Ora de Raho dice: «Il dossieraggio è contro di me». Ah, come il Cav… (ildubbio.news)

di Tiziana Maiolo

L’ex procuratore antimafia, già capo della procura 
di Napoli e di Reggio Calabria, ritiene di subire 
un trattamento simile a quello che riservarono a 
tanti altri

Se Bettino Craxi non poteva non sapere, se Silvio Berlusconi non poteva non sapere, per quale motivo Federico Cafiero de Raho dovrebbe avere il diritto di non sapere quel che accadeva nel suo ufficio al vertice della direzione Antimafia nei giorni dei dossieraggi?

Se la storia politico- giudiziaria d’Italia non fosse stata pesantemente segnata da quella sorta di responsabilità oggettiva fin dalle inchieste di terrorismo, e poi durante quelle su “tangentopoli” e sulla mafia, dovremmo dire che il deputato del Movimento 5 Stelle ha le sue ragioni.

Anzi lo diciamo, ma lui dovrebbe ammettere con noi che bisognerebbe gettare secchiate d’acqua su un bel quantitativo di giurisprudenza, tutta quella caratterizzata dall’“anti”. Antimafia, antiterrorismo, anticorruzione, eccetera. E lui avrebbe tutte le ragioni non solo di prendersela con il suo ex vice Giovanni Russo e di trattarlo come un “pentito”, ma anche di accusare il procuratore di Perugia Raffaele Cantone di averlo preso di mira.

È indubbiamente successo qualcosa di strano, all’interno dell’inchiesta sul “dossieraggio”, nata in seguito all’interferenza nella vita personale e professionale del ministro Guido Crosetto, e che vede come indagati il tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano e l’ex magistrato della Dna Antonio Laudati.

Perché è capitato che improvvisamente sia “spuntato”, verbo di cui è giusto diffidare, un documento che avrebbe segnalato preoccupanti “anomalie” e invasività nell’attività di Striano. Questo documento, non protocollato né firmato, sarebbe stato consegnato, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, proprio a Cafiero de Raho dal suo allora vice Giovanni Russo, oggi direttore del Dap, il quale però, nella sua deposizione al procuratore Cantone, non ne avrebbe parlato, salvo riconoscerlo come proprio in un secondo momento.

Da dove sarebbe “spuntata” questa relazione? Da un’indagine interna alla stessa Dna condotta dall’attuale capo della Procura Antimafia Giovanni Melillo. Se stessimo parlando solo di soggetti politici e non anche di magistrati, che cosa dovremmo dire se non che è scoppiata una guerra? Guerra di toghe?

Perché dovremmo anche aggiungere che il documento è stato depositato dal procuratore Cantone al Tribunale del Riesame, dove altri giudici dovranno decidere se ha ragione lui, Cantone, a voler porre agli arresti domiciliari il tenente Striano e un’altra toga, ormai in pensione, come Laudati, o invece il gip che quella detenzione

ha negato. O addirittura i legali dei due indagati, gli avvocati Massimo Clemente e Andrea Castaldo, che vogliono azzerare o almeno rallentare il tutto, ponendo questioni rilevanti come quella del giudice naturale e la retrodatazione dell’iscrizione nel registro degli indagati. Temi su cui qualche fantasma del passato, come gli indagati di “tangentopoli” o il Silvio Berlusconi del processo Ruby, avrebbero qualcosa da ridire, a proposito di certi metodi di indagine.

L’onorevole Cafiero de Raho ovviamente è indignato. Non accetta il concetto del “non poteva non sapere”, già vagheggiato anche prima del documento “spuntato” dai forzieri della Dna. E non si capacita del fatto che si possa prestare attenzione, tanto da allegarla agli atti processuali, a una relazione non protocollata.

Evidentemente nella sua carriera di magistrato non gli è mai capitato di vedere gente sbattuta in galera non per documenti fuori protocollo, ma per i “sentito dire” di veri e finti collaboratori di giustizia, per intercettazioni volutamente male interpretate, per nomi sbagliati, a partire da quel signor Tortona scambiato per Enzo Tortora.

Ovvio che non abbia mai visto niente di tutto ciò, altrimenti non avrebbe reagito orgogliosamente come sta facendo oggi. «Non ho mai ricevuto relazioni o segnalazioni di Giovanni Russo riguardanti Pasquale Striano», dice con fierezza. La fierezza del cittadino che si sente chiamato in causa ingiustamente. Poi però va più in là, quando denuncia «mi trovo al centro di una macchinazione».

Sente vacillare anche il proprio ruolo all’interno della commissione bicamerale Antimafia, di cui è vicepresidente e in cui non vuole accettare il fatto di trovarsi in una posizione quanto meno ibrida, se non in totale conflitto d’interessi. Capisce che la ragionevolezza, prima ancora che la proposta di legge sulle incompatibilità già presentata da Forza Italia e FdI, gli imporrà molto presto di limitare le proprie presenze, se non, come sarebbe più logico, di dimettersi.

Ma non riesce ad arrendersi all’evidenza. Un po’ come il suo collega Roberto Scarpinato, che fa parte della stessa commissione Bicamerale e che continua, come i giapponesi nella giungla, ancora a polemizzare con il generale Mori. Dimenticando le sentenze.

E che Mori è una delle tante vittime dei metodi usati nei vari processi “trattativa” e affini dal mondo dell’antimafia militante di cui hanno fatto parte sia Cafiero de Raho che Scarpinato stesso.

Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini (ilmanifesto.it)

di Marinella Salvi

Scontro con la Slovenia

Respinta una mozione delle opposizioni perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita. Il tutto mentre “le due Gorizie” sono in corsa per essere – insieme – Capitale della cultura 2025

Gorizia e Nova Gorica capitali europee della cultura nel 2025. E’ la prima volta per una capitale della cultura transfrontaliera, un titolo riconosciuto a questa pianura di case giardini strade e capannoni attraversata dall’azzurro Isonzo che si incontra con il Vipacco e intorno le colline con i vigneti del Collio.

Sembra un tutt’uno ma sono due città e due nazioni diverse. Un confine sofferto, una storia ingombrante, cent’anni e più di battaglie sanguinose ma anche di convivenza e solidarietà.

Gente abituata a vivere assieme, amicizie, famiglie, impieghi, di qua e di là indifferentemente ma non manca qualche strascico fastidioso della sua storia disunita. Baci e abbracci pubblici tra i due sindaci, proclami di amicizia ad ogni piè sospinto ma ci sono stati e ci sono ancora spigoli, scivolate, cadute di gusto. Celebra la X Mas ogni anno a Gorizia e Casa Pound affigge i suoi manifesti e scende in strada con la benedizione del Comune.

Ancora D’Annunzio e i massacri titini e i territori perduti: non mancano mai i piagnistei sulle vittorie mutilate o comunque le rivendicazioni del primato italiano sul circondario slavo. Un virus che non si riesce a debellare, che corre da sud a nord lungo questo confine e ancora condiziona parole e gesti anche e soprattutto dentro le istituzioni.

Succede lunedì scorso che i consiglieri di minoranza nel Comune di Gorizia, amministrato dal centro-destra, presentino una mozione perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita a Mussolini illo tempore. Lo hanno già fatto alcuni comuni intorno a Gorizia e sembra un gesto ovvio anche per presentarsi con una faccia più pulita all’appuntamento del 2025.

La risposta del sindaco Ziberna ha i toni dell’aggressione, per più di venti minuti è un attacco violento a quella che ritiene “furia iconoclasta”. La mozione viene votata dagli undici consiglieri di minoranza, compatta la maggioranza nel bocciarla.

Protestano associazioni, gruppi, persone. La civica Eleonora Sartori che ha presentato la mozione ci mette un paio di giorni a commentare (“ho aspettato mi passasse il mal di stomaco”): “Io, e tanti con me, da tempo siamo pronti a una narrazione diversa, a un futuro davvero senza confini, non ostaggio del ‘900. GO!2025 se la merita tutto il territorio e il riconoscimento è arrivato grazie alle cittadine e ai cittadini che lo vivono ogni giorno, nonostante e non grazie alla politica. Quello che ci rimarrà non saranno i concerti, ma il significato simbolico che ha fatto sì che fossimo noi e non altri la prima capitale europea della cultura transfrontaliera. Se sarà un anno bellissimo, come credo, lo sarà non per gli eventi o per tutto ciò che verrà organizzato grazie ai tantissimi soldi stanziati, ma per ciò che abbiamo saputo costruire assieme prima e meglio delle istituzioni.”

Ancora una volta, anche la Slovenia fa sentire la propria delusione.

Il ministero degli esteri sloveno, guidato da Tanja Fajon, stigmatizza la scelta fatta dal Comune di Gorizia che vive come un tentativo di «approfondire le divisioni, relativizzare i fatti storici e sfruttarli per scopi politici quotidiani» e che getta ombre anche su Go!2025.

La Slovenia, ribadisce, è impegnata a «superare le divisioni storiche, a promuovere la cooperazione e la convivenza tra popoli e culture, specialmente nelle aree che hanno sperimentato per prime la brutalità del regime fascista».

Durissimo il sottosegretario di stato al ministero della cultura Marko Rusjan: “La questione non è chi si trova dalla parte del confine, ma chi si trova dalla parte sbagliata della storia. I partigiani sloveni, jugoslavi e italiani cooperarono e insieme sconfissero il male del fascismo in Europa. Da allora, generazioni di vicini su entrambi i lati del confine hanno vissuto in pace. Tra pochi mesi avrà inizio Go!2025, un progetto congiunto delle due città che porta esattamente questo messaggio di convivenza” per poi concludere: “Insieme abbiamo già sconfitto i fascisti una volta. E non permetteremo che le loro brutte copie nel 21° secolo relativizzino la storia che ha causato tanta miseria e che è stata superata grazie agli sforzi delle masse su entrambi i lati del confine”.

Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini

Abbiamo usato i fatti di Amsterdam solo per confermare le nostre opinioni (rivistastudio.com)

di Bruno Montesano

Troppo impegnati a decidere se si è trattato di 
semplici risse o di nuovo pogrom, ci siamo persi 
la verità: da un anno è in atto una sorta di 
"scontro di civiltà", 

una guerra dalla quale usciremo tutti sconfitti.

Ad Amsterdam dei tifosi ebrei israeliani del Tel Aviv Maccabi hanno cantato cori a favore del genocidio del popolo palestinese (“olé, olé, facciamo vincere l’Idf, fotteremo gli arabi”, “non ci sono più ospedali perché non ci sono più bambini a Gaza”).

Questi hooligan – che avevano già pestato alcuni mesi fa una persona che portava la bandiera palestinese ad Atene – hanno anche attaccato un tassista. E non hanno rispettato il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Valencia in “protesta” per la posizione del governo spagnolo a favore di uno Stato palestinese.

La risposta di alcuni tassisti olandesi solidali con il collega e altri abitanti – e non degli ultras dell’Ajax, come inizialmente si diceva – è stata quella di attaccare tutti i tifosi ebrei israeliani in città, spesso con insulti antisemiti, in quella che alcuni hanno chiamato “caccia all’ebreo” (Jodenjacht). Cinque tifosi sono finiti in ospedale e tra le venti e le trenta persone hanno riportato ferite lievi.

Sembrerebbe che, da un lato, alcuni cittadini olandesi stessero preparando una protesta contro il massacro israeliano nella Striscia di Gaza e, dall’altro, che questa, dopo le violenze dei tifosi del Maccabi, sia sfociata in forme di razzismo antiebraico-israeliano. Un conto infatti sarebbe stato rispondere, anche con la violenza, ai tifosi razzisti israeliani.

Ma quello che è successo è stato diverso: gli assalitori hanno fermato persone per strada, chiedendo loro il passaporto, per poi aggredire il malcapitato se risultava israeliano qualificandolo come “cancro ebreo” (kanker joden). Inoltre, il 12 novembre, in una città in stato di emergenza e con i tifosi del Maccabi già tornati a casa, ci sono stati scontri con la polizia al grido di “ebrei di merda”.

I media italiani – e l’estrema destra internazionale, da Geert Wilders a Giorgia Meloni passando per Benjamin Netanyahu – hanno colto la palla al balzo e si sono messi a parlare di pogrom e di “Notte dei cristalli 2.0”: i fatti di Amsterdam si sono verificati, infatti, il giorno prima della giornata in ricordo della Notte dei cristalli del ’38.

Come al solito, alcuni ambienti della sinistra, invece di denunciare la strumentalizzazione islamofoba dell’accaduto e fare i dovuti distinguo, si sono messi a parlare sui social network di resistenza antifascista contro i nazisionisti.

Ci sono andati di mezzo altri civili israeliani innocenti, compresi dei minori? Sono marginali vittime collaterali, si risponde. À la guerre comme à la guerre, e poi “israeliani innocenti” è un ossimoro: sono tutti coloni, dagli zero ai novant’anni (come mostra il 7 ottobre).

Speculare – e certo più potente e diffusa – è stata la facilità con cui i media italiani hanno scritto che sono stati dei musulmani ad attaccare degli ebrei. Così come il riflesso pavloviano di riportare tutto al nazifascismo, come fatto, ad esempio e ovviamente, dal Foglio o come scritto da Ernesto Galli della Loggia, che non aspettava altro che avere un nuovo evento per chiedersi se “possiamo essere islamofobi davanti a questi eventi?” e rispondersi con un soddisfatto sì.

Ma il frame dello scontro di civiltà vale anche al contrario: all’islamofobia della destra si risponde troppo spesso con una minimizzazione sistematica dell’antisemitismo. La punizione collettiva degli ebrei israeliani ad Amsterdam (e non dei razzisti ebrei antipalestinesi) infatti rimanda a una logica di blocchi.

È il noi contro loro. L’estrema destra non aspetta altro, e infatti cavalca questa storia. Chi dice che ad Amsterdam sia andata in scena la resistenza partecipa allo stesso modo alla partita: è dell’altra squadra, ma partecipa. È un anno che assistiamo a questo gioco ed è evidente che non fa avanzare nessuno.

Anche la posizione degli ebrei è scivolosa, presi come sono tra due fuochi. Alcune rappresentanze delle comunità ebraiche parlano dell’insicurezza di vivere in Europa. Netanyahu e altri governi di destra gridano al pogrom mentre continuano a discriminare musulmani e migranti. I postfascisti si atteggiano ad amici degli ebrei per rilegittimarsi.

Al contempo, la questione dell’antisemitismo, a sinistra, è costantemente rimandata, venendo considerata sempre e solo come un problema di strumentalizzazione e mai come un fenomeno reale e in crescita. Questa logica bellica, di scontro frontale, è comune a molte discussioni.

La destra o il mainstream accusano di qualcosa qualcuno (la sinistra o i soggetti da questa difesi) e parte della sinistra risponde, in modo automatico, difendendo la propria parte senza alcun cedimento e ribaltando simmetricamente il punto di vista dell’avversario. Non c’è terreno possibile di dialogo, tutto – sia i fatti che le interpretazioni – diventa un’arma nello scontro.

Un esempio possibile, tra i tanti, che dimostra il funzionamento di questo meccanismo è un episodio avvenuto a Parigi nel 2018. In quell’occasione alcuni gilet jaunes hanno attaccato il filosofo neoconservatore Alain Finkielkraut al grido di “sporco sionista torna a Tel Aviv”.

Ma Finkielkraut, anche qualora accettassimo questa logica, non dovrebbe “tornare” in alcun Paese essendo un ebreo francese, non israeliano. Andrebbe attaccato per le sue idee ripugnanti e islamofobe, e non come uno “straniero” nella nazione di cui ha la cittadinanza. Non si attacca la persona giusta con i metodi sbagliati.

Intimare ad un cittadino di una minoranza di andare nel “proprio” Paese è un’azione razzista. “Torna in Israele, noi siamo il popolo” vuol dire infatti che il cittadino francese Finkielkraut non è considerato un vero cittadino e che il suo diritto alla residenza dipende da come la pensa e da cosa fa. Ma se si fosse trattato di un estremista di destra francese, non appartenente a una minoranza, non gli si sarebbe potuta dire la stessa cosa.

È tempo che quel che resta della sinistra affini le sue analisi su antisemitismo e antisionismo – ma il catalogo sarebbe lungo – così da accettare la propria mancanza di purezza. Antisemitismo e antisionismo non coincidono affatto, ma il secondo non esclude il primo. Per questo la Jerusalem Declaration sull’antisemitismo è meglio della IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) adottata da diversi governi europei, tra cui il nostro.

E se degli ebrei negano che l’antisemitismo a sinistra esista non vuol dire che ciò sia vero. Per ragioni strategiche alcune parti della sinistra decidono di sorvolare sulle proprie contraddizioni, come l’antisemitismo, ma così facendo, oltre a viziare la bontà dei loro fini con mezzi sbagliati, non riusciranno neanche a raggiungere l’esito atteso.

Non riconoscendo il nucleo di verità nelle ragioni dell’altro, solo lo scontro potrà risolvere la contesa. Ma in uno scontro di civiltà così pervertito e ribaltato vince comunque chi ha più forza.

E, di solito, purtroppo non è la sinistra.

 (Foto di Jeroen Jumlet/Anp/Afp via Getty Images)

Licia Rognini Pinelli aveva una storia da raccontare. E non era soltanto sua (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È morta a Milano, a 97 anni, la moglie dell’anarchico che il 15 dicembre 1969 morì dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano

“Una storia quasi soltanto mia”, con questo titolo Licia Rognini Pinelli l’aveva raccontata a un nostro carissimo compagno e amico, Piero Scaramucci. In quella riserva, “quasi”, stava la condivisione di tanta parte della gente italiana, di chi allora c’era e di chi ancora non c’era e ha saputo, ha voluto sapere.

Avrebbe ricordato, Licia: “Il libro, edito inizialmente da Mondadori, nel 1982, venne mandato al macero poco tempo dopo la sua uscita”. E’ stato ripubblicato da Feltrinelli, nel 2009, e più volte da allora.

Lei, le sue figlie, i nipoti, le amiche, gli amici, non stava tutta in quella storia. Scrisse ancora di sé, per l’Enciclopedia delle donne, e intitolò così: “Dopo”. Con una domanda “che mi ronzava continuamente nella testa: ‘Che senso ha la vita’… Anche da bambina, quando sognavo di diventare medico e di curare la gente, ‘pensavo’ che sarei rinata più volte e sarei diventata più persone”.

Scrisse anche dell’udienza del 2009 dal presidente Napolitano, apprezzandone “l’umanità e la semplicità”. Aggiungendo: “In quella occasione il Presidente disse cose che avrei voluto sentire molti anni prima”.

Dopo, più di mezzo secolo dopo, appena un mese fa, il Comune di Milano ha annunciato che la grande, magnifica opera di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, sarà esposta in permanenza al pubblico nel Museo del Novecento. C’è bisogno di molto tempo, infatti. A volte non basta.

“Adesso il testimone è passato alle mie figlie”, scrisse anche. Silvia e Claudia. Ora è successo. Licia è morta, a casa sua, come voleva. Aveva chiuso il suo libretto di allora con una frase letta una volta su un poster: “Alla fine della vita ciò che conta è aver amato”. E lei è stata amata.

Succede che non si abbia più spazio per ciò cui non si vuol bene, e lo si riservi intero alle persone e alle cose cui si vuol bene. E si sia grati di condividere con loro il mondo che si abita. Licia Rognini Pinelli lo ha abitato, ha continuato ad abitarlo, fino alla vigilia dei suoi 97 anni.

Forse, probabilmente, fin troppo a lungo per lei. Vorrei – ci credo – che abbia sempre ricordato che cosa la sua vita volesse dire per tante, tanti altri. Ho appena visto il titolo di un’agenzia: “Piazza Fontana: morta a Milano Licia Pinelli”. Involontario, naturalmente, e involontariamente efficace. Milano, Piazza Fontana, 55 anni dopo.

Quest’anno il 15 dicembre sarà più caldo, apriremo tutte le finestre.

(Licia Rognini Pinelli con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – foto Ansa)

Quel grumo mediatico-giudiziario che l’ha giurata a Chiara Colosimo (ildubbio.news)

di Davide Varì

La presidente della Commissione antimafia ha osato 
chiedere un passo di lato a De Raho e Scarpinato e 
ora Il Fatto di Travaglio tira fuori i “dossier” 
sullo zio

Aveva previsto tutto, Chiara Colosimo: aveva messo in conto il fango dei giornali allineati con un pezzo di magistratura italiana, e l’attacco politico di chi, in Parlamento, difende le rendite di posizioni di quel grumo di potere giudiziario.

Nulla di nuovo: è il prezzo che paga chiunque provi a ficcare il naso in “cose che non lo riguardano”.

Parliamo del romanzo delle stragi mafiose, naturalmente. Di un racconto nato sulla scia della presunta “trattativa Stato-mafia” che – smontato capitolo dopo capitolo dalle sentenze di questi ultimi anni – inizia a far acqua da tutte le parti.

E ora, chi prova a riscrivere quel racconto, rischia grosso.

Anche se lo fa coi documenti di chi morì sotto il fuoco mafioso. E parliamo di quel Paolo Borsellino che, nei file desecretati da Colosimo dopo 32 anni di buio pesto, indica in modo inequivocabile il dossier Mafia-Appalti come l’origine della morte di Falcone e – drammatico ma lucidissimo premonitore – la causa della sua stessa fine.

Dunque Chiara Colosimo ha osato rimuovere la polvere – meglio, la sabbia – che in questi anni si è posata sul dossier Mafia-appalti, e subito è scattato l’attacco. Il Fatto Quotidiano ha colpito con le solite “scottanti rivelazioni” che sanno di muffa, rispolverando vecchie storie già viste, già consumate. Come la famosa foto con l’ex militante dei Nar Ciavardini, tirata fuori per l’ennesima volta come se fosse la prova di chissà quali legami indicibili.

E poi, come da copione, arriva l’affondo, lo “scoop” che “nessuno si aspetta” uscito da chissà quale cassetto: il vecchio zio di Colosimo dimenticato da anni. E sì perché quando non c’è più nulla da scavare, allora si passa al famigerato “reato di parentela”. Ed ecco spuntare dal passato uno zio e i suoi presunti rapporti con la ‘ndrangheta.

L’attacco ha un tempismo quantomeno sospetto, solo poche settimane fa la presidente della Commissione Antimafia ha osato chiedere “chiarimenti” sul ruolo di due figure particolarmente rilevanti: gli ex procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato. I due hanno lavorato per anni su inchieste e dossier che la Commissione ora intende riesaminare e scandagliare. Naturalmente chi ha condotto indagini in prima persona si trova ora in una posizione di chiarissimo conflitto di interesse che Colosimo ha osato sottolineare. Una lesa maestà intollerabile.

E allora, come spesso accade in Italia, alla prima mossa di chi mette in discussione il potere dell’Antimafia “ufficiale”, si risponde con la macchina del fango. Il messaggio è chiaro: chi tocca i fili è “fuori”.

Il punto è che la presidente Colosimo sta provando a restituire alla Commissione Antimafia il ruolo di organismo politico e di controllo che dovrebbe avere. Ha l’ambizione di renderla autonoma e libera dal ruolo di “ancella” delle procure. Tutto questo per scrivere una nuova storia della mafia e dell’antimafia.

Già, proprio così: Chiara Colosimo è accusata di voler riscrivere la storia dei rapporti tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni. Tutte le istituzioni, procure comprese (vedi la recente, pesantissima indagine che ha colpito gli ex magistrati Pignatone e Natoli). E Colosimo vuol riscrivere quel romanzo perché le sentenze hanno dimostrato che la ricostruzione offerta dalla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” era del tutto inadeguata a spiegare le stragi del ’92-’93. E qui torniamo al dossier “Mafia-appalti” che molti vorrebbero archiviare per sempre.

Ora ci chiediamo: chi ha paura di quel dossier? E perché c’è una parte della magistratura che resiste? Non abbiamo risposte, non ancora almeno.

Ma nessuno si illuda: alle domande, noi, non rinunceremo mai.