Il governo non presenta il report sull’applicazione della legge 194: è la prima volta in 46 anni (editorialedomani.it)

di Federica Pennelli

Diritti
Mancano i dati del 2022. Sportiello (M5s) e l’attivista Di Martino si chiedono se, dietro questo ritardo, non ci sia una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».
Le associazioni continuano a chiedere dati aperti in relazione alle strutture pubbliche
Se i dati pubblici sono un bene comune e una risorsa per la cittadinanza, in Italia abbiamo un serio problema con la loro messa a disposizione da parte del governo, tramite il ministero della Salute. Nel dettaglio, da nove mesi si attende la pubblicazione di un importante report, quello che ogni anno fotografa l’applicazione della legge 194, che permette l’interruzione volontaria di gravidanza, nel nostro paese.

Nonostante la deputata del M5s Gilda Sportiello avesse presentato un’interrogazione parlamentare il 1° ottobre, scritta insieme a Federica Di Martino del progetto “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, non aveva avuto alcuna risposta da parte del ministero della Salute.Solo l’8 novembre, tornando a presentarne una seconda, è riuscita ad avere un’amara risposta: i dati non ci sono, siamo fermi a quelli del 2021. Mancano dunque all’appello i dati del 2022, per la prima volta in 46 anni dall’istituzione della legge 194.

Le risposte mancate

Il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, ha risposto a Sportiello che «sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza, poiché la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati analitici sull’interruzione volontaria di gravidanza di tutte le regioni e le province autonome determina un procedimento comprensibilmente lungo e delicato». E ha aggiunto che «la trasmissione dei dati relativi al 2023, da parte delle regioni e delle province autonome all’Istituto superiore di sanità e all’Istat, è infatti ancora in corso».
Per Di Martino, quello a cui stiamo assistendo «ha dell’incredibile ed è vergognoso. Un ritardo simile non si era mai registrato.
Si è parlato di produzione del report dei dati che dovevano essere raccolti afferenti all’anno 2023, ma quelli che stiamo aspettando sono quelli del 2022, nonostante siano già presenti dei dati Istat che non vengono, però, aggregati insieme a quelli che spettano, in termini di raccolta, al ministero della Salute e alle regioni».

Sportiello e Di Martino si domandano se, dietro le ragioni di questo ritardo, non ci sia invece una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».

«Sono talmente insoddisfatta che, ogni volta che ascolto qualche risposta alle interpellanze che pongo al governo, mi chiedo: perché l’ho fatto, se poi mi devo sorbire una risposta che dimostra che il governo non ha la minima idea di quello che sta facendo o di quello che sta succedendo? – si chiede Sportiello –. Non venite a dire che volete applicare la legge 194, perché non è così.
Se così fosse, dovreste battervi in prima persona per assicurarvi che l’aborto farmacologico sia somministrato in tutte le regioni allo stesso modo e sia garantito, perché lo prevede la legge. Non lo state facendo ma anzi, nelle regioni che amministrate, addirittura lo negate, andando contro una circolare ministeriale. E non potete dire con tanta, ma veramente tanta ipocrisia, che volete applicare la legge 194».

La mancanza di dati apertiI

problemi legati alla mancanza dei dati, spiega Di Martino, sono molteplici: «Così come la 194 è stata svuotata di senso, anche il report sulla 194 è stato svuotato di significato reale ed è diventato un mero pro forma con dei dati a cui potersi aggrappare per strumentazioni ideologiche».
Infatti il dato dell’obiezione di coscienza, dai report, sembra ridursi di anno in anno, ma nei fatti non è così: «Qualcuno ci deve spiegare perché i problemi che incontrano le donne ad abortire sono sempre più grandi. È diventato soltanto un manifesto per rendere conto all’Europa del fatto che l’Italia garantisce, da un punto di vista formale, il diritto all’aborto, mentre sappiamo che questa cosa non avviene», continua Di Martino.

Da un lato, quindi c’è una «sottovalutazione dello strumento del report, che andrebbe rimodulato inserendo altri parametri con dati aperti e divisi per strutture, mentre a oggi continua ad apparire come strumento vuoto, una mera formalità che risulta tuttavia necessaria per continuare ad avere una minima prospettiva sui dati».

Per rispondere alla domanda se la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) sia applicata, bisogna avere dei dati e nella relazione di attuazione del ministero della Salute ci sono solo i dati nazionali e regionali: cioè dati chiusi, aggregati per regione.
Nel lavoro, che poi si è tradotto in un libro “Mai dati”, delle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, si sottolinea come servano invece i dati aperti e per ogni struttura ospedaliera: «Solo se i dati sono aperti sono utili e ci offrono informazione e conoscenza. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta».

L’accesso all’aborto in Italia

La dottoressa Silvana Agatone, ginecologa, presidente e membro del comitato scientifico di Laiga, spiega a Domani l’iter dei dati: «Ogni volta che un medico effettua l’interruzione volontaria di gravidanza deve trascrivere il dato, che poi viene mandato all’Istituto nazionale di statistica.
Dall’Istat viene inoltrato all’Istituto superiore di sanità (Iss) che elabora i numeri per poi inoltrarli al ministero della Salute». All’interno della relazione, dovrebbero esserci anche i dati sull’obiezione di coscienza ma, per Laiga, non dovrebbero essere presentati come tali quelli di infermieri e medici anestesisti, perchè «non dovrebbero potersi appellare all’obiezione di coscienza.
La legge parla di “quelle azioni che determinano un’interruzione di gravidanza” per cui assistiamo all’errore madornale per cui viene monitorata l’obiezione di personale altro, che non ha nessun diritto legale di farlo. Un errore che fa sì che negli ospedali basta dirsi obiettore e scappare, anche per motivi di urgenza, perdendo tempo prezioso».

Sono capitati, infatti, casi in cui «si entra nella sala operatoria e tutti scappano dicendo “io sono obiettore” e uno li insegue dicendo loro “guarda che non puoi farlo”, perdendo tempo prezioso per la donna.

Un magistrato, se dovesse indagare sulla cosa, andrebbe a cercare solo il ginecologo, non vedendo che è tutto l’ambiente che determina un ritardo illegale». Sulla questione delle Ivg, la dottoressa afferma che «solo poco più della metà degli ospedali offrono l’Ivg nei primi 90 giorni e la cosa più difficile è che molti meno la offrono dopo per le malformazioni fetali. Nel Lazio le Ivg dopo i 90 giorni si effettuavano solo a Roma ed eravamo solo in sei a eseguirle».
Non basta, inoltre, sapere solo quanti siano i medici che si dichiarano obiettori, ma anche sapere quanti siano i sanitari che poi, effettivamente, eseguano gli aborti: «Nei reparti vengono monitorati coloro che si dicono non obiettori, ma è capitato che coloro che si dichiaravano non obiettori fossero presi, per contratto, a fare solo ecografie.
Poteva sembrare che in quell’ospedale ci fossero non obiettori in più, ma non era proprio così. Inoltre, alcuni si dichiarano non obiettori ma poi non vogliono eseguire le Ivg, quindi il dato andrebbe rivisto» perché il numero dei non obiettori non significa, purtroppo, avere più personale medico che effettua le Ivg.Eleonora Mizzoni, con il progetto di mappatura dell’obiezione di coscienza “Obiezione respinta”, dal 2017 fa inchiesta sullo stato dell’arte di accesso alla contraccezione ordinaria, di emergenza e Ivg, a partire dalle testimonianze delle utenti sulle varie strutture ospedaliere.

Mizzoni dichiara a Domani che hanno sempre rilevato una profonda discrepanza tra il report del ministero sull’applicazione della 194 e la realtà: «Una discrepanza quantitativa, dato che nel report manca il sommerso dell’obiezione di coscienza dei farmacisti, che obiettano illegalmente sulla contraccezione di emergenza, come manca anche un dato sull’obiezione di struttura, ovvero quegli ospedali che fanno il cento per cento di obiezione».

Dal punto di vista qualitativo, «da sempre notiamo come l’enorme stigma e giudizio che c’è intorno alla pratica abortiva, che fa sì che anche negli ospedali in cui le donne e le persone incinte riescono ad accedere all’Ivg si vivano delle pessime esperienze: ascolto del battito fetale senza consenso, commenti moralisti inappropriati, antiabortisti davanti agli ospedali, preti in corsia, mancato supporto medico con testimonianze che ci parlano di medici che si sono rifiutati di fornire antidolorifici».

L’ematologo, il vaccino e i tumori (butac.it)

di 

Sulle pagine di alcuni giornali online nelle scorse settimane sono state riportate le parole di un ematologo, il dottor Corrado Perricone, che parla di vaccino anti-COVID e cancro. 

Titolava la testata Il Roma, il primo novembre:

Perché il vaccino anticovid 19 ad mRNA può causare il cancro

Sulla testata l’intervento dell’ematologo è descritto come opinione, visto che mancano i fatti che dimostrino quanto sostenuto da Perricone. Ad oggi, come più volte abbiamo ripetuto su queste pagine, non esistono dati che dimostrino un aumento significativo dei casi di cancro attribuibili ai vaccini mRNA.

Le associazioni che si occupano di studi sulla diffusione dei tumori in Italia, come AIOM e AIRC, hanno difatti evidenziato come l’aumento delle diagnosi (e non dei casi) sia legato a miglioramenti nello screening e nei metodi diagnostici, non all’uso dei vaccini.

L’aumento degli anticorpi IgG4 è una risposta immunitaria normale e non indica un danno al sistema immunitario o un aumento del rischio di cancro. L’idea che ci sia un collegamento tra IgG4 e malattie viene da uno studio tedesco che però non riporta quei risultati come verificati, e come diciamo spesso in questi casi dare a intendere diversamente è sbagliato.

Come anche la teoria secondo cui la proteina Spike presente nei vaccini mRNA sopprimerebbe il meccanismo di riparazione del DNA NHEJ (Non-Homologous End-Joining) non è supportata da studi scientifici riconosciuti. Purtroppo ci si annoia a ripeterlo, ma a oggi le autorità sanitarie internazionali – che non sono le case farmaceutiche, anche se molti sembrano non rendersene conto – confermano la sicurezza dei vaccini mRNA.

Le affermazioni dell’ematologo italiano sono le sue opinioni personali, che una testata giornalistica seria non dovrebbe riportare se non spiegando chiaramente quanto vi abbiamo riassunto qui sopra.

In conclusione ci tengo a riportare una cosa che a molti non è chiarissima. BUTAC si occupa di fact-checking, ovvero verifica dei fatti, e quanto riportato qui sopra è appunto un fatto, supportato da studi e pareri autorevoli. A volte nelle mail di critica che riceviamo ci scrivete che “tanto noi andiamo dietro al mainstream e difendiamo sempre i potenti”, ecco, questa è una balla. Di quelle grosse, e che chiunque dotato di spirito critico e capacità di analisi saprebbe smontare in poco.

 Basterebbe vedere quante volte abbiamo attaccato i “giornaloni” e i giornalisti, e vedere come funzionano gli articoli di fact-checking per rendersene conto.

Ma ormai abbiamo fatto il callo a questi attacchi, e siamo consci della poca utilità di articoli come questo: i nostri lettori abituali non ne hanno bisogno, i nostri detrattori non andranno più in là del titolo e del meme.

Scarti umani – Candidato fascista, No Vax e No gender

Un giorno col candidato: Teodori. No gender, No euro e No vax (ilrestodelcarlino.it)

“Destra e sinistra? Superate”. 

Campagna elettorale a mezzo servizio, perché deve tenere aperto il negozio La profezia: “L’onda americana arriverà anche qui, l’attuale classe politica sarà travolta”

Ultimo viaggio con i candidati alla presidenza della Regione. Il Carlino ha passato una giornata insieme con Luca Teodori, sostenuto da ’Lealtà, Coerenza, Verità.

Luca Teodori, ferrarese, 56 anni, seduto al centro con la camicia azzurra circondato dai suoi sostenitori

(Luca Teodori, ferrarese, 56 anni, seduto al centro con la camicia azzurra circondato dai suoi sostenitori)

L’outsider di queste elezioni Regionali si presenta come il candidato della porta accanto, ma basta parlarci qualche minuto che si lascia andare a idee con forti accenti anti-sistema.

“Non sono un politico di professione, come tutti devo portare a scuola i figli, aprire il mio negozio, tornare a casa da mia moglie la sera. L’attività politica la faccio, ma dopo (o durante) le mie faccende quotidiane. O in pausa pranzo e nei weekend. La mia vita è quella di un qualsiasi normale cittadino anche in campagna elettorale”, dice Luca Teodori, aspirante governatore di ’Lealtà, Coerenza, Verità’.

Una lista civica che mette insieme le esperienze di Italexit, Isp, Udcl e Vita contro gli obblighi vaccinali, contro il ‘dominio’ dell’Unione Europea e della Nato, a favore della sovranità monetaria rispetto alla finanza, con idee come quella di creare una moneta regionale.

Teodori, attivista no-vax nel periodo del Covid (“l’obbligo vaccinale di massa durante la pandemia è stata una truffa”, ripete) e già segretario politico del movimento ’Vaccini Vogliamo Verità’, è ferrarese, ha 56 anni e come segno zodiacale è “scorpione ascendente scorpione”, come ci tiene a sottolineare.

La sua giornata elettorale inizia nella sua Ferrara come sempre attorno alle 7.30, quando va a prendere la colazione per le due bambine, dopo una breve passeggiata. Poi, accompagna la figlia alle elementari, e nel tragitto inizia a dettagliare i capisaldi del suo programma: “Quando diciamo no alla propaganda gender e Lgbt nelle scuole e no agli obblighi vaccinali pediatrici sappiamo di che cosa parliamo…”

Un’oretta dopo, si sposta a Copparo per aprire alle 8.30 il suo negozio del settore auto, un’attività che porta avanti da circa vent’anni. In pausa pranzo si dedica agli impegni politici. E, così, alle 12.30 Teodori raggiunge il corteo dei sindacati a favore della Berco, l’azienda metalmeccanica di Copparo, nel Ferrarese, che vede 480 dipendenti a rischio licenziamento.

L’aspirante presidente anti-sistema, però, sta in disparte. “Non mi piace speculare sulle persone, non sono qui per fare comizi”, taglia corto. E si presenta una mezz’ora dopo davanti ai cancelli della fabbrica per portare la sua solidarietà ai lavoratori. Poi fa la sua analisi personale della crisi: “Tutto nasce dall’ingresso nell’euro, basta guardare la curva della diminuzione dei salari…”.

La pausa pranzo è quasi terminata, sono le 14 e Teodori deve riaprire il negozio. Nel frattempo, però, “devo studiare un documento recapitato da alcuni agricoltori”, e fissare un incontro con “un comitato di cittadini di Bologna sul tema della sicurezza. Ci sono sempre più persone e commercianti che si sentono insicuri in tutto il nostro territorio. Questo è un problema concreto, ma che la classe politica sottovaluta.

La sinistra a livello ideologico fa fatica a parlarne, la destra si concentra solo sull’immigrazione”. Mentre è al lavoro, spiega, quindi, il suo pensiero oltre la destra e la sinistra: “Sono categorie superate. Magari posso essere d’accordo con l’uno o con l’altro su certe questioni, ma ciò che manca loro è la coerenza. Cosa che, invece, riguarda noi che siamo la vera novità di queste elezioni”.

Nessuna vicinanza al ’centro’: “Vorrebbe dire essere come Antonio Tajani o Matteo Renzi, per carità”. Alle 18.30 Teodori esce dal lavoro, un breve passaggio a Ferrara, per poi ripartire verso Reggio-Emilia per un incontro sulla scuola assieme a candidati e candidate della lista ’Lealtà, Coerenza, Verità’.

Prima di uscire, si lascia andare a una sua personale analisi delle elezioni Usa: “Trump ha vinto le elezioni grazie al voto dei No Vax. E quest’onda arriverà anche in Italia. Credo, anzi, che questa classe politica verrà travolta ancora di più che durante Tangentopoli”.

Con gli Usa negazionisti, l’azione climatica dipende dall’Europa (lavoce.info)

di   e 

Il secondo mandato di Trump avrà conseguenze 
sulle politiche del clima a livello internazionale. 

Molto probabilmente gli Usa usciranno dall’Accordo di Parigi e forse abbandoneranno anche l’Unfccc. L’Europa deve tornare a esercitare un ruolo di leadership.

I riflessi delle presidenziali Usa sulla Cop29

Le conseguenze per l’azione climatica internazionale del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca si potrebbero vedere già presto. Lunedì 11 novembre si aprirà infatti a Baku la 29esima Conferenza delle parti (Cop29) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), trattato firmato a Rio de Janeiro nel 1992, in cui per la prima volta i governi hanno riconosciuto la necessità di ridurre le emissioni di gas serra.

Se la storia del coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo delle Cop non è mai stata lineare, con la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto – al contrario ad esempio di quella dell’Unione europea, che ha guidato la leadership climatica internazionale sin dalla firma dei primi trattati -, il punto in cui gli Usa si sono più distaccati dal processo multilaterale per l’azione climatica è stato sotto la presidenza Trump, quando, nel 2017, si sono ritirati dall’Accordo di Parigi, il trattato su cui si fondano tutt’oggi gli sforzi di mitigazione e adattamento di tutti gli stati del mondo.

L’offensiva contro Accordo di Parigi e Unfccc

Il presidente Trump uscirà quindi di nuovo dall’Accordo di Parigi? Le probabilità sono alte (nonostante i target di Parigi siano già stati sorpassati nei fatti l’anno scorso), aumentate dalla facilità di ritirarsi dal trattato, che non è stato ratificato dal Senato.

È molto probabile però che si spinga addirittura oltre: tra le bozze di ordini esecutivi che potrebbe firmare nei suoi primissimi giorni nello Studio Ovale ce n’è uno che prevede la decisione degli Stati Uniti di uscire dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc).

Dal punto di vista legale, potrebbe essere più difficile, perché gli Stati Uniti hanno aderito all’Unfccc attraverso il processo di ratifica del Senato e, secondo molti, potrebbe essere necessaria una nuova votazione per l’uscita. Questa volta però, al contrario del primo tentativo nel 2017, Trump potrebbe avere il tempo di trovare una solida maggioranza a favore.

Durante la campagna elettorale, infatti, Trump ha più volte promesso di invertire la rotta dell’amministrazione Biden che negli ultimi quattro anni ha cercato di ripristinare la credibilità e la leadership degli Stati Uniti negli sforzi globali per il clima.

Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, quasi 200 paesi si sono impegnati a limitare l’aumento della temperatura globale a lungo termine a 2°C sopra i livelli preindustriali e, idealmente, a 1,5°C. Gli Stati Uniti però sono la più grande economia del mondo, con un Pil annuo di oltre 27mila miliardi nel 2023 (contro i circa 18mila dell’Unione europea e della Cina), ma sono anche il secondo emettitore di gas a effetto serra, responsabili del 13 per cento delle emissioni globali, preceduti solo dalla Cina (con più del 30 per cento).

Il ritiro dall’Accordo di Parigi e forse anche dall’Unfccc non solo implicherebbe un aumento delle emissioni stimato di 4 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030, ma anche un freno all’efficacia delle negoziazioni della Cop29, in cui andrà ridiscussa l’ambizione dei piani climatici nazionali (le Nationally Determined Contributions, Ndc) e un nuovo obiettivo per la finanza per il clima nei paesi in via di sviluppo.

Infatti, prima ancora del possibile ritiro dai trattati sul clima (di cui comunque, eventualmente, si discuterà a gennaio dopo che il nuovo presidente sarà entrato in carica, con molta probabilità già durante la Cop29 assisteremo al ritorno di una diplomazia incentrata su una retorica aggressiva, al motto di “America first”, che punta il dito contro le altre potenze globali, in primo luogo la Cina.

Alla Conferenza parteciperanno rappresentanti statunitensi ancora legati all’amministrazione Biden, ma sarà complicato per loro mantenere un clima cooperativo. Inoltre, la consapevolezza di un’inaffidabilità dell’amministrazione Trump in ambito climatico rischia di minare la credibilità della posizione che i negoziatori statunitensi difenderanno.

Allo stesso tempo, c’è chi sostiene che il risultato potrebbe in realtà essere opposto: il ritiro degli Stati Uniti da una posizione di leadership climatica lascerebbe libero lo spazio per altri paesi, in particolare la Cina, per affermarsi come leader nell’arena climatica internazionale, con vantaggi in un periodo di forti tensioni sulle catene del valore delle tecnologie verdi.

Le negoziazioni della Cop29

Memori dello shock che l’elezione di Trump provocò durante la Cop22 di Marrakesh nel 2016, alcuni negoziatori hanno già lavorato negli ultimi mesi per creare le premesse per un’azione climatica immune al cambio della guardia alla Casa Bianca, attraverso canali di diplomazia climatica che non passino da Washington: alcuni funzionari del Maryland e della California, ad esempio, hanno incontrato degli omologhi cinesi per discutere della prosecuzione della collaborazione sul clima a livello subnazionale; il capo negoziatore statunitense per il clima, John Podesta, ha avuto colloqui con la sua controparte cinese.

Rimane comunque alta la probabilità che l’elezione di Trump crei maggiori difficoltà nell’avanzamento dei negoziati alla Cop29, specialmente se il nuovo presidente deciderà di sfruttare questa finestra di visibilità per riaffermare la propria posizione in ambito climatico ed energetico, o, peggio, se annuncerà impegni di uscita dai negoziati dopo il suo insediamento a gennaio.

Se l’uscita dall’Accordo di Parigi minerebbe già sensibilmente l’ambizione dell’azione climatica internazionale, con la revoca dall’Unfccc gli Stati Uniti non parteciperebbero più ai negoziati delle Cop tout court, logorandone alla radice l’efficacia, già da molti contestata, e compromettendo il multilateralismo in ambito climatico.

Secondo l’analisi di Carbon Brief la presidenza Trump potrebbe aggiungere 4 miliardi di tonnellate di gas-serra, in CO2 equivalente, entro il 2030 (figura 1) rendendo impossibile anche solo intravedere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050. Un target che invece l’Unione europea ha messo al centro della sua strategia climatica.

Con la rielezione di Trump, l’Unione europea dovrà svolgere un ruolo di leadership e di mediazione con il blocco di paesi non industrializzati all’interno della Cop, a partire dalla Cina, spingendo su una maggior cooperazione sul clima e sulle catene di valore relative alle tecnologie verdi.

A livello europeo, infatti, un declino della rilevanza della diplomazia climatica avrebbe implicazioni problematiche non solo per l’indebolimento della strategia economica del blocco portata avanti dalla prima Commissione von der Leyen, orientata verso le zero emissioni nette, ma anche per l’integrazione europea. Infatti, è nel dossier ambientale e climatico che l’Unione ha storicamente trovato un ambito in cui parlare con una sola voce e per una causa ritenuta giusta, forgiando un “soft power” sia a livello internazionale che domestico.

L’assenza alla COP29 della Presidente Von der Leyen, però, accanto a quella di Macron, Putin, Biden e Lula, non è un segnale positivo. Il rischio è che si perda di vista l’obiettivo più urgente e importante di questo secolo: agire velocemente per frenare la crescita delle emissioni e investire per adattarsi ai cambiamenti climatici inevitabili già in atto.

(Figura 1 – Emissioni di gas a effetto serra, miliardi di tonnellate di CO2e)