di Giulio Goria
Giovani e devianza
Meno detenzione e più percorsi alternativi, così si ricostruisce il patto sociale. Grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici
Gemma Tuccillo, magistrato di Cassazione da un anno in quiescenza, conosce molto bene la giustizia minorile italiana; vi ha dedicato oltre vent’anni di carriera, prima nei tribunali minorili a Napoli e Potenza e dal 2017 al gennaio 2023 a capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia.
È la persona adatta per riflettere sul disagio giovanile senza farsi trasportare dall’emergenza.
Dottoressa Tuccillo, cominciamo dalla stretta attualità. Il report dell’associazione Antigone fotografa una situazione preoccupante degli istituti penitenziari minorili. Anche qui scoppia il problema del sovraffollamento; in particolare, l’allarme cade sui numeri in ingresso, che raggiungono i 500 detenuti ad inizio 2024. Un incremento sostanzioso che negli ultimi 12 mesi ha visto crescere soprattutto ragazze e ragazzi in misura cautelare e per violazione della legge sugli stupefacenti. Sono i primi effetti del decreto Caivano?
«È vero che questo sovraffollamento degli istituti minorili è una situazione nuova, mai registrata in passato in modo così significativo. Ed è vero che l’aumento delle misure cautelari detentive contribuisce ad alzare i numeri. D’altra parte, non si registra una diminuzione dei reati e neanche un loro aumento consistente. In realtà, il dato che più colpisce è un altro: l’aumento del numero degli imputati, anche a parità del numero di reati. Questo significa che i ragazzi delinquono in gruppo più che in passato e spesso in maniera più grave. Per questo serve una riflessione più ampia e più profonda».
Allarghiamo allora lo sguardo. Il decreto Caivano è nato sull’onda di episodi particolarmente gravi, cosa ci dicono del quadro complessivo della devianza giovanile nel nostro Paese?
«Il punto è il disagio giovanile, che non è un fenomeno sempre identico a sé stesso. Cambiano le fragilità, cambiano le forme del disagio, ne intervengono di nuove, e gli anni della pandemia hanno fatto da acceleratore a un processo stratificato di questo genere. Oggi il disagio giovanile si riscontra a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale; sono le statistiche a dircelo. E a fronte di episodi particolarmente gravi ci troviamo davanti a una devianza diffusa, disseminata in modo capillare, espressione di un disagio che investe l’adolescenza in quanto tale, anche a prescindere dalle diverse connotazioni territoriali. Le condotte che assumono poi una rilevanza penale sono la conseguenza di questa situazione generale. Per questo non è sufficiente inquadrare il sovraffollamento soltanto come effetto del cosiddetto decreto Caivano. Dobbiamo guardare a tutto quello che di più si può fare in termini di sostegno del disagio adolescenziale. Insomma, prima ancora di parlare di prevenzione della delinquenza minorile o della recidiva, dobbiamo mettere al centro la prevenzione del disagio».
La giustizia penale minorile è un fiore all’occhiello della giustizia italiana anche in ambito internazionale. La sua tenuta oggi è a rischio?
«I rischi ci sono. Di fronte al dato di cui parlavo la situazione del sovraffollamento diventa ancora più dolorosa e preoccupante: le strutture minorili, per lo più piccole e di consueto ben attrezzate per i programmi di trattamento, sono messe sotto pressione da numeri alti. Se la platea diventa troppo numerosa si rischia di non poter più offrire l’attenzione trattamentale necessaria per risolvere il problema del disagio, oltre che di non rispettare il principio di territorialità nell’esecuzione della pena».
Cosa la preoccupa di più?
«Non sono particolarmente preoccupata da un eccesso di repressione. Lo sono piuttosto dal fatto che ad una maggiore severità delle sanzioni non si accompagni una risposta trattamentale altrettanto forte. Il buonismo non mi appartiene e non mi è mai appartenuto, anche la severità è un valore su questi temi. Però è fondamentale che ci sia una seria campagna di educazione alla legalità da un lato e un serissimo investimento sui programmi trattamentali. Ai giovani che entrano nel circuito penale va garantita l’opportunità di seguire percorsi reali rivolti all’inclusione e al reinserimento in società. Pensare che, da sola, la risposta sanzionatoria sia sufficiente è una illusione, ed è chiaro da questo punto di vista che il sovraffollamento delle strutture rende quei percorsi di recupero più difficili. Né, voglio aggiungere, si può auspicare la costruzione di nuove carceri. L’obiettivo ideale da perseguire semmai dovrebbe essere quello opposto».
Meno carceri e più percorsi alternativi, quindi? È così che si ricostruisce il patto sociale con chi commette reati?
«Non c’è dubbio, l’implementazione delle misure alternative alla detenzione è molto importante. Non dimentichiamoci che queste misure mantengono una caratteristica restrittiva, al tempo stesso però danno la possibilità al ragazzo di condurre un percorso guidato sul territorio e nella sua comunità, senza essere sradicato. Oltre a questo, vanno rafforzate le comunità di accoglienza dell’area penale; grande cura va data soprattutto ai disturbi psicologici, che molto spesso accompagnano la commissione dei reati, soprattutto quelli legati alle sostanze stupefacenti».
Questo decreto ha riportato al centro il dibattito sulla funzione attribuita al diritto penale. Soluzione necessaria ma estrema o leva simbolica per produrre consenso?
«Sono un po’ preoccupata dall’attenzione che si dà alla sanzione, in un senso o nell’altro. E polarizzare eccessivamente il tema della repressione penale mi sembra un pericolo. Il problema della devianza va affrontato con severità, senza minimizzare la gravità dei fatti. Con altrettanta consapevolezza però vanno affrontati i bisogni di chi entra nel circuito penale per potersi reintegrare. Penso ad esempio all’importanza che riveste il dialogo di tutte le istituzioni con gli uffici minorili. Capita spesso che situazioni di disagio culturale, economico, famigliare intercettate in ambito civile si ritrovano in ambito penale. E se la cerniera istituzionale funziona bene diventa un fondamentale strumento di prevenzione. Antenne dritte nella scuola e nelle forze di polizia servono proprio per intercettare i segnali di disagio prima che si commettano reati».
Fuori da ogni retorica, è questa la prevenzione che serve?
«Sì, prevenzione significa creare situazioni di crescita sana e regolare che non portino il giovane alla devianza. Una scuola accogliente, la possibilità di svolgere attività sportiva, offrire ambienti inclusivi, queste sono le infrastrutture sociali e civili della prevenzione. Negli anni mi è capitato di incontrare ragazzi che hanno avuto la prima vera occasione di conoscenza quando sono entrati in carcere. Ecco: se è il carcere il posto dove un ragazzo scopre di possedere un talento, c’è qualcosa che non funziona nella società. È un fallimento di tutti. Il recupero della devianza non può aspettare che un ragazzo finisca in carcere, deve poter agire prima».