I curdi d’Europa manifestano contro i raid turchi (euronews.com)

Le comunità curde in Europa hanno manifestato 
contro i bombardamenti turchi nelle regioni 
settentrionali di Siria e Iraq.

Nella città tedesca di Amburgo, dove risiede una comunità curda importate, erano diverse centinania a accusare la Turchia di uccidere i civili.

Anche i curdi che risiedono a Cipro sono scesi a manifestare per chiedere un immediato stop agli attacchi aerei.

Ankara ha lanciato un’offensiva militare nel nord dell’Iraq e in Siria contro diverse aree sotto il controllo delle forze curde siriane e del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).

“È arrivata l’ora della resa dei conti” aveva scritto il ministero della Difesa turco, preannunciando l’operazione militare soprannominata“Spada ad artiglio”. Nel comunicato turco si legge che l’iniziativa militare ha l’obiettivo di eliminare gli attacchi terroristici. Nel mirino dell’attacco turco Kobanê, la città che riuscì a resistere all’assedio delle forze dell’Isis e che fu riconquistata dai curdi il 30 gennaio 2015.

In totale sono 89 gli obiettivi presi di mira dai militari turchi, tra gli altri bunker, deposito munizioni e campi di addestramento. Le milizie curde siriane annunciano vendetta, i bombardamenti avrebbero colpito centri urbani densamente popolati.

I bombardamenti sarebbero stati decisi come rappresaglia per l’attentato compiuto domenica 13 novembre a Istanbul, in cui sono state uccise sei persone e ne sono state ferite più di 80: per Ankara responsabile dell’attentato è il Pkk. Sono decine le persone arrestate in relazione all’attacco … leggi tutto

 (Diritti d’autore  Baderkhan Ahmad/Copyright 2022 The AP. All rights reserved)

La mobilitazione militare imposta dalla Russia sta spingendo all’esilio i tatari di Crimea (valigiablu.it)

via Meduza

Circa il 13% della popolazione della Crimea è costituito da tatari di Crimea. Come molte minoranze etniche all’interno dei confini riconosciuti a livello internazionale dalla Russia, i tatari di Crimea sono stati bersagliati in modo sproporzionato dalla campagna di mobilitazione di Mosca. Questo si aggiunge alle repressioni e alle violenze mirate che hanno subito per mano del governo russo di occupazione dal 2014, quando Mosca ha annesso per la prima volta la loro madrepatria. Come dichiarato di recente da diversi membri di questa minoranza a Zerkalo, testata indipendente bielorussa, decidere se lasciare la Crimea non significa solo valutare i vantaggi in termini di sicurezza; la deportazione forzata di centinaia di migliaia di tatari di Crimea sotto il governo sovietico, che ha portato rapidamente alla morte di oltre 100 mila persone, è rimasta nella memoria collettiva, rendendo la vita al di fuori della Crimea “impensabile” per molti. Il sito indipendente russo Meduza ha riassunto l’inchiesta di Zerkalo sulle scelte dolorose che la popolazione indigena della Crimea si trova ad affrontare.

“Non so perché, forse stavano preparando una lista per il futuro”, ha detto a Zerkalo. Anche se il suo medico lo aveva rassicurato su un rinvio per motivi di salute in caso di mobilitazione, e non avendo esperienza militare, sapeva che a 48 anni era ancora abbastanza giovane per essere arruolato.

Poi, all’inizio di settembre, settimane prima dell’annuncio della mobilitazione di Putin, il nipote di Seidamet ha ricevuto una convocazione dal commissariato. Secondo Seidamet, la sua famiglia, come la maggior parte dei tatari di Crimea che vivono ancora in Crimea, non sostiene la guerra.

“Mio nipote non ha motivi per combattere: è filo-ucraino nell’anima ed è per metà ucraino di sangue”, ha detto. “Se qualcuno dei nostri appoggia la Russia e la guerra, è un’eccezione e, a mio avviso, non è più un tataro di Crimea. Il nostro popolo ama la pace e ama l’Ucraina”.

Per motivi di sicurezza, Seidamet e suo nipote hanno lasciato la Crimea.

La loro partenza ha messo a disagio molti parenti; dopo tutto, ogni tataro che lascia la Crimea ricorda il recente passato, quando la penisola era praticamente priva di tatari. Lo stesso Seidamet, cittadino ucraino, è nato in Uzbekistan, a seguito della deportazione in massa della popolazione tatara di Crimea da parte del regime staliniano.

“Nel 1944 fummo accusati di tradimento – presumibilmente eravamo dalla stessa parte dei fascisti – e deportati. C’erano molti gruppi etnici deportati in URSS, ma nel 1957 la maggior parte di loro tornò a casa. Ma i tatari di Crimea non hanno avuto questa opportunità! Hanno semplicemente cercato di diluirci, di assimilarci al Kirghizistan, all’Uzbekistan, al Tagikistan. Mentre il desiderio principale della gente era quello di tornare”, ha detto.

Nel 1989, il governo sovietico revocò finalmente il divieto di ritorno dei tatari di Crimea. Seidamet e la sua famiglia tornarono a casa nel luglio di quell’anno.

“Avevo quindici anni quando misi piede per la prima volta in Crimea. Per tutto il nostro popolo, il ritorno a casa era qualcosa di monumentale. Qualcosa per cui avevamo sopportato anni di sofferenza. Quindi la prospettiva di abbandonare di nuovo la nostra patria – le montagne della Crimea, il mare – era un problema insolubile per molti, soprattutto per le persone più anziane.

E l’annessione del 2014 è stata un colpo terribile. Ma la maggior parte della nostra gente ha capito che, pur essendo sotto il giogo della repressione e senza più libertà di parola, sarebbe rimasta a casa”, ha detto Seidamet.

Ma coloro che sono rimasti hanno pagato un prezzo pesante. Il 27enne Ildar (nome cambiato per motivi di sicurezza), un altro tataro di Crimea della penisola, ha raccontato che, due giorni dopo l’annuncio della mobilitazione di Putin, le sue chat di gruppo hanno iniziato a riempirsi di messaggi sui posti di blocco che spuntavano nelle zone rurali.

“Non ho prestato servizio nell’esercito, ma era chiaro che avrebbero preso prima i tatari di Crimea e che le retate erano iniziate. Nelle chat vedevo che erano particolarmente accurati nelle aree densamente popolate dalla nostra gente, negli insediamenti sorti dove un tempo c’erano i campi.

Quando i tatari di Crimea sono tornati, dopo il 1989, il governo li ha ostacolati, rifiutandosi di dare loro la terra. In alcune aree, la gente si è limitata a piantare dei pali nel terreno e a montare delle tende, e poi sono apparse delle case. In seguito, quella terra è stata legalmente privatizzata”, ha detto.

Ha ricordato un caso in cui le autorità hanno ingannato un uomo per fargli aprire la porta di casa, dato che secondo la legge russa le bozze devono essere consegnate fisicamente al destinatario. Dopo che qualcuno ha gridato che una persona era ferita, l’uomo è uscito per aiutare – e gli è stato immediatamente notificato il mandato di cattura.

Alla fine Ildar stesso ha deciso di fuggire in Kazakistan, come molte altre persone che conosceva. “Tra i miei amici e parenti, forse il 70% dei tatari di Crimea è partito. Per noi è una cifra notevole”, ha detto a Zerkalo.

In effetti, secondo i dati preliminari del rappresentante presidenziale dell’Ucraina in Crimea, al 3 ottobre più di 10.000 persone avevano lasciato la Crimea dopo l’annuncio della mobilitazione di Putin – “per una parte significativa tatari di Crimea”.

Secondo Zarema (nome cambiato per motivi di sicurezza), in Crimea l’ondata di panico che ha seguito l’annuncio della mobilitazione si è gradualmente attenuata. Ma rimane la paura della coscrizione, così come delle repressioni in corso in Crimea dal 2014.

“In questo momento i tatari di Crimea sono sotto stretto controllo. Ci sono cosiddetti blogger che ‘combattono’ le persone che non sostengono apertamente ‘l’operazione militare speciale’ o che semplicemente stanno in silenzio. Hanno arrestato della gente per aver screditato l’esercito russo, hanno licenziato insegnanti e stanno perseguendo uomini d’affari che permettono di utilizzare i loro locali per determinati eventi.

Anche nelle scuole tengono sotto controllo gli insegnanti: conosco un caso in cui una famiglia di tatari di Crimea trasferitasi da Mariupol è stata colpita accusati di illeciti amministrativi. Il figlio frequentava la prima elementare e l’insegnante aveva assegnato agli studenti il compito di disegnare la bandiera del loro paese, così lui ha disegnato una bandiera ucraina. Naturalmente gli altri studenti lo hanno umiliato e i genitori sono stati multati per aver “svolto in modo improprio i propri compiti””.

Più di recente, ha detto Zarema, voci filogovernative hanno iniziato a cercare di interpretare l’assistenza legale per i soldati arruolati come “resistenza illegale” alla mobilitazione. “Chiedono che gli avvocati siano ritenuti responsabili, e se si tiene conto del contesto specifico della Crimea, il pericolo cresce enormemente”, ha detto a Zerkalo.

Zarema ha anche descritto gli sforzi delle autorità di occupazione russe per sopprimere l’identità tatara di Crimea anche al di fuori del contesto della guerra, in modo simile a come tratta l’identità nazionale dell’Ucraina – nonostante le precedenti promesse di Mosca di concedere ai tatari di Crimea “l’autonomia nazionale-culturale”.

“Dal 2014 mi occupo di questioni legate alla cultura tatara di Crimea e l’FSB ha messo i bastoni tra le ruote in ogni occasione”, ha detto Zarema. “Non ci è stato permesso di riunirci nemmeno per celebrare la Giornata della Bandiera – gli eventi culturali sono consentiti solo se sono filo-russi. Nelle scuole, c’è un divieto non ufficiale sulle lezioni di lingua tatara di Crimea”.

Questi divieti sono stati sostenuti dalla violenza.

“Ho amici che sono finiti in prigione, conoscenti che sono scomparsi. Ogni giorno rastrellano i tatari di Crimea con la scusa che sono terroristi. Solo un anno fa hanno arrestato Nariman Dzhelyal, sospettato di voler commettere un attacco terroristico a un gasdotto. Ma tutti sanno perché è stato arrestato: era apertamente favorevole all’Ucraina; faceva parte della Piattaforma Crimea [un’iniziativa del governo ucraino che cerca di riportare la Crimea sotto il controllo di Kyiv, NdT]”.

Zarema non ha sperimentato la violenza dello Stato russo solo in qualità di avvocata: ha anche perso diversi membri della famiglia.

“Uno dei miei figli è partito nel 2012. Chiaramente aveva i suoi problemi con la Russia, anche se era ancora giovane. Ha combattuto in Siria contro la Russia ed è stato ucciso. Quest’anno avrebbe compiuto 30 anni. Il mio secondo figlio, se è vivo, compirà 27 anni a novembre. È stato rapito da agenti dell’FSB nel 2014. Lui e mio nipote sono stati spinti in un’auto e non sappiamo cosa sia successo dopo. […]

In seguito, mia figlia maggiore si è trasferita a Kyiv. Quando tornava in Crimea, alla frontiera la molestavano continuamente. Questo la rendeva molto nervosa. Poi hanno messo sottosopra il suo appartamento mentre era via. L’FSB è riuscito a mettere i suoi tentacoli anche lì. […] Queste sono le difficili situazioni che ci circondano. La Russia è un’organizzazione predatoria, e la repressione è il suo stile di vita”, ha detto.

Secondo Abdula, molti renitenti alla leva sono tornati in Crimea perché non possono permettersi il costo della vita all’estero. Anche Seidamet vuole tornare nella penisola di Crimea, ma solo quando sarà al potere un altro governo.

“A un certo punto, nel 2016, stavo soffocando per la mancanza di libertà, che mi veniva offerta come se fosse manna dal cielo. Non ce l’ho fatta! Sono viziata dal mio amore ucraino per la libertà. Certo, a volte arrivava fino all’anarchia, ma noi l’amavamo lo stesso! A quel punto, ricordo, sono salita su un minibus e ho detto all’autista: “Andiamo a Kyiv!”. Lì ho trascorso un mese a respirare la libertà, poi ho deciso di tornare in Crimea, ma con l’avvertenza che se avessi visto qualcosa di brutto, ne avrei parlato. Ecco perché anche adesso non nascondo il mio nome”.

Secondo Seidamet, almeno una cosa è cambiata dalla metà del 2010: la comunità internazionale sembra essersi svegliata.

“Dal 2014, molte persone si erano dimenticate di noi. Non importa quanto forte abbiamo gridato per ciò che stava accadendo. Il mondo aveva dimenticato che nel XXI secolo la Russia aveva sfacciatamente staccato a morsi un pezzo di un intero paese per reclamarlo come proprio. Ma la Crimea sarà di nuovo ucraina, non ho dubbi che torneremo. Per ora, sogno le montagne della Crimea. Passeggio tra loro e tutto va per il meglio”.

Articolo originale pubblicato in inglese sul sito indipendente russo Meduza (traduzione dall’originale russo – pubblicato su Zerkalo – all’inglese di Sam Breazeale) – per sostenere il sito si può donare tramite questa pagina.

Il dibattito sui monumenti sovietici in Lettonia: tutelarli o abbatterli? (euronews.com)

di Julian GOMEZ

Strumenti di propaganda politica per alcuni, 
luoghi di memoria storica per altri. 

In Lettonia i monumenti dell’epoca sovietica continuano ad alimentare un dibattito acceso, nonostante una recente legge che, da qualche mese, consente lo smantellamento sistematico di molti di essi.

Il testo obbliga i comuni a smantellare i monumenti che celebrano il regime sovietico. Quelli eretti in cimiteri, con resti umani o considerati culturalmente significativi, rimangono protetti. Ma vicino al confine con la Bielorussia e la Russia, le cose non sono così semplici.

Il dibattito nelle zone di confine

La città di Daugavpils ha tre importanti monumenti sovietici e una grande maggioranza etnica russa. Considerato propagandistico dagli esperti governativi,  uno dei monumenti dedicati ai soldati sovietici della II guerra mondiale sarà demolito. Tuttavia, tutti i russofoni con cui abbiamo parlato sono contrari. “I monumenti non dovrebbero essere abbattuti – ci dice uno di loro -. Sono i nostri ricordi. Dovrebbero restare dove sono. Non ci danno fastidio”.

“Qui, prima, non c’erano né fiori né candele – dice una donna russofona -. Ma da quando si è iniziato a parlare di smantellamento hanno iniziato a comparire”. Un consigliere comunale, membro della maggioranza etnica russa, ci confida il suo sgomento. “Un soldato è un soldato. Quello che è successo, è successo. Il monumento è stato eretto come forma di ringraziamento – dice il consigliere -. A mio parere abbattendo i monumenti cancelliamo la storia”.

Il più grande monumento sovietico della città è invece al sicuro, poiché ospita resti umani. Ma anche in questo caso le persone del posto hanno opinioni differenti. “Distruggere i monumenti è una brutta usanza – dice un’ex insegnante -. I monumenti fanno parte della nostra storia, che sia buona o cattiva. Con questi monumenti possiamo insegnare ai nostri studenti sia le cose buone del nostro passato che quelle cattive”.

“Il monumento in sé non crea alcuna divisione nella cittadinanza – dice Henrihs Soms, professore di Storia all’università di Daugavpils -. Ciò che divide è il modo in cui viene sfruttato da diversi gruppi e organizzazioni politiche”.

Parlando con la gente del posto per qualche ora, l’inviato di Euronews Julen Lopez si è reso conto che qui quasi nessuno vuole smantellare i monumenti. Aivars Broks, direttore della scuola di musica locale, è tra le poche voci favorevoli alla distruzione dei monumenti: “Prima li rimuoviamo, meglio è – dice Broks -. È grottesco valutare quali di questi monumenti glorificano l’occupazione sovietica e quali meno”.

A Riga la maggioranza è favorevole all’abbattimento

A Riga, capitale del Paese, la situazione è molto diversa. Negli ultimi mesi le autorità locali non hanno esitato a sbarazzarsi senza troppi complimenti degli ultimi monumenti sovietici. Stando alle autorità il monumento della II guerra mondiale più grande del Paese era diventato un luogo di ritrovo per i nostalgici della Lettonia sovietica e per i nazionalisti filorussi.

Martins Stakis, sindaco di Riga, ha detto a Euronews che la città non vuole altri simboli del totalitarismo, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina. “La prima idea è stata di rinominare il monumento o di dargli un’interpretazione diversa – dice Stakis -. Ma quando ha saputo di questa idea, la gente ha iniziato a donare denaro per abbatterlo. Le donazioni hanno finito per coprire tutti i costi della demolizione”.

Alcuni dei monumenti considerati culturali o storici potrebbero finire nel Museo dell’occupazione della Lettonia, che documenta la dominazione nazista e sovietica del Paese.

(Diritti d’autore  euronews)

Viaggi – Otranto / Lecce (tv2000.it)

Con questa nuova puntata di Borghi d’Italia vi porteremo nella splendida Otranto, in provincia di Lecce. 

Nel corso del programma incontreremo il sindaco, il parroco della cattedrale, l’abbadessa del monastero di Santa Chiara, il governatore della Misericordia di Otranto e gli abitanti. Il borgo antico della città è stato riconosciuto dall’Unesco come sito “Messaggero di Pace”.

Il faro di Punta Palascìa, situato a sud del centro abitato, è il punto geografico più ad est della penisola italianaleggi tutto

Storia di Another Love, l’inno delle donne ucraine e iraniane della generazione TikTok (linkiesta.it)

di

Una canzone di 10 anni di Tom Odell è diventata 
la colonna sonora delle compagne dei soldati di 
Kyiv e della protesta in Iran. 

Ma anche il tormentone per musicare video di tutt’altra natura sui social, come già successo con Bella Ciao

Dopo l’ennesimo revival di “Bella Ciao” come inno di lotta ai quattro angoli del mondo, nemmeno fosse il passaparola della parte giusta, perché contiene la parola-chiave a cui gira attorno la canzone – “l’invasor” – che traccia il confine netto tra bene e male, da qualche mese succede un’altra cosa, più indefinibile, incastrata com’è tra i gangli della comunicazione contemporanea.

C’è questo pezzo, “Another Love”, vecchio di una decina d’anni, scritto dal cantautore inglese Tom Odell, quando era un ragazzo. Odell è un altro esponente dell’ormai inesauribile categoria di songwriters lamentosi, il cui capostipite identifichiamo nel diabolico James Blunt e che poi ha prosperato, includendo campioni di vendite come Ed Sheeran.

E “Another Love” è per l’appunto la giaculatoria d’un amante sfigatissimo, che le tenta tutte per tenersi vicino una tipa che evidentemente non ne vuole sapere – e il relativo videoclip è la fedele rappresentazione del tutto, con lui che canta imperturbabile mentre lei gli tira i piatti in testa.

Pezzo non brutto, ma indigesto a chi non sia più in possesso del serbatoio di romanticismo anagrafico in cui intingere il suo ascolto.

Però poi succede qualcosa di misterioso, attraverso un inesorabile crescendo sospinto da esoterici ammiccamenti: “Another Love” diviene la soundtrack della protesta, di quella vera, seria e drammatica in diversi angoli del mondo alle prese con tragiche circostanze, per come viene raccontata, messa in scena, iconizzata e resa fattore emotivo nella bacheca collettiva dei social – TikTok e Instagram in testa.

In particolare viene isolata la strofa del brano in cui Odell canta “Se qualcuno ti fa del male, io voglio battermi / ma troppe volte le mie mani si sono rotte / se userò la voce sarò una bestia / le parole vincono ma io so che perderò”, tratta da una sua esecuzione live, in cui a cantarla più che Odell è un gran coro del pubblico, fatto di voci femminili.

È così che prolifera la concisa colonna sonora della descrizione di un dramma nel suo momento-limite – quello della descrizione, nelle sue interpretazioni più diverse: si comincia nell’Ucraina sotto l’attacco dell’invasor e “Another Love” diviene il pendant del distacco, della separazione, dello smarrimento.

Pochi mesi dopo, il pezzo affiora dall’Iran, dopo la morte di Masha Amini, la ragazza arrestata a Teheran dalla “buoncostume” e morta in carcere. Le ragazze di Teheran su TikTok si filmano mentre si tagliano ciocche di capelli e scendono in strada a protestare e sotto c’è la canzone di Odell, a salmodiare della ragazza che l’ha mollato e di ciò che avrebbe dovuto fare per evitarlo.

Quindi, mentre la canzone resuscitata passa agevolmente il traguardo del miliardo di ascolti su Spotify, succede una cosa ancora più strana: sul solito palcoscenico globale di TikTok lo stesso brano viene usato a tormentone per musicare video di tutt’altra natura, quelli di feste e matrimoni, di dichiarazioni d’amore e magnifici tramonti: tutto si confonde e si sbriciolano le frettolose tesi sulla nascita di un inno trasversale generato dal basso per unificare l’impegno sociale e le buone cause.

Si sovrappongono caoticamente il dovere e il piacere, il dolore e l’esibizionismo, con il medesimo effetto straniante – in quel caso residuale – di “Bella Ciao” trasformato in martellone techno e suonato per un comune ballo troglodita.

Mentre i manager di Odell si fregano le mani contando i biglietti per i suoi concerti e valutando le prospettive del suo nuovo singolo (“Best Day of My Life”) e mentre lo stesso Odell si sente in obbligo di esprimere pubblicamente solidarietà alle donne iraniane che l’hanno scelto a orecchio e non per meriti documentati, resta lo sbigottimento per il rovesciamento delle prospettive nel quale è il pubblico, protagonista nell’effimera democrazia social, a decidere tutto, secondo logiche imperscrutabili e amorali. Secondo le quali, ad esempio, il vecchio può tornare a essere nuovo e conta più l’intuizione subitanea che mille campagne promozionali.

È tutto un flusso veloce, nel quale non c’è più differenza o frontiera tra le cose serie che richiedono sofferenza, e quelle volubili nelle quali ci vorremmo tutti perdere. Alla fine la vita è una sola e adesso si è concordato di rappresentarla collettivamente nello stesso modo, in certe app del cellulare, ovunque si abiti, a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Mentre la nostra esistenza scorre tra gioie e dolori, pene e desideri, la raccontiamo e, intanto, sullo sfondo, ancora soltanto per qualche settimana, risuona quella canzone che ci fa sentire meno soli e ci fa sentire parte di un gruppo. Un po’ come quei braccialetti che ti mettono al polso per entrare e uscire a tuo piacimento da una notte in discoteca. E che finisci per tenerti addosso anche il giorno dopo.

Difendere l’Ucraina significa difendere l’Unione europea (linkiesta.it)

di

Slava Evropi

Durante la presentazione del nuovo quotidiano de Linkiesta in lingua ucraina, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno ha spiegato che la collocazione naturale di Kyjiv è dentro la nostra comunità politica, economica e sociale

Pubblichiamo il discorso integrale della vice presidente del Parlamento europeo per il lancio di Slava Evropi, il nuovo giornale europeo de Linkiesta in lingua ucraina

Quando nasce un nuovo giornale è sempre un giorno felice, quando nasce poi un giornale che parla di Europa al popolo ucraino la felicità si fonde con l’orgoglio. Slava Evropi (Gloria all’Europa) è un esempio importante di cosa significhi essere europeisti in un mondo che cambia, di come la missione informativa si saldi con la tutela dello Stato di diritto e la resistenza del popolo ucraino.

L’Ucraina per me è Europa, non dal 24 febbraio, ma da quando una giovane e fiera generazione ha reagito alla volontà imperialistica russa invadendo le strade con la bandiera europea sulle spalle nei giorni drammatici di Euromaidan.

La collocazione naturale di Kyjiv è dentro la nostra unione politica, economica e sociale e iniziative come quella del vostro giornale creano un ponte ulteriore, accorciano le distanze e permettono a tante ucraine e ucraini di avere accesso ad informazioni, inchieste e a non perdere il legame col mondo intorno.

Di questo dobbiamo essere grati al direttore Christian Rocca che ha posizionato la testata con coraggio fin dai primi istanti con la difesa del popolo e del governo ucraino, e a Yaryna Grusha Possamai che dirigerà la testata; sono grata a lei perché in questi mesi ha creato centinaia di iniziative culturali e politiche che ci hanno permesso di rafforzare la consapevolezza nel nostro Paese dell’importanza della partita in corso.

Difendere l’Ucraina significa difendere le ragioni fondative dell’Unione europea, difendere con saggezza e lungimiranza l’Europa del futuro, quella che avrà nell’allargamento a nuovi Paesi, nella creazione di un esercito europeo comune, di una politica energetica autonoma e del rispetto del sistema dei diritti il suo punto di approdo. Per fare questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti, di un coinvolgimento dei popoli e di una partecipazione inedita, che occasioni come il vostro giornale offrono.

Anche per questo sono felice che questo progetto sia sostenuto dal Parlamento Europeo perché l’Europa deve essere presente non solo nelle intenzioni ma anche nella pratica e nell’impegno quotidiano.

Grazie ancora per quanto state facendo e per quanto farete.

Slava Ucraini e Slava Evropi.

Elezioni in Brasile: perché la sfida Bolsonaro Lula è anche affar nostro (corriere.it)

di Francesco Battistini e Milena Gabanelli

Lo chiamano il Paese verde-oro, dai colori 
della bandiera. 

E in effetti in pochi altri luoghi al mondo la difesa del verde vale quanto l’oro. Perché il 60 per cento dell’Amazzonia si trova in Brasile. La più grande foresta pluviale della Terra custodisce il 20 per cento delle acque dolci e il 70 per cento della biodiversità di tutto il nostro Pianeta. Immagazzina 123 miliardi di tonnellate di carbonio. E di tutte le specie d’alberi presenti in natura, più d’un quinto cresce qui. Preservare il Brasile è una questione d’equilibrio della Terra. Dunque è un affare anche nostro sapere chi governerà questo immenso polmone verde.

Bolsonaro contro Lula

Il 2 ottobre si vota: 156 milioni di brasiliani sceglieranno il loro trentanovesimo presidente. Dal 1988, quando finì il ventennio della dittatura militare, è la nona volta. Ma in un Paese che pure ha vissuto una storia fatta di golpe e d’impeachment presidenziali, non s’era mai visto uno scontro così duro fra i due principali candidati: il presidente uscente Jair Bolsonaro, di destra, che alcuni sondaggi danno al 38, contro l’ex presidente di sinistra Luiz Inàcio Lula de Silva, semplicemente Lula, al 51. Per vincere serve il 50 per cento più uno dei voti, ma in corsa ci sono anche un candidato laburista accreditato al 5 per cento e un conservatore, al 3. L’eventuale ballottaggio è fissato al 30 ottobre.

Due visioni del mondo

Bolsonaro, 67 anni, tre matrimoni e cinque figli – uno dei quali è stato il parlamentare più votato nella storia del Brasile – è un ex capitano dell’esercito che elogia i bei tempi della giunta dei generali e ha nominato ministri otto militari. Lula è un ex sindacalista che al governo portò pure qualche nostalgico della rivoluzione russa.

Dai diritti Lgbt all’uso delle armi, dall’assistenza sociale alla tortura, i due sono divisi su tutto. Lula rinfaccia a Bolsonaro, che s’è dichiarato no-vax e negazionista, d’avere causato oltre 660 mila morti di Covid con le sue «scelte genocide». Bolsonaro accusa Lula, finito in carcere per una storia di tangenti, di nepotismo e d’avere guidato «il governo più corrotto della storia brasiliana». È così da anni. Ma stavolta c’è un tema più urgente d’altri, su cui si gioca la sfida: la difesa dell’ambiente.

Cancellati 3,7 milioni di ettari di foresta

Bolsonaro durante un comizio, nella campagna elettorale del 2018, fu accoltellato e rischiò di morire. Nei suoi quattro anni di presidenza s’è battuto per i tagli delle tasse, per le privatizzazioni delle imprese di Stato, per la liberalizzazione dei servizi sociali. Molto vicino ai superconservatori americani, ha fatto capire che in caso di sconfitta è pronto a denunciare i brogli con una «marcia su Brasilia» simile all’assalto al Campidoglio di Washington, quello di chi contestava l’elezione di Biden.

All’inizio della guerra in Ucraina s’è schierato con Putin ed è tutt’ora contro le sanzioni alla Russia, è amico dell’ungherese Orban. In Italia il 1 novembre 2021 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dalla giunta leghista di Anguillara Veneta per via delle sue lontane discendenze padovane.

È soprannominato «il Trump dei tropici» e le sue posizioni spiegano il perché: in soli quattro anni da presidente, Bolsonaro ha cancellato 3,725 milioni di ettari d’Amazzonia, lo 0,7 dell’intera superficie. L’anno scorso, il peggiore, è sparita una parte di foresta grande tredici volte New York. E dalle foto satellitari dell’Istituto nazionale di ricerca spaziale risulta che nell’ultimo decennio la deforestazione è aumentata del 75 per cento, mentre gli incendi, sia di origine dolosa che innescati dal cambiamento climatico, in questi nove mesi del 2022 sono stati di più che in tutto il 2021.

«Un errore non sterminare gli indios»

Il presidente uscente s’è sempre schierato contro i 200 gruppi indigeni della foresta – una volta ha detto che fu un grave errore non averli sterminati come gli indiani d’America – e ha mantenuto la sua promessa di «non concedere loro nemmeno un centimetro di terra». Adesso in Amazzonia prosperano trafficanti di droga, minatori illegali, allevamenti selvaggi, caccia senza controllo. L’ong Earthsight ha denunciato come le due più grandi aziende brasiliane che esportano soia nell’Unione europea, la Bunge e la Cargill, facciano affari su immense aree disboscate che fino a cinquant’anni fa appartenevano agli indigeni Guarani Kaiowa.

Nel 2010, i giudici brasiliani hanno stabilito il diritto dei Kaiowa di tornare nelle loro terre, ma il governo non ha mai applicato la sentenza. Bolsonaro è contrario agli accordi di Parigi per ridurre il riscaldamento globale, ha abolito il ministero dell’Ambiente, vorrebbe rivedere l’articolo 231 della Costituzione che riconosce i diritti degli indios, non vuole vincoli per chi costruisce centrali idroelettriche sui fiumi amazzonici o sfrutta le miniere in aree protette, sogna un’autostrada che attraversi l’Amazzonia … leggi tutto