I primi passi della comunità europea sulle ceneri delle tragedie globali (linkiesta.it)

di

Mondo aperto

In “La grande incertezza” (Mondadori), Nathalie Tocci racconta l’importanza del percorso d’integrazione intrapreso dal nostro Continente a partire dal Secondo dopoguerra.

Un progetto che ha permesso di voltare pagina dopo decenni di violenze e catastrofi

La maggior parte dei cittadini italiani ed europei è nata e vissuta in un mondo aperto. L’Italia e l’Europa occidentale del dopoguerra voltarono le spalle a secoli di violenze, ingiustizie e atrocità. Si chiuse la tragica pagina della prima fase del secolo breve, «l’età della catastrofe», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, che vide due guerre mondiali, carestie, genocidi, la Grande Depressione, totalitarismi e rivoluzioni.

Avendo toccato il fondo, l’Europa si risollevò, dando vita al progetto di pace più longevo, innovativo e trasformativo mai sperimentato, per certi versi il più rivoluzionario nella storia delle relazioni internazionali. È facile dimenticarlo o darlo per scontato, ma siamo le prime generazioni di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno vissuto direttamente una guerra. La osserviamo, sempre più spesso, in televisione, alla radio e sui nostri cellulari. Ma non sappiamo realmente cosa sia.

L’integrazione europea nacque dalle ceneri di queste tragedie concatenate. Come scrisse saggiamente nelle sue memorie uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet: «L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni a queste crisi».

La previsione di Monnet si rivelò non solo acuta, ma anche sorprendentemente accurata, soprattutto negli ultimi decenni. Era innestata nel seme che diede vita alla Comunità economica europea: essere stata la soluzione che aveva permesso agli europei di voltare pagina dopo la seconda guerra mondiale, la più grande catastrofe che siamo stati capaci di infliggere a noi stessi.

Il progetto di integrazione fu certamente il frutto di idealismo, di valori e di progresso: consolidare la democrazia e rendere la guerra materialmente impossibile tra i paesi europei; un obiettivo fortemente voluto e avallato anche dagli Stati Uniti, che nel frattempo si erano legati a doppio filo all’Europa attraverso il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, il cui Trattato fondativo fu firmato nel 1949 a Washington.

Ma fu anche (e questa è la storia più scomoda, spesso ignorata dagli studiosi europei così come dalla politica di quegli anni) un modo per gestire la decolonizzazione dando vita a qualcosa di più grande dello Stato-nazione, che avrebbe permesso agli ex imperi europei di continuare a proiettare la loro «grandezza» al di là dei confini nazionali, o perlomeno a sperare di farlo.

Inizialmente si era tentata la via diretta. Lo stesso Monnet, all’epoca commissario generale per il piano di modernizzazione della Francia, propose nel 1950 una difesa europea al suo primo ministro, René Pleven, che a sua volta presentò quello che divenne noto come il Piano Pleven al Parlamento francese e successivamente alle democrazie dell’Europa occidentale. Il concetto di fondo ruotava attorno all’obiettivo strategico, anzi esistenziale, di assicurare che il riarmo tedesco venisse blindato in una cornice europea.

Il piano prevedeva, infatti, la creazione di un esercito comune di centomila uomini, costituito da battaglioni di sei paesi europei, inclusa la Germania occidentale, posti sotto il comando supremo della Nato. Integrando gli eserciti europei, questi non sarebbero stati più in grado di scendere in guerra gli uni contro gli altri. Il Piano Pleven diede vita al Trattato sulla Comunità

di difesa europea, che però, nonostante la ratifica degli altri Stati europei, si infranse sul rigetto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Il risultato fu paradossale, data la genesi francese dell’iniziativa, ma, a ben vedere, non lo era. La seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista erano finite da meno di un decennio.

Basti pensare al risentimento ancora a fior di pelle tra i paesi europei generato dalla crisi del debito sovrano per rendersi conto che la memoria e il terrore dei conflitti erano ancora troppo vivi, e la sovranità riconquistata troppo giovane per cederla proprio nell’ambito più strategico ed esistenziale di uno Stato: la difesa.

Tuttavia, i padri fondatori non demorsero, trovando una via indiretta per raggiungere lo stesso scopo. Mettendo a fattor comune le industrie del carbone e dell’acciaio, alla base dell’industria della difesa, i sei paesi fondatori diedero vita a un processo di integrazione, apparentemente «solo» economico, ma in realtà profondamente politico e strategico. Se gli Stati membri della nuova comunità avessero fuso le loro industrie dell’acciaio e del carbone, questo non avrebbe solamente generato un’interdipendenza economica fra loro, ma anche intrecciato indirettamente le rispettive industrie della difesa, alimentate da quelle stesse materie prime.

Come avevano previsto e auspicato i padri dell’Europa unita, tra cui Robert Schuman, Jean Monnet e Altiero Spinelli, all’emergere di ogni nuova sfida si rivelava una diversa sfaccettatura dell’insufficienza dello Stato-nazione a fornire risposte ottimali.

Conseguentemente, si poneva un ulteriore mattoncino della casa comune europea, aggiungendo e talvolta trasferendo competenze (nel senso sia giuridico sia professionale del termine) al livello sovranazionale europeo. Così nel corso dei decenni si è andata costruendo una Comunità e poi un’Unione europea (Ue), con le sue istituzioni, i suoi processi decisionali e democratici, e il suo mercato unico, in cui vennero sancite le quattro libertà di movimento dei beni, dei servizi, del capitale e delle persone.

Fiore all’occhiello dell’integrazione economica europea fu la moneta unica – l’euro –, introdotta formalmente nel 1999 dopo un decennio di preparativi, e utilizzata come contante tra un gruppo leggermente più ristretto di Stati membri – noto come Eurogruppo – dal 2002.

Negli anni dell’Europa aperta fu creata anche l’area Schengen, con l’abolizione delle frontiere interne tra gli Stati europei e la creazione di una frontiera esterna comune. Importante ricordare, però, che all’inizio l’apertura dei confini interni non fu accompagnata dal tentativo parallelo di chiudere la frontiera esterna, certamente non della sua securitizzazione avvenuta successivamente.

Negli anni Ottanta quando fu firmato il Trattato Schengen, e nei Novanta quando venne attuato e si ampliò l’area Schengen in concomitanza con l’allargamento Ue ai paesi scandinavi, vigeva infatti un equilibrio sostanzialmente precario ma apparentemente stabile ai nostri confini esterni.

Nell’Europa meridionale, fatta eccezione per l’Italia, che già iniziava a zoppicare dalla metà degli anni Novanta, le economie erano in forte miglioramento. Soprattutto la Spagna, ma anche le più piccole Grecia e Portogallo, voltata la pagina della dittatura e abbracciata la democrazia, vissero anni di crescita economica e quindi di capacità di assorbimento socio-politico dei flussi moderati di immigrazione dal Nord Africa.

Sull’altra sponda del Mediterraneo apparivano invece stabili le autocrazie, da Hosni Mubarak in Egitto a Muammar Gheddafi in Libia e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Era una stabilità solo apparente, che non faceva perno su una forte legittimazione interna, bensì sul controllo esercitato da quei dittatori sui propri cittadini e su una loro legittimazione esterna assicurata proprio dai rapporti cooperativi con i paesi europei. Il do ut des risiedeva in una cooperazione tra i regimi nordafricani e il Vecchio Continente, che colmava parzialmente la mancanza di legittimità interna dei primi.

Tratto da “La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale” (Mondadori), di Nathalie Tocci, pp. 192, 18.00 €

Intervista a Stefano Levi Della Torre: “Se il fondamentalismo ebraico agisce come quello islamico, Israele resterà solo” (unita.it)

di Umberto De Giovannangeli

Saggista e nipote di Carlo Levi

«L’opposizione che si era sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese e del regime di apartheid coloniale»

Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, nipote di Carlo Levi, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.

Tra i suoi numerosi saggi, ricordiamo, per la sua acutezza e stringente attualità, Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno (Donzelli Editore). Stefano Della Torre è uno dei promotori dell’appello “Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace”, in cui c’è scritto, tra l’altro: “Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta.

Purtroppo, sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso. Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio.

Ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli. Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti”. L’Unità lo ha intervistato.

Gaza, Libano. Iran. Non c’è pace in Medio Oriente. È un destino ineluttabile?

La guerra è in corso. Le guerre tendono a protrarsi per interessi combinati, a cominciare dall’economia delle armi e delle loro sperimentazioni. Più in generale, si protraggono per una perversa inerzia di azione e reazione fino al punto in cui i superstiti si inventano di tutto pur di uscirne.

Come siamo creativi nell’inventare ordigni di distruzione, così, costretti dalla necessità da noi stessi prodotta, lo siamo nell’inventare sbocchi prima impensabili. Le guerre di religione che hanno devastato l’Europa l’hanno poi riconfigurata e dalla loro terrificante esperienza regressiva sono nati nuovi criteri nei rapporti tra popoli e poteri, istanze di tolleranza pluralista e inclusiva attraverso Grozio o Locke o Montesquieu, fino all’illuminismo.

Per poi magari ricadere nella regressione dei fondamentalismi nazionalistici e religiosi e nella guerra, come oggi. Purtroppo, è questo l’andamento della storia che non sappiamo evitare, in cui le vittime, o meglio i vittimisti, si fanno carnefici. Il nuovo nasce dalle necessità imposte dalle catastrofi. Ciò vale per l’ambiente come per la politica. Non sappiamo anticipare gli esiti delle crisi, ma nelle crisi non possiamo né dobbiamo rinunciare ad elaborare prospettive del futuro.

Da quel tragico 7 ottobre 2023 Israele è un paese in guerra. Una guerra “per sempre”.

Israele vincerà militarmente e perderà politicamente. L’ossessione di una deterrenza stragista in sostituzione di una politica propositiva produce il suo isolamento, il crollo del suo prestigio e del suo consenso internazionale. Mentre lungo i secoli le potenze salivano e scendevano, la durata degli ebrei è un fenomeno anomalo che non si è mai basato sulla forza. L’affidarsi alla forza come fa adesso Israele contraddice la storia ebraica e le sue strategie di durata.

Quanto più la destra, di governo e anche nel senso comune, condurrà Israele da un lato a insistere, nei territori occupati, secondo i modi desueti di un colonialismo d’altri tempi; quanto più il nazionalismo e il fondamentalismo ebraico si spingerà ad assimilarsi ai modi e alle mentalità dei fondamentalismi islamisti da cui Israele deve difendersi, tanto più Israele si troverà isolato, corpo estraneo nella sua regione e nel mondo. In una china da cui dovrà risalire per vivere e sopravvivere.

Avendo vissuto nei secoli nel mondo dei vinti, dopo la Shoah il mondo ebraico si è trovato inscritto nel mondo dei vincitori e se ne è valso. Ma ora sono appunto i “vincitori” della Seconda guerra mondiale e della guerra fredda a veder declinare la loro centralità nel mondo, ad essere contestati e sotto attacco. Proporsi come baluardo di un mondo in declino (finché non saprà rinnovarsi) non è promettente per Israele.

C’è ancora spazio per realizzare una pace fra Israeliani e Palestinesi fondata sul principio due popoli, due Stati”?

La prospettiva “due popoli due Stati” (proprio quella che portò la destra estrema ad assassinare Rabin, con la complicità di personaggi ora al governo) è attuale come orientamento, non lo è per l’oggi: implicherebbe una guerra civile in Israele ad opera dei coloni e della destra che li sostiene, li incoraggia e li arma.

La loro missione è esattamente quella di impedire la prospettiva di un’indipendenza palestinese. C’è chi dice che Israele non ha una politica. Effettivamente solo la destra estrema ha un programma chiaro, ed è quello di risolvere definitivamente la questione palestinese, facendone strage e cacciando in massa i palestinesi dalla loro terra, e quello di risolvere con la guerra la minaccia iraniana.

Sotto il prevalere della destra, e anzi fin dall’assassinio di Rabin nel 1995, Israele era già in una guerra, latente ma sistemica, con i palestinesi in Cisgiordania e nell’accerchiamento di Gaza. L’aggressione e il massacro compiuto da Hamas e Jihad il 7 ottobre 2023, ha traumatizzato profondamente Israele, ha travolto l’illusione in una sicurezza raggiunta, e ha trasformato la guerra da implicita in esplicita E ha attivato i nemici di Israele dal Libano e dallo Yemen.

Con l’uccisione, il primo aprile 2024, di funzionari iraniani a Damasco, Netanyahu ha voluto aprire direttamente il fronte con l’Iran, per internazionalizzare la crisi, proponendosi come risolutore per conto dello schieramento geo-politico in cui si inscrive, del disordine mediorientale, per guadagnare un consenso logorato dai crimini contro l’umanità, dalla palude di sangue e sofferenza su cui insiste a Gaza in cui si è impantanato, non solo contro Hamas ma contro il popolo palestinese.

Israele è anche, sempre più, un paese lacerato tra le sue due anime. Una spaccatura che spesso è sottaciuta o sottovalutata dalla stampa di casa nostra.

Israele è certamente spaccato in due. Da un lato, un Israele in prevalenza laico e liberale; dall’altro un Israele nazionalistico e fondamentalista che agita i miti “messianici” della terra promessa, la religione ebraica e l’etnocrazia come vessilli idolatrici. Quando si invoca l’unità nella solidarietà con Israele aggredito da Hamas, per quale Israele la si invoca? D’altra parte, l’opposizione che si era potentemente sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese lasciata suppurare senza prospettive, la questione del regime di apartheid coloniale nei territori occupati, da cui promana un inquinamento ideologico e razzistico nel senso comune e nelle stesse istituzioni di Israele.

Come muoversi, anche da parte della diaspora ebraica, in questo scenario?

Certamente occorre contare ed appoggiare in tutti i modi quella parte di Israele che resiste alla mutazione negativa di Israele e dello stesso sionismo. Il quale era partito per rivendicare il diritto degli ebrei di farsi Stato ed ora si presenta come pretesa di negare ad altri quello stesso diritto. Anche se ridotta dalla guerra che chiama all’unità nazionale, è in quella opposizione che stanno le possibilità di risalire, forse in un’altra generazione, da questa catastrofe.

E certo l’antisemitismo riattivato, a destra e a sinistra, dalla conduzione di Israele, e quel palestinismo che inneggia a Hamas e al suo fondamentalismo come rappresentante del riscatto palestinese e alla distruzione di Israele non aiutano, anzi sono nemici radicali. Essi alimentano la destra oltranzista ebraica e il suo vittimismo secondo cui “sono tutti contro di noi e solo ci resta la deterrenza militare”; e offrono alla destra non ebraica e magari di tradizione fascista, l’occasione di velare le sue responsabilità antisemite ponendosi a “difesa degli ebrei contro l’antisemitismo”. Ma con l’antisemitismo occorre confrontarsi.

In che modo?

A differenza di quella destra, in Israele e in diaspora, che considera l’antisemitismo un male metafisico e fatale, per cui non mette conto di confrontarsi con esso, per cui solo la forza e la deterrenza militare ce ne salva. Israele non se la caverà da solo. Ha bisogno della diaspora se in essa non rimarrà solo l’incanto subordinato allo “Stato guida”, ma si farà strada una critica solidale.

E mentre la destra scava la solitudine di Israele accusando l’opinione e il diritto internazionale e l’Onu di antisemitismo, Israele si salverà solo con l’aiuto critico del mondo, in appoggio alle sue forze democratiche e progressiste interne.

Ferrara, caso Forza Nuova. Il proprietario della sede: «Non avevo capito le loro intenzioni, sono pentito» (lanuovaferrara.it)

di Stefania Andreotti

Il rammarico

«Un amico mi ha chiesto di affittare quello spazio per farci delle riunioni. Non avrei mai immaginato una cosa del genere» giustifica il locatore di Fn. E alcuni cittadini valutano «una petizione per mandarli via»

«Un amico mi ha chiesto di affittare quello spazio per farci delle riunioni. Non avrei mai immaginato una cosa del genere». Parla il proprietario dell’immobile di viale Boldrini, in angolo con via Pesci, dove sabato ha aperto la prima sede di Forza Nuova dell’Emilia Romagna.

«Lo spazio era sfitto da cinque anni, prima c’era una rivendita di pane. La mia intenzione è farci un appartamento da aprire come bed and breakfast, ma devo aspettare che si interrompa il transito della vicina ferrovia, che verrà interrata. In attesa che il condominio mi dia l’autorizzazione per procedere con il mio progetto, questo conoscente si è offerto di occupare, con un contratto di un anno non rinnovabile, lo spazio che altrimenti sarebbe rimasto vuoto.

Quello che avevo inteso è che si sarebbe trattato di un’attività interna, non che avrebbero aperto una sede, sennò non lo avrei mai fatto. Mi sono pentito amaramente, mi sento imbarazzato, anche perché il condominio ha dovuto subire una cosa del genere. Io sono una persona al di fuori della politica, non appartengo a nessun partito né di destra né di sinistra, non avevo previsto quello che poi è successo. È davvero una brutta situazione che mi rendo conto di aver contribuito involontariamente a creare, ma l’ho fatto in buona fede».

«Io ho sempre votato dall’altra parte – interviene la compagna del proprietario – e quello che sta succedendo, ci sta creando un grande disagio, se ci sarà modo, proveremo a intervenire per porre rimedio». All’inaugurazione non sono andati, perché già in disaccordo con i nuovi inquilini. «Sono giorni che ne parliamo fra noi e con loro, siamo molto preoccupati, abbiamo sbagliato e ora non sappiamo come fare».

Non è chiaro se ci sono azioni da poter intraprendere, ma intanto alcuni vicini che sabato hanno osservato a distanza l’inaugurazione dello spazio, hanno avanzato l’idea di una raccolta firme per chiederne la chiusura. «Questo è un quartiere antifascista – ha detto un residente – in una città medaglia d’argento per la Resistenza, non possiamo accettare di convivere nella stessa strada con persone che appendono ai muri foto di Mussolini e vogliono abrogare la legge Scelba, che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista. Per questo stiamo valutando anche l’ipotesi di avviare una petizione per mandarli via».

«Io sono nata quando c’erano loro, ho fatto la fame, non è una bella cosa che siano tornati» dice una signora da un balcone vicino alla sede, e prosegue «l’altra sera hanno fatto un gran baccano, ero più tranquilla quando non c’erano, adesso non sono più serena, altroché sicurezza».

Ieri mattina la sede si presentava chiusa. Un signore passando davanti alle saracinesche abbassate, mentre portava a spasso il cane ha detto «mi sentivo più sicuro prima, questo è un bel quartiere, non ci sono particolari problemi, ma guarda cosa ci tocca vedere» e si è allontanato scuotendo la testa. Una zona della prima periferia cittadina è assurta improvvisamente alla ribalta nazionale suo malgrado.

«Siete stati voi giornalisti ad alzare un gran polverone» ci dice una signora che sta rincasando lì vicino. È pur vero che l’apertura, per la prima volta in regione, di un luogo di ritrovo di un partito di estrema destra con simpatie neofasciste, è una notizia a cui sarebbe stato colpevole non dare rilievo.

«C’è la libertà di espressione, penso che se lo hanno fatto, se li hanno autorizzati, non ci sono problemi, perché dovrei averne io? Certo è incredibile sentire ancora parlare di fascismo nel 2024, ma se non creano problemi a me e alla mia clientela, possono stare lì» ha affermato la titolare di un’attività commerciale nei pressi della sede. Non è ancora noto quali saranno le prossime iniziative in programma in viale Boldrini, ma sicuramente l’attesa è grande.

A protestare contro Israele a Roma non c’erano buoni e cattivi, ma antisemiti e antisionisti (linkiesta.it)

di

Appunti per Schlein

La segretaria del Pd ha definito pacifica la manifestazione pro Hamas, minimizzando gli episodi di violenza contro la polizia. Un errore politico grave, come quello di non visitare la sinagoga della Capitale nel primo anniversario del pogrom del Sabato Nero

«In quella piazza c’erano anche tanti ragazzi che semplicemente volevano trovare un luogo dove poter manifestare per la pace. E per fortuna è stata per lo più pacifica, al netto degli scontri che ci sono stati e che sono stati gestiti, anche se purtroppo con dei feriti».

Eh, no, cara Elly Schlein. Sabato in piazza non c’erano i buoni e i cattivi. Erano tutti cattivi. 

Alcuni teppisti certo più degli altri, abbiamo visto come hanno cercato di attaccare i poliziotti. Non c’erano «ragazzi che volevano manifestare per la pace», perché tutti, dal primo all’ultimo, erano ben consapevoli che la manifestazione basata su una piattaforma esplicitamente antisemita e animata quantomeno da comprensione, se non peggio, del terrorismo e che quindi come tale non poteva non suscitare atti violenti, come infatti è avvenuto.

Nella vivida cronaca di Laura Cesaretti (Il Giornale di domenica scorsa) si legge: «Un nerboruto Cobas dell’Ilva: “I sionisti sono topi di fogna che portano malattie purulente, Israele è un tumore che va estirpato”. Hitler non avrebbe saputo dire meglio».

Questo era il tono. Questo il senso della peraltro scarsina adunata rosso-bruna (già, c’era pure qualche fascista): cancellare Israele dalla faccia della terra. Antisionismo, antisemitismo: tutt’e due c’erano, sabato a Roma, indistinguibili. Che poi per fortuna i danni siano stati lievi lo si deve solo alla professionalità delle forze dell’ordine e al fatto che i violenti fossero pochi ragazzini (a parte qualche cariatide del Settantasette che ancora si agita).

Attenzione dunque a non ripetere errori del passato. A non abbassare la guardia contro i violenti e chi li sostiene. Un conto è la discussione, la critica anche durissima al governo di Israele, o le istanze per reclamare un piano di pace. Altra cosa è teorizzare la guerra allo Stato ebraico evocandone la distruzione, inneggiare al Sette Ottobre come data d’inizio della Resistenza. Schlein ha ben chiara la differenza, intendiamoci, e infatti il Partito democratico, come tutte le organizzazioni democratiche, si è tenuto ben lontano dal raduno di sabato scorso: «Il Pd non ha niente da spartire con chi inneggia ad Hamas e festeggia il 7 ottobre».

A maggior ragione quella distinzione tra buoni e cattivi appare incongrua, sbagliata in punto di fatto. Peraltro seguita, nelle ore successive, da un silenzio assordante (rotto solo da Lorenzo Guerini e Walter Verini) mentre sarebbero state persino ovvie la condanna dei teppisti e la solidarietà alle forze di polizia.

Infine, a completare l’opera, ieri un altro brutto errore della leader del Pd: non essere andata lei personalmente alla Sinagoga di Roma per testimoniare la vicinanza del suo partito alla comunità ebraica nel primo anniversario del pogrom del Sabato Nero.

Vale anche per gli altri leader dei partiti del centrosinistra (che ora pare si chiami campo progressista) a eccezione di Carlo Calenda che poi però ha soprattutto criticato Israele, sbagliando evidentemente sede e luogo. Ma agli atti dell’anniversario del Sabato Nero resta soprattutto il fatto che la presidente del Consiglio è andata alla Sinagoga e la leader dell’opposizione no.

E questo è un fatto grave.

(LaPresse)

La parola della settimana. Sangue (napolimonitor.it)

di

Sono passati quindici anni da quando ho scritto 
il primo articolo per Monitor, un’inchiesta sulle 
case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per 
il mensile cartaceo che stampavamo all’epoca.

Incontrai un ex compagno di classe a via San Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa essere più).

Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti, persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.

Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo […] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. (salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario della strage)

Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano, il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in cui non volevo farle.

Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho scelto di essere infelice a modo mio”.

L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano. Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”. (palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)

L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura vittime di uno scambio di persona.

Forse è che al sangue uno non ci fa l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente).

Fatto sta che, da quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19 di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i poveri e i disperati.

Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi, uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue.

Quando il suo amico George lo uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.

“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)

Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi, all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni fa.

Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)

(disegno di ottoeffe)