Con Scarpinato il partito di Grillo è diventato garantista e berlusconiano… (ilriformista.it)

di Piero Sansonetti

L'ex magistrato, il depistaggio Scarantino e la 
casa all'imputato

Roberto Scarpinato, ex magistrato e oggi esponente di punta dei grillini, si è un po’ indignato per la risposta leggermente sprezzante che Giorgia Meloni ha dato, in sede di replica, al suo intervento al Senato (che per la verità era piuttosto sconclusionato).

Dice Scarpinato – in una intervista alla Stampa – che Giorgia Meloni ha sbagliato due volte: nel definirlo giudice perché lui è stato sempre e solo Pm, e nell’accusarlo di essere responsabile del depistaggio (col falso pentito Scarantino) nelle indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Poi ha aggiunto di essere stato lui ad avere “smascherato il depistaggio”.

Ha ragione Scarpinato? Ha ragione nel dire che non è mai stato giudice e di non essere responsabile del depistaggio (ma Meloni non ha attribuito a lui quel depistaggio ma ad alcuni settori della magistratura palermitana. In effetti il depistaggio coinvolse il Procuratore Tinebra e anche il giovane Di Matteo, ma non Scarpinato). Che però sia stato lui a smascherarlo è del tutto falso.

Fu la procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Lari, che si accorse nell’inguacchio e chiese alla Procura generale di Palermo di sospendere le pene alle persone innocenti vittime del depistaggio. La Procura generale (cioè Scarpinato) non poteva che dare seguito alla richiesta di Lari. Nessun ruolo di Scarpinato nello smascheramento. Nel seguito dell’intervista Scarpinato propone altre due tesi che meritano un breve commento.

Chiede: “Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?” Stupisce il fatto che Scarpinato parli di Borsellino. Perché è stato proprio lui, poche ore dopo la morte di Borsellino, a chiedere l’archiviazione del dossier mafia-appalti, avviato da Falcone e sul quale Borsellino voleva indagare.

Vi sembra che chi ha archiviato quel dossier sia l’uomo giusto per onorare Borsellino? Le mancate indagini su quel dossier sono state un danno probabilmente irreparabile al lavoro di chi tentava in quegli anni di colpire la mafia. Tanto che oggi, finalmente, proprio la Procura di Caltanissetta (la stessa che smascherò Scarantino) ha aperto una indagine su quella dannata archiviazione.

Vuole capire bene perché fu fatta e che danni provocò. Attenti, per carità, a usare la parola smascherare… Infine l’ultima battuta dell’intervista di Scarpinato è contro Nordio accusato di voler restituire alla polizia giudiziaria l’indipendenza che oggi non ha, rendendo in questo modo più libere ed equilibrate le indagini.

Oggi la polizia giudiziaria è interamente nelle mani del Pm (che si sceglie gli uomini che dovranno indagare) ed è costretta ad obbedirgli, a seguire la strada che il Pm indica e a lavorare a favore delle sue tesi. Una follia, degna davvero degli Stati autoritari.

P.S. Ma Scarpinato, sebbene non sia stata smentita la notizia sull’acquisto, qualche anno fa, a un prezzo piuttosto alto, di un appartamento di cui era comproprietario, da parte di un suo ex imputato (assolto su sua richiesta) resta un esponente di punta dei 5 Stelle.

Sebbene nessun articolo del codice penale proibisca a un magistrato di fare affari con i propri imputati, e dunque non c’è il reato, eravamo tutti convinti che il codice etico del partito di Grillo non considerasse accettabili simili comportamenti e dunque procedesse contro Scarpinato, allontanandolo dal gruppo parlamentare. Invece lo hanno fatto capogruppo.

Forse, all’improvviso, sono diventati tutti garantisti e anche un po’ berlusconiani…

Nel crepuscolo della storia: gli anni di Putin a Dresda (valigiablu.it)

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«Cuore ardente, mente fredda e mani pulite», 

recitava il famoso motto di Felix Dzeržinskij, l’ascetico sterminatore, fondatore della Čeka, la sanguinaria polizia segreta bolscevica, antenata del meglio noto Kgb e della Stasi tedesco-orientale. «Un buon comunista è un anche buon čekista», rispose lapidario Lenin a chi dei suoi, inorridito dalla ferocia, gli rammentava che i guardiani della rivoluzione non erano esattamente dei gentiluomini, ma un’«organizzazione costellata di elementi criminali, sadici, degenerati».

Attorno alla figura di Dzeržinskij si sviluppò un culto professato nel mondo dei servizi segreti comunisti fino alla rimozione della sua statua davanti alla Lubjanka nell’agosto 1991. In Unione Sovietica come nei regimi del cosiddetto socialismo reale installati dal Cremlino nell’Europa orientale, il čekismo diventò una sorta di sottoprodotto dell’ideologia marxista-leninista, che serviva a legittimare il potere repressivo degli apparati di sicurezza.

Più che una dottrina, il čekismo era per la verità un modo di essere e di pensare nella dimensione di guerra civile di classe ideologicamente invocata, un corredo di “valori” e precetti che dovevano essere propri di una speciale categoria di compagni, incaricati di proteggere la dittatura del partito da ogni insidia, soldati ideologici dotati di consapevole disciplina, passione, ardimento, lealtà, spirito di sacrificio e devozione alla causa, mossi dal più profondo e inflessibile sentimento di odio quale prerogativa essenziale nella lotta contro il nemico di classe.

Nella Germania orientale, il capo della Stasi Erich Mielke impose il canone del čekista anti-intellettuale e sempre vigile, provvisto del “sesto senso proletario”, che gli consentiva di riconoscere e scovare il nemico in ogni circostanza.

La spada e lo scudo: il fascino discreto del čekismo

Si può dire che il čekismo esprimesse le componenti peggiori della “cultura” del comunismo sovietico: la legittimazione del ricorso a ogni mezzo e violenza potesse risultare utile al trionfo del socialismo, in spregio a qualsiasi morale (borghese), la manipolazione della verità nell’interesse del raggiungimento di un bene superiore, l’intolleranza verso ogni forma di pluralismo e autonomia sociale.

Eppure, il “mestiere” del čekista esercitava un certo fascino, considerato il fatto che gli ipertrofici apparati di sicurezza dei paesi comunisti non ebbero mai difficoltà a rimediare personale. A interessare i giovani aiutavano, oltre alla mirata propaganda nelle scuole, i libri di spionaggio e film patriottici come Ščit i meč (“La spada e lo scudo”), una miniserie per il grande schermo prodotta nel 1968 e diretta da uno dei più popolari cineasti sovietici,

Vladimir Basov. Il film raccontava la storia dell’agente Alexander Belov, che nel 1940 veniva mandato nella Germania nazista per carpire informazioni su di un possibile attacco tedesco all’Urss. Grazie alle sue capacità mimetiche e di fine manipolazione, ai nervi d’acciaio e alla perfetta padronanza della lingua tedesca, Belov riusciva ad infiltrarsi e a fare carriera nel servizio segreto delle SS, procurandosi così l’accesso a informazioni sensibili di vitale importanza per sconfiggere il nazismo.

La spada e lo scudo, pellicola che rese famoso Stanislav Ljubshin con l’interpretazione del protagonista, riscosse un notevole successo, entusiasmando soprattutto il pubblico più giovane. Fra questi pare vi fosse anche un ragazzino poco più che adolescente, figlio di una coppia di operai di Leningrado che abitava in un’umile kommunalka.

Piccolo di statura e piuttosto gracile di corporatura, la sua passione erano la box e il judo. Nel 1968, dopo aver visto le quattro puntate del film di Basov, se ne aggiunse un’altra, quella per le cloak-and-dagger operations, come dicono gli inglesi, le operazioni coperte e lo spionaggio. Voleva arruolarsi subito bel Kgb, racconterà in seguito, gli dissero di tornare più avanti. Prima era meglio che studiasse, magari giurisprudenza. Così fece.

La famiglia Putin in riva all’Elba

Quando giunse a Dresda, nell’agosto 1985, Putin era un capitano del Kgb di 33 anni in forza al Primo Direttorato, struttura preposta alla ricerca informativa all’estero, in altre parole: spionaggio internazionale. Era stato arruolato dieci anni prima, appena terminati con successo gli studi di diritto internazionale alla Facoltà di Legge dell’Università statale di Leningrado.

Aveva fatto la scuola di addestramento e ora era alla sua prima missione all’estero. Da meno di due anni era sposato con la hostess dell’Aeroflot Ljudmila Škrebneva, dalla quale aveva avuto una prima figlia, Masha, ed erano in attesa della seconda, Katja.

A Dresda prese servizio nella piccola residentura del Kgb in Angelikastraße 4, un nucleo di appena 8 funzionari, assai più piccola della residentura di Berlino-Karlshorst, che era la più grande a ovest dell’Urss, dove vi lavoravano più di 1000 funzionari … leggi tutto

(A sinistra: novembre 1987: Putin riceve la spilla d’onore della Società di amicizia tedesco-sovietica alla presenza del generale Horst Böhm, capo della Stasi a Dresda (®BStU). A destra: tesserino della Stasi (fronte e retro) a nome del maggiore Putin. È stato ritrovato nell’archivio distrettuale della Stasi a Dresda nel dicembre 2018. Contrariamente a quanto viene spesso detto, non vuol dire che Putin fosse anche un agente della Stasi, ma che questo tesserino consentiva all’ufficiale del Kgb Putin di accedere liberamente alle strutture della Stasi.)