopoliti, il suo apprendistato socio-intellettuale inizia dalla frequentazione di settori della sinistra eretica, con un forte interesse per le posizioni anarchiche e per il socialismo di Proudhon. Al ritorno dal primo dei numerosi soggiorni in Germania (raccontati poi in Taccuino tedesco), attraversa un periodo di depressione dalla quale la salvano le lezioni impartite alle figlie di una cameriera della madre.

Poi il doposcuola si allarga, arrivano altri bambini e anche adulti. Il primo attivismo della scrittrice è quello pedagogico, di impianto freinetiano, svolto all’Arn, l’Associazione risveglio Napoli, fondata insieme a una ventina di persone (tra cui Lamberto Borghi e Vera Lombardi), con sede nel centro storico di Napoli.

L’autrice racconta anni dopo le origini di questo impegno ne L’isola dei bambini: «…i bambini mi salvarono dal mio male… Celebravo, ma non lo sapevo allora, il mio passaggio all’età adulta, che per una giovane donna una volta significava fare un bambino, per me invece fu saperlo portare in spalla».

Con il Sessantotto si aprono fronti interni e divisioni, alcuni lasciano l’associazione. Agli inizi degli anni Settanta nello stesso edificio che aveva ospitato l’Arn, a Palazzo Marigliano, si riunisce il Centro di coordinamento campano. La militanza si andava trasformando sul piano politico e intellettuale, Fabrizia si avvicinava al metodo dell’inchiesta sociale, che si esprimerà pienamente nel suo primo libro, quello sui disoccupati organizzati.

Negli anni del Centro di coordinamento campano nascono amicizie e rapporti destinati a durare una vita mentre altri sono passeggeri, alcuni dolorosi, altri ancora proficui, necessari. È il periodo delle frequentazioni con Giovanni Mottura, che veniva dalla esperienza di Danilo Dolci e dai «Quaderni rossi», e con Enrico Pugliese, allievo di Manlio Rossi Doria. Lunghe riunioni, scontri, discussioni, ideologia ma non solo: Fabrizia Ramondino accoglie e rielabora lo spirito migliore del Sessantotto, quello dell’incontro con le persone reali, dell’ascolto delle loro esigenze, attraverso l’orizzontalità dello sguardo e la capacità di compiere gesti concreti di avvicinamento.

È Goffredo Fofi a commissionarle l’inchiesta sui disoccupati, che sarà pubblicata da Feltrinelli nel 1977. Le sue case — ne ha cambiate tante — sono frequentate dai disoccupati, che non hanno soggezione di lei, nonostante un certo suo tratto aristocratico e la scarsa familiarità con il dialetto. E il suo carattere a tratti ruvido non ostacola la nascita di rapporti profondi.

Il saggio del ’77 è costruito attraverso le interviste ai protagonisti di quella stagione combattiva, precedute da una lunga introduzione, più di quaranta pagine per molti versi lungimiranti. In particolare, l’autrice sottolinea gli errori della sinistra nei confronti del «proletariato marginale» e denuncia l’illusione relativa a un vagheggiato «capitalismo sano» che possa risolvere l’arretratezza del Mezzogiorno. La disoccupazione, invece, è una delle priorità da affrontare.

Siamo ormai a ridosso della consacrazione letteraria: dai Disoccupati organizzati ad Althénopis passano solo quattro anni, ma è un periodo cruciale per l’Italia, e tra il delitto Moro, il terrorismo, le stragi, tutto l’auspicato processo di modernizzazione sembra ormai fermo, effimero, illusorio. Per Fabrizia Ramondino è tempo di nuove prove narrative e intellettuali.

Gli anni Ottanta sono letterariamente produttivi: la scrittrice firma diversi libri, tra cui Un giorno e mezzo, il suo romanzo più schiettamente politico, un ritratto inedito e sincero (e soprattutto tracciato da una prospettiva interna) della generazione del movimento in Italia, in particolare a Napoli. Pubblicato nel 1988, ambientato nel 1969, Un giorno e mezzo rievoca il clima confuso e utopistico della contestazione, in un momento in cui si avvertivano già i sintomi della crisi.

Anche gli anni Novanta segnano un periodo di vitalità e di incontri, Napoli è ancora per certi versi nello stallo del post terremoto ma è anche percorsa da fermenti culturali innovativi. La città si prepara al suo imminente (ed effimero) rinascimento bassoliniano, che si affermerà tra il gigantismo un po’ smargiasso delle installazioni in piazza Plebiscito e finirà con la crisi dei rifiuti, di cui Fabrizia Ramondino scriverà sul «manifesto» anni dopo: «L’immondizia napoletana altro non è che l’emergere di tutta l’immondizia prodotta nel mondo da un capitalismo sempre più selvaggio».

Intanto da Napoli la scrittrice sta già guardando oltre. Dopo il crollo del Muro di Berlino succedono cose nel mondo che lei ha la necessità di capire. Con i viaggi e lo studio mantiene la sua rete di contatti e di interessi, nonostante a un certo punto, negli anni Novanta, decida di lasciare Napoli e ritirarsi nel «rifugio» di Itri (Latina), sempre comunque aperto agli amici.

Un capitolo importante nell’impegno civile di Ramondino si apre con il viaggio intrapreso su invito di Mario Martone, per realizzare un documentario dedicato ai Sahrawi, popolo del deserto che subisce l’esilio da parte del regime marocchino. La militanza tra i Sahrawi la riporta indietro, agli anni dell’Arn.

Anche nel deserto chiede ai bambini di disegnare, raccoglie e conserva i loro lavori, le donne accettano i suoi doni utili e non pomposi, come un set di forbici per lavori di cucito. Il rapporto con i Sahrawi è simile a quello che ha avuto con i disoccupati. Resta in lei lo stesso imbarazzo rispetto ai poveri, ai meno abbienti, e la stessa naturale predisposizione ad ascoltare, a fiancheggiare, non semplicemente a dare aiuto ma piuttosto a «fare insieme».

Ma soprattutto, fino alla scomparsa nel mare laziale nel 2008, Fabrizia Ramondino rimane fedele a sé stessa, alla sua visione del mondo, alla sua tensione etica e alla profonda capacità empatica verso l’altro, il debole, l’oppresso.

E conferma negli anni la sua giovanile intuizione, arrivata dopo l’esperienza dello smarrimento psicologico: «Dopo aver sperimentato la scissione della mia personalità, che i medici moderni, quando raggiunge un certo grado — quando cioè si è folgorati — chiamano schizofrenia, ho compreso la maggiore scissione della comunità umana: quella tra chi possedeva abbondanza di beni, potere, sapere e tra chi ne era privo».

Odessa, maneggiare con cura. I bombardamenti e ora il restauro (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

La visita della delegazione italiana incaricata del restauro degli edifici storici e dei monumenti colpiti fa credere che le nostre autorità facciano sul serio. Potranno, i nostri, fare tesoro dell’eccellente e misconosciuta opera volontaria di studiosi e curatori locali

Odessa è la perla, e che la Russia di Putin accecata dal possesso e dalla gelosia le si accanisca addosso bombardando e affamando rende più necessario che mai maneggiarla con delicatezza. Odessa non è solo bella, è devota alla bellezza: quella che forse salverà il mondo, quella che il mondo può salvare.

Le cronache di ieri riferivano di due avvenimenti concomitanti: l’inaugurazione ufficiale del consolato onorario italiano (la nomina risaliva ad aprile) e la visita della delegazione italiana incaricata del restauro degli edifici storici e dei monumenti colpiti: a cominciare dalla cattedrale ortodossa (e di obbedienza al patriarcato moscovita!) sventrata da un missile.

Il primo dato promettente, e singolare, è il nome ucraino del console: Vladislav Shtamburg. Ha 47 anni, è di Dnipro, ha un’impresa di export-import alimentare, è stato impegnato nella dirigenza e nel mecenatismo sportivo – calcio, equitazione paralimpica – ha tre figli. E’, ha ricordato l’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, “un grande amico dell’Italia”.

Dnipro si è distinta per l’iniziativa civile della generazione dei suoi imprenditori di successo quarantenni. La nomina di Shtamburg conferma l’aria da “papi stranieri” di cui Odessa respira. Ha dal 30 maggio un nuovo governatore, Oleh Kiper, 43 anni, già a capo della Procura di Kyiv, ma nato e formato a Odessa. Ha un noto e discusso sindaco, dal 2014, Hennadyi Truchanov, 58 anni, anche lui legato all’Italia, libero su cauzione per inchieste di corruzione.

Il secondo avvenimento, la visita della delegazione, fa credere che le autorità italiane facciano sul serio. Il desiderio di assumere onere e onore della ricostruzione a Odessa – vivamente condiviso dalla Grecia, che ha anche lei una illustre storia cittadina – ha ricevuto il sostegno congiunto di Tajani per gli esteri, di Sangiuliano per la cultura e di Mantovano per la Presidenza del Consiglio.

Direttamente investiti sono Stefano Boeri per la milanese Triennale e Alessandro Giuli per il romano Maxxi, e con loro il commissario per la ricostruzione, ambasciatore Davide La Cecilia, e la direttrice dell’Unesco per l’Ucraina, Chiara Dezzi Bardeschi. Specialista, quest’ultima, di restauro archeologico e ricca di un’esperienza internazionale, come nella Beirut esplosa; oltre che di un cognome che il suo gran padre Marco, 1934-2018, ha illustrato soprattutto nell’ambito del restauro dei monumenti. Sopra la questione della delicatezza – queste persone del resto la professano – ecco un piccolo esempio. Alla vigilia del voto sull’accoglienza di Odessa – Odesa, nella grafia ucraina – nel patrimonio minacciato dell’Unesco, il sindaco, col ministro della cultura, denunciò vibratamente l’Icomos, il Consiglio internazionale per i monumenti e i siti, il quale verifica per l’Unesco le nomine al Patrimonio e cura la conservazione.

“L’Icomos ha politicizzato il dossier ucraino includendo nella descrizione del bene informazioni sulla fondazione di Odesa per ‘decisione strategica dell’imperatrice Caterina II’… Non possiamo tollerare la presenza di narrazioni apertamente filorusse nel documento preparato dal Centro del Patrimonio Mondiale sulla candidatura ucraina…”. La sezione italiana dell’Icomos era stata presieduta appunto da Marco Dezzi Bardeschi, e sua figlia gli è vice-succeduta…

Costoro, con l’ambasciatore Zazo, hanno trascorso i due giorni di Odessa che per alcuni, lo stesso Boeri, erano i primi, e che agiscono immancabilmente come l’incontro di un innamorato per corrispondenza, sazio di fotografie, che la scopre ancora più bella. Così ferita e oltraggiata, poi. Boeri aveva fatto l’esperienza sconvolgente di Irpin. Odessa è altra cosa, naturalmente, benché ostenti a cielo spalancato “il paradosso”, lo chiama, della cattedrale presa di mira e scoperchiata.

E’ successo anche a lui di riconoscere continuamente altre città, Nizza per il gran viale alberato, Vienna o Milano per il teatro e le sue balconate continue…, e la vecchia Borsa diventata municipio di Francesco Boffo, la nuova Borsa diventata Filarmonica di Alexander Bernardazzi, e la scalinata – l’hanno vista, infatti. (Chissà se riuscirebbero a liberare il cerchio meraviglioso del porto dalla mole orrenda del già Hotel Odesa: Ruskin e restauro conservativo sì, ma c’è un limite a tutto).

Potranno soprattutto, i nostri italiani, fare tesoro dell’eccellente e misconosciuta opera volontaria di studiosi e curatori locali. Dmitry Shamatazhi, 37 anni, e Alexander Levitsky, 33 cominciarono nella primavera del 2008 a compilare un catalogo elettronico corredato delle informazioni visive sulla vecchia Odessa. Oggi sono state completamente studiate, una per una, 3 mila case: l’intero centro della città e circa la metà degli altri vecchi edifici, compresa Moldavanka e la remota periferia.

Hanno fotografato ogni dettaglio architettonico, arrampicandosi in luoghi inaccessibili persino ai residenti, sui tetti e nelle soffitte. Purtroppo questa conoscenza è stata utile ai restauratori più volte: incendi e crolli prima della guerra, ora la fiera dei missili russi. Si sono procurati qualche soldo organizzando visite guidate cortile dopo cortile, che sono le isole del tesoro di Odessa. Hanno mostrato ai cittadini che studiare lo sviluppo urbano non è noioso, e spesso è più emozionante dei miti e delle leggende.

Dal dicembre 2019, Alexander ha dato vita al progetto “Mille portoni”: Alexander ha trovato specialisti che hanno iniziato a restaurare i portoni d’ingresso sulle facciate degli edifici. Fino all’anno scorso venivano restaurati solo dai privati. L’11 gennaio 2022 hanno firmato un contratto con la Ue per 440 mila euro. Per la guerra, il denaro è stato devoluto alle forze armate.

Ma l’abitudine ad arrangiarsi li ha aiutati a continuare durante la guerra: ad oggi hanno restaurato 17 portoni. E preservati i dipinti e i segni antichi che si rivelano sotto il rozzo intonaco dell’era sovietica. Senza toccare i fondi del bilancio cittadino. Sinergie in attesa.

La lotta del popolo sami per preservare le proprie tradizioni (euronews.com)

di Aurora Velez

In collaborazione con The European Commission

Sono l’unico popolo indigeno riconosciuto in Europa e vivono in una regione, la Lapponia, che comprende quattro Stati. Molte delle decisioni prese nell’Unione europea li riguardano direttamente, motivo per cui stanno partecipando ad un progetto europeo per rafforzare i legami con Bruxelles

La Lapponia, regione nel nord dell’Europa, è la terra dei sami: sono circa ottantamila e le loro attività principali sono la pesca e l’allevamento delle renne. Molte delle decisioni prese nell’Unione europea li riguardano direttamente, motivo per cui stanno partecipando ad un progetto europeo per rafforzare i legami con Bruxelles. Con quali aspettative?

“Vogliamo che l’Unione europea ci consenta di continuare a seguire il nostro stile di vita tradizionale, di usare la nostra lingua, di esercitare la nostra cultura e di avere il diritto di rimanere dove siamo. Viviamo qui da sempre”, dice Elle Merete, responsabile dell’Unità Ue del Consiglio sami.

Le gathie, le case tipiche dei sami, sono capanne costruite con rami di betulla, foglie e muschio. Il legame di rispetto e sostenibilità con l’ambiente è caratteristico dei sami, l’unico popolo indigeno riconosciuto in Europa. Il territorio della Lapponia, chiamata Sápmi in lingua sami, si estende su due Paesi dell’Unione europea, Svezia e Finlandia, e due Paesi esterni all’Unione, Norvegia e Russia.

Chi sono i sami?
I sami sono la più grande popolazione autoctona d’Europa. La loro origine viene fatta risalire a 12.000 anni fa, ben prima della creazione dei confini nazionali.
Fonti: IWGIA e Sorosoro
Il loro stile di vita è legato al commercio, alla pesca, all’artigianato ed è influenzato dalle politiche comunitarie. Il progetto europeo “Filling the EU-SAPMI knowledge gaps” mira a rafforzare la comprensione reciproca e la rappresentanza sami a Bruxelles. “Vogliamo lavorare su temi come la conservazione e i mezzi di sussistenza tradizionali. Più che altro per quanto riguarda la ricerca – dice Áslat Holmberg, presidente del Consiglio lappone -. Inoltre, la partecipazione dei giovani è un aspetto che riteniamo debba essere maggiormente sviluppato qui nell’Unione europea” … leggi tutto
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