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Tony Blair: diamo a Kiev armi da usare anche in Russia (corriere.it)

di Aldo Cazzullo

Sulla scrivania, tra la sua immagine 
trasformata in personaggio dei Simpson e 
la foto con Nelson Mandela, 

Tony Blair ha le copie del suo ultimo libro in uscita oggi in tutto il mondo, On leadership.

Rispetto ai dieci anni a Downing Street (1997-2007), e al tempo delle sue tre vittorie elettorali consecutive, ha meno capelli ma è più magro.

Sorride –— «mio padre mi ha insegnato a essere gentile con tutti» —, ma invita a cominciare subito.

Tony Blair, lei scrive che i conservatori sono diventati populisti, non solo in Inghilterra. Però vincono. In Italia sono al governo. Negli Stati Uniti hanno vinto nel 2016, e possono rivincere a novembre. Come mai?

«Ci sono diverse forme di populismo. C’è chi sfrutta il disagio della gente, per farla arrabbiare ancora di più. E c’è chi vuole essere popolare. Ma la vera responsabilità è nostra».

Nostra di chi?

«Dei centristi, della politica tradizionale. Ci si concentra sullo status quo, anziché perseguire il cambiamento, trovare soluzioni, produrre risultati. Se il fascino di Trump persiste, contro qualsiasi previsione, è perché i centristi sembrano incapaci di prendere posizioni forti, dall’immigrazione alle guerre culturali».

Si riferisce alla cultura woke?

«Ci sono questioni, come quella transgender, su cui entrambe le parti assumono posizioni estreme. Ma la maggioranza delle persone non pensa così. La maggioranza ha opinioni moderate. Dobbiamo trovare un terreno di mezzo, di buon senso, anziché adottare posizioni polarizzanti».

Che succede se Trump rivince a novembre?

«Wait and see. Aspettiamo a vedere come va a finire. Il mio istituto ha lavorato in Medio Oriente durante l’amministrazione Trump, e abbiamo assistito a un grande accordo tra Israele e i Paesi arabi».

Ma dal Medio Oriente l’America di Trump appariva in ritirata.

«A lungo termine, l’America tornerà a impegnarsi in Medio Oriente. In Africa già lo sta facendo. E alla fine l’Europa andrà con l’America».

Ma le democrazie occidentali non stanno forse perdendo la guerra politica con le autocrazie?

«All’apparenza la stagione dell’uomo forte è in pieno rinascimento. Dietro la Russia c’è la Cina; e l’alleanza a volte coinvolge la Corea del Nord e l’Iran. Ma non finirà così. L’America resterà la prima potenza mondiale. E la stragrande maggioranza dei Paesi in cui si vive meglio sono democrazie».

Eppure lei stesso fa notare che lo scetticismo nei confronti della democrazia è espresso anche da molti cittadini di Paesi democratici.

«È vero, perché la politica appare a volte stagnante, non riesce a gestire i cambiamenti. Ma le persone che vivono nelle autocrazie vorrebbero poter scegliere il loro governo. Vorrebbero venire nei Paesi democratici».

Sta dicendo che Russia, Cina, Iran, Corea del Nord non vinceranno la guerra politica contro la democrazie?

«Non vinceranno mai. Le democrazie prevarranno. Ma dobbiamo essere abbastanza forti da poter affrontare qualunque cosa emerga, in particolare dalla Cina. Ho sempre creduto e credo alla necessità di avere un rapporto con la Cina, di non isolarla. Ma vedo che il sistema politico di Pechino, sotto l’attuale leadership, si è mosso in modo ostile all’Occidente; il che ha provocato ostilità verso la Cina in America».

Ci sarà un conflitto militare tra America e Cina?

«Credo di no. Ma potrei sbagliarmi. Per questo dobbiamo prepararci a qualsiasi possibilità».

Lei scrive che Putin attaccando l’Ucraina ha commesso un errore che avrà «conseguenze devastanti» per la Russia. Eppure Putin è ancora al suo posto.

«Putin ha sbagliato i suoi calcoli. Ha pensato che l’Europa si sarebbe rivelata debole, che avrebbe rapidamente perso coraggio, che si sarebbe arresa. Invece l’Europa è rimasta al fianco dell’Ucraina».

Ma molti sostengono che l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero smettere di armare l’Ucraina, perché così si alimenta la guerra.

«È vero il contrario. Sostenere l’Ucraina è il solo modo per arrivare a un accordo. Uno dei motivi per cui il populismo vince è perché la politica tradizionale pensa sul breve periodo, anziché su quello lungo. L’Ucraina non si sta battendo soltanto per se stessa, ma anche per scoraggiare altre aggressioni. Se ci tirassimo indietro oggi, finiremmo per pagare un prezzo incomparabilmente più alto domani».

È giusto pure che l’Ucraina usi le armi fornite dall’Europa per colpire in territorio russo?

«È giusto supportare qualsiasi soluzione, qualsiasi tattica che faccia sì che Putin non possa proseguire la sua politica aggressiva, e sia invece indotto a venire a patti. Non possiamo abbandonare l’Ucraina».

Nel libro lei appare ottimista persino sulla pace tra Israele e i palestinesi.

«Sì. Perché la guerra di Gaza ha dimostrato una cosa che sono stato tra i pochi a dire sempre, a tutti i leader».

Cosa?

«Che l’unico modo per gestire la questione è risolverla».

Ma come si può far dialogare due parti, Israele e Hamas, il cui scopo è distruggere l’altra?

«Dobbiamo tornare alla soluzione dei due Stati. E la premessa di questa soluzione è l’unificazione della Palestina. Gaza non potrà essere ricostruita se resterà in mano a una forza che vuole distruggere Israele. Gaza deve essere governata da una forza palestinese che non sia Hamas. Senza Hamas, Israele ha tutto l’interesse a cercare la pace.

Ma Netanyahu ha bisogno della guerra per la sua sopravvivenza politica.

«È giusto limitare le distruzioni a Gaza. Ma per avere la pace, occorre che Israele si senta al sicuro. Non solo con i palestinesi; con tutti i Paesi arabi».

C’è il pericolo del ritorno dell’antisemitismo in Europa, in particolare a sinistra?

«Criticare Israele è legittimo, lo dico da grande sostenitore di Israele, e non va confuso con l’antisemitismo. Tuttavia la questione dell’antisemitismo è reale. Dobbiamo essere fermissimi nello stroncarlo».

Esiste anche l’islamofobia? I «riots» in Inghilterra ne sono una prova?

«Certo che esiste. E va combattuta allo stesso modo dell’antisemitismo».

Elon Musk ha scritto che nel Regno Unito, ora a guida laburista, «una guerra civile è inevitabile». Musk sostiene Trump, si muove come il vero capo della destra globale, se non dell’estrema destra. Eppure lei nel libro ne dà un giudizio positivo. Come mai?

«Un conto sono le cose che Musk dice sulla politica; un conto sono le cose che Musk fa come imprenditore, come ingegnere, come innovatore. Musk ha costruito razzi più efficaci di quelli della Nasa, della Cina, della Russia. Ha mandato nello spazio più satelliti che non il resto del mondo. Se oggi in Africa anche le più remote aree rurali sono connesse, così come le settantamila isole che compongono l’Indonesia, lo si deve al suo sistema satellitare Starlink».

Anche sull’intelligenza artificiale lei appare ottimista. Non causerà un’enorme distruzione di lavoro?

«Non penso che l’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro umano. Penso che lo affiancherà. I robot non sostituiranno chirurghi e insegnanti; lavoreranno con loro. È un mondo nuovo. Non sto dicendo che questo mondo nuovo sia tutto buono; sto dicendo che è un mondo nuovo».

Insisto: ci sarà una distruzione del lavoro.

«Certo, alcuni posti di lavoro non ci saranno più. Se un lavoro può essere fatto meglio con l’intelligenza artificiale, sarà fatto con l’intelligenza artificiale: questa è la realtà, e i governi dovranno aiutare la gente ad affrontarla. È un momento straordinario per governare, perché la rivoluzione tecnologica sta cambiando tutto, ancora più velocemente di quanto abbia fatto la rivoluzione industriale».

Non vede anche rischi?

«Certo. Vedo rischi immani. Ma vedo anche immani opportunità. La rivoluzione industriale sfociò nella Prima guerra mondiale. La sfida della sinistra è capire la rivoluzione tecnologica, e far sì che sia giusta ed equa. Che funzioni per le persone. Giustizia sociale: il fine della sinistra resta quello. Se sapremo rendere i frutti della rivoluzione disponibili a tutti, dalla sanità alla scuola, non soltanto supereremo il vecchio conflitto novecentesco tra capitale e lavoro, ma pure quello moderno tra sovranismo e globalismo, tra populismo ed élites ».

Esiste anche un populismo di sinistra?

«Certo. Resiste l’ideologia per cui più è grande lo Stato, più è giusta la società; ma non funziona così. Il socialismo che considera il business un nemico non esercita su di me alcuna attrazione; proprio come il populismo di destra, per cui il nemico sono gli immigrati».

Però il prezzo dell’immigrazione lo pagano le classi popolari: meno salari, meno diritti.

«È così. L’immigrazione ha dato e dà un grande contributo alle società occidentali. Ma va tenuta sotto controllo: perché è quando la gente ha la sensazione che le cose siano fuori controllo, che nascono i sentimenti anti-immigrati. E lo dico da laburista, sia pure del New Labour. Da progressista quale sono sempre stato».

Lei si esprime per la tolleranza zero.

«Legge e ordine non sono cose di destra. Il primo dovere dello Stato è tenere la gente al sicuro, e la lotta al crimine per me è una cosa di sinistra, perché le prime vittime del crimine, del traffico di droga, della violenza sono le classi popolari. Uno dei motivi per cui i progressisti sono in difficoltà è perché non sono abbastanza fermi su legge e ordine. Ricorderò sempre quando vidi un ragazzo urinare contro la porta nella strada dove vivevo; cercai di farlo smettere, mi minacciò con un coltello. Sono umiliazioni che minano la fiducia delle persone comuni in sé stesse e negli altri».

Si comincia a capire che la Brexit è stata un errore. Sarà possibile porvi rimedio? Il Regno Unito tornerà in Europa?

«È una questione di lungo periodo. Io non ho dubbi che il posto del Regno Unito sia dentro l’alleanza politica europea, perché è il nostro continente, la nostra parte di mondo. Ma dopo la Brexit bisogna muoversi con attenzione. Ora c’è un nuovo governo, con un leader pro-europeo, che migliorerà i rapporti».

Vedremo mai gli Stati Uniti d’Europa?

«È una questione di lunghissimo periodo (Tony Blair sorride). Ma credo di sì. Ci saranno tre superpotenze. L’America. La Cina, per quanto la sua popolazione sia in declino, e scenderà a 800 milioni. E l’India, che invece arriverà a un miliardo e mezzo: come la popolazione degli Stati Uniti e dell’Unione europea messa insieme e moltiplicata per due. Qualcosa che facciamo fatica anche solo a concepire. Per reggere il confronto si stanno creando aggregazioni di Stati un po’ dappertutto: nel Sud-Est asiatico, in Africa, in America Latina. Accadrà anche in Europa: in quali forme, è una domanda aperta. L’Europa si unirà per controbilanciare il sistema. E sarà sempre l’alleato chiave degli Stati Uniti».

Lei scrive di aver provato gioia soltanto due volte, in dieci anni da primo ministro.

«I momenti di pura gioia sono molto rari in politica. Per me sono legati all’accordo del Venerdì santo per la pace nell’Irlanda del Nord, e all’assegnazione a Londra delle Olimpiadi del 2012».

Che cosa invece non rifarebbe? Le si rimprovera l’appoggio agli Stati Uniti nella guerra in Iraq.

«Restare al fianco degli Stati Uniti era nel profondo interesse del mio Paese. Prendemmo decisioni sulla base delle informazioni allora disponibili».

Ma se potesse tornare indietro?

«Quel che è fatto è fatto. Sia per l’Afghanistan sia per l’Iraq si possono trovare buone ragioni per cui non andava fatto. Ma una volta che è stato fatto, avremmo dovuto restare sulla stessa linea. Per questo ero contrario al ritiro dall’Afghanistan nel 2020».

Lei però scrive che fu un gesto di «hubris», di superbia, pensare di poter «trapiantare la democrazia su un corpo politico non preparato ad accoglierla».

«È così. Ma credo ancora che Saddam Hussein sarebbe stato un grandissimo fattore destabilizzante nel Medio Oriente».

Lei riconosce però anche di essere diventato impopolare.

«È il destino di ogni leader: all’inizio sei meno capace e più popolare. Con il tempo diventi molto più capace, e molto più impopolare. È accaduto anche a me. Gli ultimi anni da premier sono stati decisamente migliori dei primi. Salario minimo, riduzione della povertà, investimenti nella sanità… Il mio errore è stato non difendere la mia eredità. Ho imparato che bisogna farlo; perché nessuno lo farà al posto tuo.

Davvero quando era primo ministro non aveva un cellulare?

«Davvero. Non l’ho mai voluto, con mia grande soddisfazione».

E come faceva?

«Se dovevo prendere una telefonata, la prendevo. Ma mi colpisce la disinvoltura con cui oggi molti leader usano Whatsapp, Telegram, Signal e varie piattaforme per comunicare. Non mi sembra sicuro».

Che ricordo ha della regina Elisabetta?

«Una persona straordinaria, con una straordinaria devozione al dovere. Metteva la propria funzione sopra qualsiasi cosa, compresa se stessa».

Quando morì Diana le cose sono andate proprio come nel film «The Queen»?

«Non lo so. Non ho visto il film».

Non ci credo neanche morto.

«Le assicuro che è così. Non guardo mai i programmi su di me, e in genere seguo poco film e tv sulla politica. Così come consiglio i leader di non seguire i social, non leggere i commenti, ignorare i messaggi di odio, per non cadere vittime della paranoia. Preferisco vedere una serie italiana su Netflix».

Quali serie?

«Suburra e Lidia Poet».

Comunque, nel film «The Queen», lei consiglia alla regina di tornare a Londra, mettere la bandiera a mezz’asta fuori da Buckingham Palace, commemorare lady Diana. È andata così?

«Abbiamo discusso di tutto questo con la regina. Fu una circostanza molto difficile, molto dura. E lei alla fine ha fatto la cosa migliore. Come sempre».

E di Margaret Thatcher che ricordo ha?

«Su alcune cose eravamo d’accordo e su altre in disaccordo, ma abbiamo avuto un buon rapporto personale. Con me è sempre stata molto gentile, generosa, disponibile. Alla mano. Poi, certo, era Margaret Thatcher. Potevi dissentire; non potevi dire che non fosse attaccata a quello in cui credeva».

E di Silvio Berlusconi?

«Quando due primi ministri lavorano insieme, importa poco di quale partito siano. La cosa fondamentale è la fiducia. Berlusconi era considerato un personaggio controverso. Ma con me, quando diceva una cosa, la faceva».

Questa è una notizia.

«Ad esempio mi aiutò proprio sulle Olimpiadi, spostando l’appoggio italiano dalla Francia all’Inghilterra».

Giorgia Meloni l’ha mai conosciuta?

«No. Sono certo che prima o poi la incontrerò. È un fenomeno politico molto interessante».

«Un leader non deve dire alla gente quel che la gente vuol sentirsi dire», lei scrive. E fin qui sono tutti d’accordo. Ma poi aggiunge: «un leader non deve necessariamente dare alla gente quel che la gente vorrebbe avere». E questo per molti leader è più difficile da accettare.

«Henry Ford diceva: se avessi chiesto alla gente che cosa voleva, avrebbe risposto “cavalli più veloci”, non automobili. Il leader non deve pensare a quello che la gente vuole, ma a quello di cui la gente ha bisogno; e convincerla che sia quello che vuole. Altrimenti non è un leader, è un follower».

Lei scrive anche che un leader ha il dovere di essere ottimista.

«Nessuno sale volentieri a bordo di un aereo pilotato da un pessimista. Guardi la parabola del nostro tempo. Le cose stanno migliorando. La storia progredisce. Si vive più a lungo. Paesi molto più poveri di noi sono molto più ottimisti di noi. Il ventunesimo secolo sarà straordinario. Con la rivoluzione tecnologica ci potrà essere più prosperità per tutti. Troveremo tecnologie green per lottare contro il cambio climatico senza danneggiare l’economia. È solo questione di ritrovare la fiducia. E la consapevolezza della nostra vera, immensa ricchezza: la libertà».

La Dotta è troppo Grassa: parola di NYT (corriere.it)

di Francesco Rosano

Il New York Times ha fatto indigestione della
 «City of food». 

Per il quotidiano statunitense, che negli scorsi anni ha spesso tessuto le lodi di Bologna, la città è ormai «un inferno turistico».

Un marchio pesante, che conferma come i problemi emersi negli ultimi anni (overtourism, affitti brevi, ristorantini di taglieri e così via) abbiano raggiunto un punto di non ritorno.

(Foto: Gregorio Dimonopoli )

D’altronde l’amaro ritratto della città è scritto da una giornalista nata a Bologna, Ilaria Maria Sala, che ha visto con i propri occhi la metamorfosi. «Poco più di dieci anni fa Bologna non era considerata una grossa destinazione turistica», si legge sul Nyt, ma «le compagnie low cost, gli affitti brevi e i social» l’hanno trasformata «in una vera e propria città turistica dove è meglio evitare le strade principali».

Colpa dei proprietari che hanno convertito gli appartamenti in affitti brevi «allontanando gli studenti dall’università». Mentre in centro proliferano i pubblici esercizi dedicati alla mortadella, consumata in «quantità tali da intorpidire la mente e inibire il battito cardiaco».

Della Dotta, Grassa e Turrita — conclude il quotidiano — è rimasto poco: «Gli studenti sono stati sradicati e la Torre è nei guai. Solo il grasso regna sovrano».

Di nascite, migranti e destini collettivi (doppiozero.com)

di Andrea Brandolini

Non tutti sono consapevoli che la popolazione degli 
italiani di origine italiana che vivono in Italia è 
tornata sui livelli della metà degli anni sessanta. 

Alla fine dello scorso anno abitavano nella penisola 59 milioni di persone, oltre un milione sotto il picco del 2013, ma comunque due milioni in più rispetto alla fine del 2001. Di quei 59 milioni, oltre cinque erano stranieri e altri due erano immigrati che avevano acquisito la cittadinanza italiana tra il 2002 e il 2023.

I residenti italiani di origine italiana, escludendo quindi quelli naturalizzati, non raggiungevano i 52 milioni – appunto la dimensione demografica dell’Italia a metà degli anni sessanta (ma allora l’età media era più bassa di dodici anni).

Non è il risultato di un esodo di massa degli italiani dal Paese: dalla fine del 2001 sono emigrate soltanto 240 mila persone in più di quelle che sono rientrate. È invece l’esito della dinamica naturale delle nascite, in forte calo, e delle morti, in leggero aumento.

I demografi sono soliti ricorrere all’analogia dell’orologio di Alfred Sauvy (La population. Ses mouvements, ses lois, Presses Universitaires de France, 1957), secondo cui la demografia è come la lancetta delle ore che sembra immobile ma è la più importante, perché alla fine determina le trasformazioni storiche più profonde.

Se consideriamo che in Italia dal 2001 si sono succeduti dodici governi e si sono registrate tre durissime recessioni, oltre all’assai più modesta crisi dei primi anni duemila, i tempi della politica e dell’economia appaiono certo più brevi e spezzettati, più simili al movimento delle lancette dei minuti o dei secondi.

Per quanto seducente, l’analogia di Sauvy non deve però essere presa troppo alla lettera, come ci avverte il rettore della Bocconi Francesco Billari nel suo recente Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia (Egea, 2024).

Scrive Billari: “Non sempre la demografia – il cambiamento della popolazione – è un fattore esogeno, come un primo motore che alla lunga muta l’economia e la politica. Pur essendo particolarmente inerziale e adatta a disegnare segnali per il domani, la demografia non è affatto destino. La demografia di oggi è nata ieri, e viene influenzata proprio oggi, dall’economia e dalla politica. La politica può cambiare il corso delle nostre vite, con o senza l’economia”.

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È un’avvertenza importante, da prendere sul serio quando si voglia riflettere sul senso dei pochi numeri riassunti all’inizio. Il primo elemento di fatto è costituito dalla dinamica naturale della popolazione. Ciò che rileva non è tanto l’aumento dei decessi che, escludendo il pesante effetto della pandemia di COVID-19, è una naturale conseguenza di una popolazione che invecchia: tenendo conto della composizione per età, il tasso di mortalità è da tempo su un trend discendente ed è tra i più bassi d’Europa.

È la caduta delle nascite il fattore che determina il declino demografico del Paese. I numeri sono noti: nel 2023 i nati vivi sono stati poco più di 379 mila, il valore più modesto dall’unità d’Italia, e il tasso di fecondità è sceso a 1,2 figli per donna, anch’esso quasi un minimo storico e ben lontano da quel 2,1 che garantirebbe la stazionarietà della popolazione nel lungo periodo.

Sono altrettanto note le possibili politiche che potrebbero contrastare questa tendenza, dalle misure per facilitare l’autonomia dei giovani e la conciliazione tra tempi di lavoro e impegni familiari alla fornitura di servizi pubblici per l’infanzia, agli strumenti di sostegno economico per i genitori e per i figli.

L’esperienza di altri paesi europei indica che una combinazione di queste politiche potrebbe funzionare, come spiega Alessandro Rosina in Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere (Vita e Pensiero, 2021). Perché dunque non sono state messe in atto, malgrado la grande attenzione per la famiglia e la natalità nel dibattito pubblico italiano?

Contano certamente gli stringenti vincoli del bilancio pubblico, che frenano l’adozione di provvedimenti necessariamente costosi. Vi è però anche un problema di volontà politica, storicamente più attenta agli interventi a favore delle fasce più mature e anziane della popolazione – abbastanza comprensibilmente visto il peso che esse hanno nel corpo elettorale.

Da questo punto di vista, l’introduzione dell’Assegno unico e universale per i figli, approvato all’unanimità dalle Camere nel 2021, spicca per la sua eccezionalità: sia perché ha razionalizzato le misure a favore dei figli, sostituendo detrazioni fiscali e quattro forme di assegni familiari, e le ha potenziate aggiungendovi cospicue risorse; sia perché ha rappresentato un passo importante verso l’universalismo, pur temperato dalla modulazione del sussidio in base al reddito, in un Paese che si è sempre mostrato poco incline a perseguirlo nelle politiche di assistenza economica.

Secondo le statistiche dell’Istat, nel 2022 l’Assegno unico ha complessivamente aumentato la spesa pubblica per il sostegno dei carichi familiari di quasi 5 miliardi di euro e ha contribuito a ridurre significativamente il rischio di povertà e la disuguaglianza dei redditi rispetto alla situazione preesistente.

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È però improbabile che, nonostante la sua importanza, l’Assegno unico possa generare un’inversione nel trend delle nascite. Non solo perché le risorse sono probabilmente insufficienti, se confrontate con quelle impegnate in altri paesi europei, o perché permangono debolezze nei servizi per l’infanzia e nelle politiche di conciliazione.

Vi sono altri fattori, di natura non economica, che sembrano pesare sempre più sulle scelte riproduttive delle persone: mutamenti nelle preferenze individuali, cambiamenti nei modelli sociali e culturali, una crescente incertezza sui destini futuri, individuali e collettivi.

“Le motivazioni che spingono persone e coppie a limitare fortemente la prole, – commenta Massimo Livi Bacci in un saggio che apparirà sulla rivista Il Mulino – non dipendono granché dal contesto [economico, culturale, religioso, …] in cui vivono. Esse nascono da quello che potrebbe chiamarsi lo zeitgeist, lo spirito dei tempi, sfuggente e plastico, difficile da definire con indicatori concreti, come amerebbero fare i demografi e i sociologi”.

In ogni caso, anche un brusco aumento delle nascite non basterebbe a risolvere lo squilibrio generazionale nel medio periodo. Questo ci porta al secondo elemento fattuale nei pochi numeri iniziali. Durante questo primo quarto di secolo, la quota della popolazione straniera residente in Italia è cresciuta di quasi quattro volte arrivando al 9%, o a oltre il 12% se vi si includessero anche gli immigrati che in questo periodo hanno acquisito la cittadinanza italiana.

“L’Italia è de facto un paese di immigrazione, ‘senza una politica di immigrazione e senza una politica di integrazione degli immigrati’”, scrive Billari, parafrasando un rapporto ufficiale sulla situazione tedesca nel 1992. L’immigrazione è stata cruciale per compensare il declino demografico della popolazione italiana e colmare i vuoti che si andavano gradualmente creando nel mercato del lavoro. Il peso degli stranieri nell’occupazione totale supera oggi il 10%, ma sale al 14% tra gli operai e gli artigiani e al 29% tra il personale non qualificato (e sono valori che ovviamente non comprendono gli stranieri naturalizzati).

In un mercato del lavoro segmentato come quello italiano, in cui ampie sacche di non occupazione coesistono con difficoltà nel reperimento della manodopera, i lavoratori immigrati hanno per lo più coperto posti di lavoro di bassa qualità, meno accetti ai lavoratori italiani. Si è consolidato un rapporto di complementarità tra la manodopera nazionale e quella immigrata, che ha visto quest’ultima crescere soprattutto nella parte peggio retribuita dell’occupazione.

Secondo dati dell’INPS per il settore privato non agricolo, nel 2019 tra i lavoratori dipendenti che avevano una retribuzione settimanale appartenente al quinto meno pagato dell’intera distribuzione il 35% era nato all’estero, a fronte di solo il 7% nel quinto più pagato. Sono stime che riguardano solo la componente regolare dell’occupazione dipendente, quella con un contratto dichiarato all’INPS. Il quadro sarebbe ben più netto se vi fossero inclusi gli occupati irregolari e gli addetti dell’agricoltura.

Le condizioni sul mercato del lavoro, e i criteri di erogazione di molti trasferimenti sociali, si riflettono sugli standard di vita delle famiglie degli immigrati, assai inferiori a quelli degli italiani secondo tutti gli indicatori disponibili.

Nel 2022, tenendo conto delle differenze di composizione tra le famiglie, il reddito disponibile medio degli adulti stranieri era circa due terzi di quello degli italiani; l’incidenza della povertà assoluta, che è valutata sulla spesa per consumi, raggiungeva il 33,2% tra le famiglie di soli stranieri, il 18,9% tra le famiglie miste e il 6,3% tra le famiglie di soli italiani; era povero un bambino ogni 19 nelle famiglie di italiani del Centro Nord, uno ogni 7 nelle famiglie di italiani del Mezzogiorno e uno ogni 3 nelle famiglie con stranieri. Sono valori difficilmente compatibili con l’idea di integrazione.

Vi è una contraddizione stridente tra celebrare i successi raggiunti dalla squadra italiana agli ultimi campionati europei di atletica grazie ai molti giovani italiani che hanno, in parte o in tutto, origini straniere e tollerare gli inaccettabili livelli di sfruttamento della manodopera immigrata nelle campagne italiane, e non solo lì, che periodicamente tragici fatti di cronaca ci fanno (ri)scoprire.

Così come l’apporto degli immigrati è divenuto imprescindibile per il funzionamento dell’economia, altrettanto deve diventare centrale la questione della loro integrazione. Billari lo afferma con molta chiarezza: “L’integrazione di chi è già qui, sia dei nuovi migranti sia delle seconde generazioni deve poi diventare una priorità, a scuola come all’università, ma nella società in generale, in particolare insegnando la lingua italiana. Semplificando e incoraggiando, poi, l’accesso alla cittadinanza italiana”. Questo perché “oggi non vi sono altre opzioni demografiche”.

Nei numeri iniziali vi è un terzo importante dato, seppur un po’ nascosto, che è indicativo dell’intreccio tra declino demografico e andamento economico. Per quanto il saldo migratorio netto degli italiani verso l’estero nel periodo 2002-23 sia complessivamente stato di 240 mila persone, il quadro è assai mutato dal 2012.

Da quell’anno e fino al 2023, il saldo è stato costantemente negativo: in totale, a fronte di 700 mila rimpatri, sono emigrati 1,4 milioni di cittadini italiani. Per oltre la metà, erano giovani tra i 18 e i 39 anni, attratti dalle migliori opportunità di reddito e lavoro e, almeno in Europa, dalle più generose politiche familiari.

Se si considera per esempio la prospettiva di un giovane che voglia formare una famiglia, nel 2022, a parità di costo della vita, il reddito disponibile (quindi comprensivo dei trasferimenti sociali e al netto delle imposte) di una coppia con un bambino era in media più alto che in Italia del 19% in Svezia, del 25% in Francia, del 33% in Germania e di oltre il 40% in Austria e nei Paesi Bassi.

La propensione a lasciare il Paese appare già forte nei desideri dei più giovani: secondo una recente rilevazione dell’Istat, tra i ragazzi dagli 11 ai 19 anni più del 34% vorrebbe da grande vivere all’estero, una percentuale che supera il 38% tra i coetanei stranieri. Sia che queste aspirazioni derivino dalla curiosità e dal cosmopolitismo delle nuove generazioni sia che riflettano invece la percezione di una mancanza di opportunità in patria, l’emigrazione dei giovani non solo accentua il calo naturale della popolazione, ma lo fa indebolendola nella sua componente più dinamica.

Il ricorrere del termine “declino” accomuna la demografia e l’economia dell’Italia in questo primo quarto di secolo. Vi è, al fondo, un’insicurezza, un’incertezza su quale sia il destino del Paese nei prossimi decenni. È un dilemma che riguarda molti paesi in Europa, e non solo, ma che non manca di significativi tratti nazionali.

Forse è il tempo di una riflessione collettiva su quale equilibrio l’Italia voglia trovare tra vocazione industriale e sfruttamento del suo ricco patrimonio artistico e naturale, tra progresso sociale e difesa dei particolarismi, tra innovazione e conservazione.

E forse è il tempo di incidere su quei “rapporti d’appartenenza” stigmatizzati da Italo Calvino quasi cinquant’anni fa: “io sono io in quanto sono stato assunto dall’ente, in quanto sono iscritto al ruolo, all’albo, alla categoria”. Concludeva Calvino: “Non so quale possa essere la via per smuovere questa situazione. So solo che l’atteggiamento peggiore sarebbe d’accettarla come un’eredità naturale con la quale si tratta di convivere alla meno peggio”.

* Banca d’Italia, Dipartimento Economia e statistica. Le opinioni qui espresse sono mie e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia.

Bologna 2021-26. La mortadellosa mitomania di Bologna che non è sfuggita al New York Times (linkiesta.it)

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Vuoi mettere la community

Ho l’identità di codice postale, mi percepisco milanese.

Del resto, i bolognesi pensano seriamente che dei cuochi amatoriali locali potranno cucinare alla Casa Bianca

Tu, mi dice sempre una postmodernista che conosco, dovresti capire meglio di chiunque altro la questione delle persone trans, avendo anche tu un’identità non di genere ma di codice postale: sei di Bologna ma ti percepisci di Milano.

È in effetti vero che il tempo che trascorro a Bologna lo trascorro a borbottare qualche variazione su «vuoi mettere Milano»: le amiche telefonano lamentandosi di Sala, del fatto che non funziona più niente, del metrò che passa con frequenza romana, e io come un disco rotto chiedo se vogliano fare a cambio con Lepore che non raccoglie la spazzatura.

È però altrettanto vero che il tempo che passo a Milano lo passo borbottando «si vede proprio che sono finiti i soldi». Solo in un pomeriggio di questa settimana: i cartelli nella fermata del metrò di Montenapoleone che avvisano che gli ascensori li stanno riparando e se avete bagaglio dovete usare un’altra fermata, come se la città ad agosto ancora si fermasse come quando c’erano i soldi; la trasformazione di Corso Como 10, il concept store del lusso quando c’erano i soldi, in spaccio di saldi; il Ratanà che è chiuso a pranzo perché quel genio del sindaco, con l’imprinting della sua giovinezza in un secolo in cui c’erano i soldi e Milano ad agosto era deserta, fa fare i lavori lasciando la zona senz’acqua per intere giornate; i taxi che non si trovano, perché i tassisti saranno organizzati come quando c’erano i soldi e le città d’agosto erano deserte, e se si trovano non riescono però a venire a prenderti in via della Spiga perché via del Gesù è interrotta anche lei dai lavori: tutta la manutenzione concentrata ad agosto, come agosto fosse l’agosto del Novecento.

Il mio preferito tra gli account Twitter (o come si chiama ora) è uno che si chiama “Editing The Gray Lady”, tenuto da un picchiatello che, mentre noi dormiamo, sta lì a controllare come il New York Times cambia titoli o url degli articoli che solo dopo averli messi on line si rende conto possano risultare imprecisi o, peggio, disturbanti per qualcuno.

Ieri mattina mi ha segnalato che il pezzo su Bologna che avevano pubblicato aveva cambiato titolo, rinunciando al meraviglioso “Come la mia amata città italiana è diventata un incubo di mortadella”. Chissà se l’autrice ha fatto notare alla redazione che “Mortadella nightmare” sarebbe parso, ai più anziani bolognesi, un attacco a Romano Prodi. Bologna nel titolo è diventata “inferno di turisti” – che, converrete, è troppo generico.

(Davide Cantelli)

L’articolo del New York Times mette a parte gli stranieri d’un’osservazione che chiunque sia cresciuto a Bologna fa da parecchi anni. Ricopio da un articolo che scrissi per La Stampa nel 2021, parlando della cartoleria in cui compravo scemenze color pastello da piccina: «Adesso, a quel civico di piazza Minghetti c’è un bistrot, perché ormai Bologna è fatta solo di posti dove mangiare (al posto di Naj Oleari c’è una pizzeria)».

Nel frattempo ha smesso d’esser vero: le mie madeleine non sono più rimpiazzate solo da mense di vario tipo. L’ultimo posto a resistere, la mesticheria di piazza Galvani dove le bambine della mia generazione compravano i colori e il Das, ha chiuso l’anno scorso, ora al suo posto c’è un negozio di vestiti d’acrilico. Siamo troppi, è scomparso il gusto, e dobbiamo tutti comprare in continuazione vestiti brutti e cibo sovrapprezzato.

Al posto del cinema porno Ambasciatori, c’è la libreria preferita del ceto medio complessato, col suo bravo Eataly all’interno, e chissà perché quel baluardo culturale in cui i bolognesi andavano a farsi le seghe dopo aver pagato il biglietto nessuno lo rimpiange mai, reliquia di quando si pagava tutto, persino il porno.

Come da titolo originale, il pezzo del New York Times si concentra sull’iconografia porcina nelle vetrine, e sulla quantità di posti che vendono mortadella, ma quella è nient’altro che la mano invisibile del mercato. Quando Stanley Tucci venne a Bologna e andò a mangiare la mortadella col tizio delle Sardine (che, a nominarlo adesso, sembra più recente Ciro Cirillo), ricordo settimane d’indignazione social perché Tucci aveva detto che nella mortadella c’era l’aglio. Se pensate che i romani con la loro ortodossia della carbonara siano noiosi, non avete mai visto i bolognesi.

La cucina bolognese non esiste, ma su questo apriamo un dibattito un’altra volta. Pur non esistendo, è però l’unica attrattiva locale, l’unico orgoglio, l’unica specificità, epperciò: mortadella. Certo che è straniante vedere un posto che fa solo panini alla mortadella aprire succursali in tutto il centro, ma ogni volta che passo davanti a qualche succursale ci sono decine di persone in fila: è difficile resistere al mercato, amore mio.

Io d’altra parte non collaboro alla demortadellizzazione. Qualche sera fa, incuriosita da un articolo di Gastronomika, sono andata a cena in un giapponese che non conoscevamo né io né i miei commensali. Abbiamo mangiato molto bene, ma quando all’inizio la cameriera ci ha spiegato che avevano un solo vino perché loro non sono un ristorante ma un cocktail bar con assaggi di cibo, molti occhi si sono alzati al cielo: maronn’, Bologna quando vuol fare Milano che a sua volta vuol fare New York, e in tutto questo rimbalzo di desiderio mimetico arriva tre giri in ritardo.

Il turista che passa da Bologna preferirà fare la fila per cinque euro di panino alla mortadella o andare a mangiare in un posto che nelle foto per Instagram (l’unica ragione per cui ormai si viaggi) non sembrerà tipicamente bolognese? Il turista medio, che si percepisce viaggiatore perché come bagaglio a mano ha una borsa con stampato il mappamondo, saprebbe distinguere un posto in cui si mangia bene da una trappola per turisti? Certo che no, sennò nove decimi dei ristoranti nel centro di Roma avrebbero già chiuso, e a Venezia ci sarebbero solo i residenti.

Che siamo troppi e troppo privi di gusto e che lo scempio delle città dipenda da questo ben più che da RyanAir è un dato di realtà che nessuno ha voglia di affrontare. Mentre scrivo questo articolo mi arriva la mail d’una lettrice che dice che no, la questione della sovrabbondanza di turismo non è come l’ho descritta l’altro giorno, è che chi ci governa non ci educa con un’offerta culturale – sì, buonanotte.

Ieri mattina, mentre nel mondo leggevano il New York Times, a Bologna leggevano il dorso locale del Corriere, che in prima pagina aveva questo titolo: “Una Cesarina per la Casa Bianca – La rete di cuochi amatoriali nata a Bologna si offre per cucinare al prossimo presidente”. Procedo a leggere convinta si parli della Cesarina, famoso e antico ristorante bolognese. E invece.

E invece, m’informa il Corriere senza mai ridere in faccia alla proposta che sta riferendo, si tratta della «community riunita attorno alla piattaforma cesarine.com, nata a Bologna nel 2004». Quando vedo la parola «community» metto mano alla pistola, ma mi contengo e proseguo nella lettura.

La cuoca della Casa Bianca vuole ritirarsi, e quindi «la proposta di Cesarine prevederebbe la rotazione trimestrale di cuoche e cuochi amatoriali, provenienti da diverse regioni».

Come ogni persona sana di mente, sono svenuta all’idea che non solo sia plausibile che alla Casa Bianca optino per «cuochi amatoriali» (la mia insalata di pesche e pomodori varrà un invio di curriculum?), ma anche che le indagini di sicurezza vengano rifatte ogni tre mesi per far entrare alle dipendenze del presidente dei nuovi dilettanti con la passata di pomodoro in valigia. Ma il Corriere non ride, e insiste.

«Non sta nella pelle Davide Maggi, ceo di Home Food Società Benefit, cui fanno capo la community e la piattaforma: “Siamo entusiasti – conferma – di annunciare la candidatura delle nostre 1.500 Cesarine e Cesarini”». Immagino che non stiano, come si direbbe in frasifattese, nella pelle neanche i servizi segreti americani, che non vedono l’ora di vagliare mille e cinquecento fedine penali a scopo di soffritto.

Spero che al New York Times non si siano persi questo ritaglio del Corriere, e abbiano capito che non la mortadella, non il numero tendente a infinito di posti dove si mangia (male), non le torri e le tette e i tortellini, distinguono Bologna da Milano, Bologna da New York, Bologna da qualsivoglia luogo.

Sempre e solo, a caratterizzare la città rispetto alla quale vorrei variare sui documenti la mia identità, è la mitomania. Specialità locale diffusa anche altrove (Manuel Fantoni e Bruno Cortona sono entrambi romani), ma mai mai mai con la totale, assoluta, talentuosa mancanza di senso del ridicolo che caratterizza la nostra più mortadellosa mitomania di provincia.

(Paolo D’Andrea)

La parola della settimana. Vela Riccardo Rosa Video Player (napolimonitor.it)

di

(credits in nota 1)

Si alza il vento, bisogna tentare di vivere (paul valery, il cimitero marino)

S’erano nascosti oltre l’undicesimo piano della Vela numero 6 vicino alla porta che dava sull’enorme terrazzoscempio del caseggiato. Lì o si andava a fare o si andava a pomiciare. […] Quel giorno di agosto c’era molta calma in giro, era controra, la calura asfissiante aveva portato al mare un po’ tutti, quelli che erano rimasti erano troppo apatici e asfittici per arrampicarsi sul terrazzo. Altri ragazzi in giro non se ne vedevano. Lele e Mariagrazia, con le spalle alla porta del terrazzo della loro Vela guardavano da un finestrone enorme tutto ciò che si offriva loro all’orizzonte. […] Dopo qualche minuto Lele le regalò l’America la Spagna e la Cornovaglia, e Mariagrazia che ne sapeva lei? Si lasciò sorprendere rossa in viso tesa emozionata accucciata vicino a lui sotto a lui che era una colonna e guardandolo poi fumare gli chiese: “Questo è l’amore?”. “Questa è una specie di amore”. “E l’amore che cos’è?”, chiese Mariagrazia. “L’amore lo fanno i grandi – rispose Lele – a letto, gli sposati o i fidanzati che vanno negli alberghi, nelle macchine. E poi a te che interessa? Sei grande tu? Già vuoi fare l’amore tu?”, e sorridendo mentre le sfiorava i capelli chiese: “Lo vuoi un gelato?”.  (peppe lanzetta, gelato pistacchio e limone, in: figli di un bronx minore)

(credits in nota 2)

Dopo il terremoto occupammo la Vela gialla, il 13 dicembre 1980. Le situazioni al Centro storico in parte si trasferirono nell’edilizia pubblica denominata “167”, e in particolare al lotto C, qui a Scampia. La provenienza era in gran parte dai Quartieri Spagnoli. All’epoca c’erano dei progetti di radere al suolo i Quartieri Spagnoli. […] Tante persone provenienti dal Centro storico si insediarono qui con noi al lotto G e in altre parti della città. Tanti furono espulsi attraverso la legge 219 in paesi di provincia […] All’epoca le Vele non erano abitate. Quella dove noi ci insediammo, questa qui del Comitato, la gialla, non era completata neppure. C’erano tanti alloggi laterali, praticamente senza nulla, infatti tra gli inquilini che occuparono questa struttura, alcuni venivano definiti i “senza niente” perchè gli alloggi non erano stati completati. Alla fine riuscimmo a farli terminare e far rientrare gli occupanti. (vittorio passeggio intervistato da giuseppe de stefano in: cartografie sociali, rivista di sociologia e scienze umane, novembre 2016)

Facce ‘e paura, sotto ‘e Vele scagnate
Tonino ‘a casa nun è turnato.
Maradona nun po’ turna’
pe’ continua’ a sunna’…
(franco ricciardi, 167)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

Il mio letto è come un veliero:
Cummy alla sera mi aiuta a imbarcare,
mi veste con panni da nocchiero
e poi nel buio mi vede salpare.
Di notte navigo e intanto saluto
tutti gli amici che attendono al molo,
poi chiudo gli occhi e tutto è perduto
non vedo e sento più, navigo solo.
(robert louis stevenson, da: il mio letto è una nave)

(credits in nota 3)

Ngopp’ ‘e culonne ‘e Scampia,
a Marianella aret’ ‘a casa mia,
ce sta scritta sta frase
ca’ dice tutt’ cos’.

(enzo avitabile, quando la felicità non la vedi cercala dentro)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

Tre vele sono state abbattute, non è che vediamo grandi risultati, a me il modo in cui si sta sviluppando questo progetto mi sa di computo metrico per capire come demolire tre vele e mettere a posto la quarta. La qualità di vita del quartiere non è un tema, non  è chiaro cosa si è deciso di mettere dopo in quello spazio, e con quali soldi procedere. […] Certo, sulle Vele si sta dialogando con il Comitato, che è un soggetto importante per il territorio, ma a Scampia ci sono quarantamila abitanti. Non mi pare siano stati tenuti in considerazione nel decidere il loro destino. (daniela lepore, intervista del 2016)

(credits in nota 4)

Spettatori innocenti non ne esistono. Prima di tutto: che cosa ci fanno lì? (w.s. burrough)

(credits in nota 5)

Disgustato ‘a stu clamore ‘e l’informazione
votto ‘nterra ‘a radio e sputo int’ ‘a televisione.
È bello a jì a Cannes c’a pellicola
a fa’ scalpore p’e ridicol’,
a fa’ ‘o meglio share cu ‘na fictiòn,
cu l’uocchie ‘ncuoll’ ‘e tutta ‘a nazione,
n‘e maje capito over’ chi so’.
(co’sang & fuossera, nun saje niente ‘e me)

(foto di mario spada, da: nero scampia)

«Dentro le Vele – continua Benfenati – al momento ci sono ancora circa cinquecento nuclei familiari, che hanno avuto un riconoscimento attraverso una delibera comunale; attendono un alloggio da circa quindici anni; abbiamo avuto la sfortuna del Covid mentre era in corso il processo di abbattimento, questo ha tenuto fermi i cantieri due anni. Oggi i lavori sono ripresi, anche grazie all’arrivo dei fondi del Pnrr. Noi abbiamo detto fin dall’inizio che chi vive in posti del genere non può essere considerato benestante, deve necessariamente essere in una situazione di indigenza, quindi deve stare dentro una graduatoria speciale sul diritto all’abitare, che poi in questo caso è anche diritto alla salute, all’infanzia, a un’esistenza degna». (omero benfenati intervistato da luca rossomando, napolimonitor.it, maggio 2024)

(credits in nota 6)

E ogni riferimento è puramente casuale, brò! Quello che vogliono mostrare di noi in tivvù è totalmente diverso da ciò che siamo. Ma la sveglia sta suonando. La televisione ci droga con i suoi programmi del cazzo. Apri gli occhi: Dove Ognuno Nasce Giudicato! …tanto alla fine capiscono sempre il cazzo che gli pare. (enzo dong, italia1)

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¹ Vittorio Passeggio e i bambini delle Vele in: L’uomo col megafono, di M. Severgnini (2012)

² Felice Pignataro in: Felice!, di M. Antonelli e R. D. Klain (2006)

³ Vittorio Passeggio, i bambini e gli abitanti delle Vele in: L’uomo col megafono

⁴ Felice Pignataro in: Felice!

⁵ Mirko Calemme, Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Tonino Stornaiuolo, Emanuele Valenti, Gianni Vastarella in: Il Convegno. Azione teatrale sul tema delle periferie, di Punta Corsara (2011)

⁶ Marina Suma in: Le occasioni di Rosa, di Salvatore Piscicelli (1981)

Bologna 2021-26. Nuova casa per le scuole Besta: scelta intelligente o subalternità ai centri sociali? (bolognatoday.it)

di B.D.R.

Il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ha definito 
"una scelta intelligente" il trasferimento delle 
scuole Besta nel polo dinamico accanto al 
liceo Copernico. 

Tuttavia, questa decisione ha suscitato polemiche da parte del centrodestra

Da parte del sindaco Matteo Lepore la scelta di trovare una nuova “casa” alle scuole Besta all’interno del polo dinamico, accanto al liceo Copernico, viene definita “una scelta intelligente”.

Dall’altra parte c’è chi, come gli esponenti di Fratelli d’Italia Marco Lisei e Marta evangelisti, non esitano a definire il “passo di lato” del Comune come un atto di “subalternità ai centri sociali violenti”.

Lisei: “La sinistra forte con i deboli e debole con i forti”

Durissimo è l’attacco del senatore di Fratelli d’Italia Marco Lisei. “Con la decisione di fermare il cantiere delle Besta il sindaco mette nero su bianco la sua totale subalternità ai centri sociali violenti – denuncia – . Quando erano i cittadini per bene e la politica a criticare il progetto se n’è fregato, poi è arrivata la violenza dei centri sociali, a loro si è piegato. Il perfetto esempio di quanto diciamo da tempo, la sinistra forte con i deboli e debole con i forti oggi sublima questo concetto e ne fa un punto del proprio programma elettorale”. Lo dice

“Da domani – prosegue – chiunque sa a Bologna che se vuole ottenere qualcosa può farlo solo con la violenza. Tra le altre cose, ci domandiamo e domanderemo se tutto ciò non costituisca un danno erariale. Perché spendere soldi e tempo pubblico, tagliare alberi a caso, versare sangue delle forze dell’ordine, per portare avanti un progetto per poi accantonarlo ci pare un danno erariale immenso. E dire che sarebbe bastato ascoltare il centrodestra, ma l’arroganza di Lepore oggi tutti sanno che ha solo un freno, la violenza dei centri sociali”.

Evangelisti: “La Regione controlli”

“In linea con il nuovo mantra della sinistra “pur di raccogliere consensi, si fa e dice tutto e il contrario di tutto” adottato sia per la corsa alla presidenza della Regione, vedasi il tema sanità, oggi assistiamo invece alla marcia indietro di Lepore sulle scuole Besta, dando così ragione a chi per avere ragione ha utilizzato solo la violenza, in barba ai percorsi partecipati e ai confronti con i cittadini”, rincara la dose Marta Evangelisti, capogruppo di FdI in Regione Emilia-Romagna.

“Tutto ciò con buona pace degli alberi tagliati, dei soldi spesi per l’impiego delle forze dell’ordine e per i disagi e le accuse sopportati da queste ultime, e molto altro – aggiunge – . E, soprattutto, con buona pace per gli alunni e per le famiglie se dovranno trovare nuove collocazioni agli allievi delle Besta di quelli del Sabin che avranno spazi occupati. Da verificare poi se tutto ciò sarà compatibile con i fondi Pnrr richiesti dal Comune e con la contabilità generale dell’ente. Chiederemo alla Regione ‘dai poteri affievoliti’ e senza presidente di controllare – conclude – sapendo già che non sarà possibile ottenere risposte perché per qualcuno (non per noi) prime dei cittadini c’è sempre la campagna elettorale”.

FI: “Sulle Besta ennesimo dietrofront della giunta”

“Sulle Besta ennesimo dietro front di una giunta che non ne becca una”, dicono Nicola Stanzani, capogruppo FI in consiglio comunale e Lanfranco Massari, segretario FI Bologna. “Si avvicina una nuova campagna elettorale e il Pd a Bologna ha paura di perdere voti a sinistra – aggiungono – . L’ennesimo segno di incapacità e di debolezza della giunta Lepore che ancora una volta si scontra con la realtà senza essere in grado di farci i conti. Quanti soldi, quanti alberi e quanti danni alla città ci costerà l’inadeguatezza e l’ottusità di questa giunta di estrema sinistra?”

Di Benedetto: “Bene cambio di sede, ma messaggio sbagliato”

“Bene la scelta del sindaco Lepore di cambiare la destinazione delle nuove scuole Besta, che non saranno più nel parco Don Bosco. Dall’inizio abbiamo espresso forti perplessità e chiesto se non fosse possibile scegliere un’altra sede: evidentemente lo era”, dice il capogruppo della Lega a Palazzo d’Accursio, Matteo Di Benedetto.

“C’è stata, quindi, dall’inizio, una progettualità sbagliata e poco ragionata da parte dell’amministrazione – aggiunge – che ha dimostrato i suoi limiti e la sua scarsa capacità programmatica. La scelta iniziale non era stata sufficientemente ragionata. Tuttavia, ci preoccupa il messaggio che il Sindaco sta mandando alla città: chiusa violenza, con Lepore, l’ha vinta e può influire sulle politiche della città, mentre chi rispetta le regole no. Chi ha manifestato in maniera ordinata o ha sollevato dubbi seguendo le regole, non è stato minimamente ascoltato. Viceversa, chi ha occupato abusivamente ha avuto la meglio. La stessa cosa che succede con l’emergenza abitativa: chi aspetta il suo turno, spesso vede la sua domanda insoddisfatta, mentre chi occupa abusivamente ha il Sindaco che gli dà una mano e gli trova casa.”

Lepore: “Solo gli stupidi non cambiano idea”

“Io ero interessato al bene di Bologna. Per alcune settimane si discuterà se abbiamo vinto o abbiamo perso. Poi, a settembre i ragazzi andranno a scuola, inaugureremo il polo dinamico e questo è l’importante. Hanno voluto portare la Val di Susa in viale Aldo Moro. Noi ci occupiamo dei residenti e della comunità scolastica delle Besta, che non si meritano il conflitto, che hanno questioni sociali, bisogni educativi. Ho fallito? Abbiamo così tante sfide, se dovessi considerare tutti i passi di lato dei fallimenti, finirei qui”, è la spiegazione del sindaco Lepore.

“L’obiettivo politico era fare una nuova scuola e tenere unita la città. Lo abbiamo fatto, non mi pare una sconfitta politica”, aggiunge il sindaco.

Quanto alla decisione di spostare la scuola media Besta nel polo dinamico “la scelta arriva adesso perché si sono create le condizioni – spiega Lepore –  Credevamo nel progetto Quadrifoglio, ma solo gli stupidi non cambiamo mai idea. Il sindaco non deve costringere una città, pur di dimostrare di avere ragione, a vedere scene che si sono viste altrove. Non è razionale pensare di procedere con uno sgombero di quel tipo. Abbiamo il pieno sostegno del questore e del prefetto. Bologna non ha bisogno della polizia e della forza per fare una scuola”.

Il Pd fa quadrato attorno alla scelta del sindaco
“Il compito di una buona amministrazione, è quello di affrontare e risolvere i problemi dei cittadini. Avevamo promesso una nuova scuola di grande qualità ai ragazzi e alle famiglie una nuova scuola media. L’obiettivo è raggiunto”. Il Pd di Bologna fa quadrato attorno al Comune, che oggi chiude un anno di tensioni e scontri sulle nuove scuole Besta al parco Don Bosco, rinunciando al progetto del nuovo edificio e spostando i ragazzi al Polo dinamico.
“La soluzione prospettata questa mattina dal sindaco e dall’amministrazione comunale, di utilizzare il nuovo polo dinamico in costruzione a fianco dell’area Besta e di costruire una nuova sede del Sabin a fianco alla attuale sede, serve anche ad abbassare i toni di scontro in città”, riconosce il segretario cittadino, Enrico Di Stasi, presente alla conferenza stampa del sindaco di questa mattina.
“Diversi soggetti politici e sigle organizzate si sono mosse in questi mesi e anche in questi ultimi giorni per strumentalizzare e fermare questo cantiere di un’opera pubblica, in questo caso di una scuola. È uno scontro politico e credo che gli alberi c’entrino poco”, sottolinea Di Stasi. “La soluzione di uno sgombero con l’uso della forza pubblica, oltre che di difficile realizzazione come dimostrano i precedenti, sarebbe stato di forte impatto per la città. La nostra città si merita altro che la riproposizione di dinamiche di scontro organizzate, da alcuni esperti del genere”, rimarca.
“Poter avere da subito una scuola per i ragazzi del quartiere ed averlo fatto senza arrivare allo scontro, essere usciti da questa situazione di stallo con delle proposte, al Pd di Bologna pare una soluzione intelligente. Saremo a fianco del sindaco, dell’amministrazione e dei cittadini nel supportare le scelte”, conclude Di Stasi.
Coalizione civica: soluzione che garantisce didattica, verde e evita prove di forza
Coalizione Civica parla di “una nuova scuola, sostenibile, efficiente, già pronta e che salva il bosco. Sembrava impossibile ottenere tutto, ma ci abbiamo lavorato e creduto” si legge in una nota  diffusa dal movimento che “ha sempre creduto che l’amministrazione dovesse trovare una soluzione che non trascurasse né le esigenze di una scuola bella e nuova, uno spazio pubblico e un servizio necessario, né le preoccupazioni per la qualità ambientale e del verde nel quartiere: elementi che, invece, sono entrati in conflitto. Un conflitto che non avrebbe mai potuto risolversi a manganellate”.
“L’intelligenza collettiva è sempre superiore a quella individuale o di parte – aggiunge Coalizione Civica – . È per questo che la soluzione individuata per le scuole Besta risponde a più esigenze collettive e non solo a quelle di parte. Crediamo che oggi si sia scritta una pagina di politica fuori dall’ordinario, volta al bene comune, capace di riflettere, capire, interrogarsi, assumere scelte importanti guardando alla collettività e non guardandosi allo specchio. La città, con tutte le sue contraddizioni e sfaccettature, chiedeva una soluzione politica nel senso più alto che evoca. Oggi la soluzione c’è e non prevede l’uso della forza pubblica ed evita che le alunne e gli alunni siano messi in moduli provvisori e inadatti o costretti ad andare a scuola in un clima conflittuale attorno ai cantieri per diversi anni”.
“Ringraziamo il sindaco Matteo Lepore, la vicesindaca, Emily Clancy – conclude la nota –  l’amministrazione e tutti coloro che hanno contribuito a questo risultato, che deve rappresentare un punto di svolta per la nostra capacità di mettere in campo politiche ambientali, sviluppo della scuola pubblica, cura delle relazioni, partecipazione reale, rispetto del territorio”.
Verdi: “Soluzione va nella direzione da noi indicata”
“La soluzione annunciata oggi dal sindaco Matteo Lepore va nella direzione che noi Verdi invochiamo da tempo. Abbiamo iniziato nel luglio 2023 a segnalare le criticità del progetto della nuova scuola media Besta nel parco Don Bosco”, osservano Danny Labriola, portavoce Europa Verde-Verdi Bologna, e Silvia Zamboni, consigliera regionale Europa Verde-Verdi

“Abbiamo incontrato il sindaco nell’agosto 2023 e siamo intervenuti diverse volte in consiglio comunale, ma la giunta non ha mai voluto rinunciare al progetto Quattrofoglie  – proseguono – che prevedeva la costruzione di un nuovo plesso scolastico nel parco, con il conseguente sacrificio di decine di alberi ad alto fusto. Oggi la retromarcia del sindaco rappresenta la vittoria di un vastissimo movimento civico e ambientalista, che ha oltrepassato i confini cittadini e che abbiamo contribuito a far nascere un anno fa.  Oggi si dà finalmente risposta a migliaia di cittadini e residenti che in questi mesi hanno presidiato il parco in modo pacifico per rivendicare il loro diritto alla salute”.

“Il sindaco Lepore dichiara di aver fatto degli errori in questa vicenda e che dagli errori si impara – concludono – . Ci auguriamo che sia l’occasione per comprendere l’importanza dell’ascolto e della vera partecipazione, soprattutto quando le amministrazioni propongono progetti che impattano sull’ambiente e sulla qualità di vita delle persone”.