Un tratto nero. Verso il 40° anniversario della Strage di Bologna. Intervista a Paolo Bolognesi (articolo21.org)

di DONATO UNGARO

«Hanno depositato solo cartacce, pensi che 
per la Strage di Piazza della Loggia buona 
parte dei documenti “segreti” depositati sono 
di fatto una rassegna stampa. 

I governi Renzi e Gentiloni si sono dimostrati insensibili; non sono mai riuscito neanche a farmi ricevere dall’allora Premier Paolo Gentiloni…».
È un fiume in piena, Paolo Bolognesi, Presidente dell’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980.

A mandare su tutte le furie l’ex Deputato, i file consegnati dai servizi segreti agli archivi pubblici e alle associazioni che si battono per trovare la verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia del dopo-guerra, fino agli anni Ottanta. L’abbiamo raggiunto al telefono proprio mentre riceveva da Roma la notizia che il prossimo 30 luglio il Presidente Mattarella sarà a Bologna, per commemorare i quarant’anni delle stragi di Ustica e della Stazione.

«Abbiamo ricevuto pagine e pagine di documenti “pecettati”, con tratti neri sui nomi dei protagonisti di interrogatori e comunicazioni; materiale inutilizzabile. Abbiamo chiesto che ci venissero forniti i curriculum dei terroristi, ma ci è stato risposto che la Direttiva Renzi, quella che doveva autorizzare la desecretazione, prevedeva che fossero fornite informazioni sugli eventi; e non sui nominativi».

Il Segreto di Stato dovrebbe decadere dopo trent’anni, ma per le stragi questa scadenza non è stata automatica; come avete ottenuto il deposito dei documenti?

«Ci siamo costituiti come associazioni, per chiedere che venisse rimosso il Segreto di Stato e ‘solo’ nel 2014 l’abbiamo ottenuto; sono passati 34 anni, dal 2 agosto 1980. Hanno costituito un Comitato a cui non sono state chiamate a sedere le associazioni dei familiari; e hanno deciso cosa doveva essere desecretato e cosa no. Così, alla fine, hanno depositato solo cartacce. Nel 2017 abbiamo elaborato una richiesta in dieci punti, per avere tutto il materiale necessario a perseguire la verità; e oggi ci troviamo in mano documenti in cui sono stati coperti nomi e cognomi. Cosa ce ne facciamo?» … leggi tutto

#19luglio1992 Non c’è futuro senza memoria (articolo21.org)

di PAOLO BORROMETI

“Non c’è futuro senza memoria” perché “se 
comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. 
Parafrasando Primo Levi, il significato del 
19 luglio è tutto in questi concetti.

Alle 16:58 del 19 luglio del 1992 una macchina rubata, con dentro 90 chili di esplosivo, spezzò la vita del Giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Il dottor Paolo Borsellino era l’obiettivo dichiarato dopo la morte di Giovanni Falcone. Eppure, dopo 57 giorni dalla strage di Capaci, ci fu la strage di Via D’Amelio. Tutti sapevano che fosse “il prossimo” ma nessuno impedì che, sotto casa della madre, fossero parcheggiate le macchine (tanto per dirne una). Quella fu un’immensa sconfitta per tutto lo Stato.

E da quel giorno, più che ricercare la verità, siamo stati costretti a inseguire i depistaggi per nascondere quella che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, chiama la “strage di stato”. Una verità sempre più scottante, giunta al quarto processo ed al primo per i poliziotti che si sarebbero macchiati del depistaggio più grave della storia.

Misteri su misteri, come la scomparsa dell’Agenda rossa, da allora mai ritrovata e, come dice Salvatore Borsellino, “sottratta da mani di funzionari di uno Stato deviato e che giace negli archivi grondanti sangue di qualche inaccessibile palazzo, e non certo nel covo di criminali mafiosi”. Domande su domande … leggi tutto

Paolo Borsellino implorò ascolto nei 57 giorni da Capaci a via D’Amelio (agi.it)

di

L'arco di tempo dalla strage in cui morì il 
giudice Falcone al 19 luglio 1992 è cruciale per 
la comprensione della molla che spinse Cosa Nostra 
a uccidere Borsellino.

“Borsellino in quei 57 giorni implorava di essere ascoltato e non si trovò il tempo”. Così l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del giudice Paolo Borsellino, è intervenuto in qualità di parte civile nel processo in corso davanti la corte d’Assise di Caltanissetta, in cui il pm Gabriele Paci ha chiesto l’ergastolo per il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle Stragi del ’92.

Nei giorni successivi all’attentato di Capaci del 23 maggio – in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti delle scorte – l’obiettivo successivo di Cosa Nostra era diventato l’ex ministro Calogero Mannino. “Noi dovremmo capire perchè Totò Riina decise di virare su Borsellino”, ha aggiunto l’avvocato Trizzino alla corte presieduta dal giudice Roberta Serio.

“Nessuno ci raccontò in quegli anni l’attività che veniva condotta da due militari del Ros, sganciati da alcuna guida – ha continuato il legale – e noi abbiamo un giudice che in quei giorni implorava di essere ascoltato e non si trovò il tempo. Dal 24 maggio al 19 luglio voleva parlare con la Procura di Caltanissetta per dare il suo contributo, ma non fu mai ascoltato. Gli danno un magistrato di collegamento, il povero compianto dottor Vaccaro, ma che gli si affianchi un magistrato proveniente da Messina a colui il quale aveva istruito il Maxiprocesso mi sembra…niente, non è stato ascoltato, Paolo Borsellino“.

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A 50 anni dalla Rivolta di Reggio Calabria, il moto popolare più vasto della storia (dire.it)

Tutto ebbe inizio il 14 luglio 1970, in 
occasione del primo sciopero generale indetto 
per contestare la decisione del governo che 
indicava Catanzaro quale capoluogo 
della Calabria

La memoria inizia ormai a sbiadire, i reggini pero’ sono ancora sensibili alle emozioni che 50 anni fa riusci’ a suscitare la Rivolta di Reggio Calabria, tanti ancora ricordano e testimoniano quanto accadde in quel periodo. Risalire alle origini di quella sommossa popolare, guardare cosa sia cambiato dalla realta’ di allora e’ il modo ideale per comprendere i sentimenti e la rabbia di quei giorni”. Cosi’ il coordinatore del comitato civico per il 50esimo anniversario della Rivolta Giuseppe Agliano, gia’ consigliere comunale di Reggio Calabria e assessore comunale dal 1995 al 2011.

“Si tratta di un periodo storico che bisogna considerare come un valore per l’intera nostra comunita’ – aggiunge Agliano – da trasmettere alle generazioni future, come esempio di una dignitosa reazione da parte della citta’ ad un grave torto subito. La Rivolta rappresenta il piu’ vasto moto popolare della storia Repubblicana italiana, la prima rivolta identitaria d’Europa.

Tutto ebbe inizio il 14 luglio 1970, in occasione del primo sciopero generale indetto per contestare la decisione del governo che indicava Catanzaro quale capoluogo della Calabria, e dura, con varia intensita’, fino al settembre 1971 con strascichi che arrivarono al 1973 ma le sue conseguenze si protrassero per molto tempo”.

Motivo scatenante della rivolta “fu, solo in apparenza, la sottrazione del capoluogo. Tuttavia – ricorda Agliano – le ragioni non possono essere ridotte ad una semplice questione campanilistica o, come si disse, di ‘pennacchio’. Cio’ che la citta’ rivendicava era considerato un diritto inalienabile, che derivava da una storia millenaria, consapevole che il rischio era quello di perdere l’ultimo treno in direzione dello sviluppo” … leggi tutto

La Rivolta di Reggio Calabria: Filmato inedito a colori (1970)

Intellettuali in fuga dall’Italia fascista (intellettualinfuga.fupress.com)

di Patrizia Guarnieri

Chi erano?

La fuoriuscita dall’Italia durante il ventennio riguardò solo alcuni dei quasi cento professori ordinari e straordinari che, dichiarati di “razza non ariana”, furono ufficialmente espulsi dalle università del Regno a seguito delle leggi del 1938. Sono loro i meglio identificabili dalla documentazione istituzionale , che nulla ci dice però di cosa fecero dopo.

Di problematica individuazione e più numerosi invece, anche nella scelta forzata di espatriare, i non accademici il cui allontanamento avvenne in modo quasi invisibile. Perciò è assai complicato rintracciarne i nominativi e i movimenti: personale docente di varie qualifiche che venne “dispensato dal servizio” o risultò “decaduto”, scienziati, artisti e studiosi con incarichi temporanei che semplicemente non vennero rinnovati, professionisti allontananti dalle aziende o radiati dagli Albi le cui attività in corso vennero attribuite ad altri di “razza ariana”, studenti che conseguita la maturità liceale non potevano iscriversi a nessuna università, neolaureati che non potevano cercarsi un lavoro.

Quasi tutti erano ebrei, praticanti o meno, non necessariamente antifascisti. Anche gli “incompatibili” con le direttive del fascismo, solo alcuni ebrei, erano soggetti a venire sospesi per le loro idee, oltre che isolati nel loro stesso ambiente di lavoro, e spiati, minacciati, imprigionati o peggio.

Degli intellettuali di entrambe le categorie, ma in realtà soprattutto di ebrei si occuparono le principali organizzazioni che dagli anni Trenta del Novecento si dedicarono ad assistere, dichiaratamente senza distinzioni di razza o di religione, quelli che vennero denominati displaced scholars. Lo erano dalla Germania anzitutto, poi anche da altri paesi inclusa l’Italia. … leggi tutto