L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
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di Francesca Spasiano
Reportage
(Il carcere la Dozza di Bologna, sezione femminile. Un particolare del “passeggio”: la “zona grigia” dove le detenute possono stare qualche ora all’aperto. Foto di Massimo Berruti)
Un giorno nella sezione femminile dell’istituto la Dozza di Bologna, tra i sogni spezzati delle detenute e il grido d’allarme delle agenti penitenziarie
L’ultima traccia della società è confinata nel rettangolo della sala colloqui, un acquario di sedie e tavolini bianchi spogliati di ogni conforto. Dal vetro della sala perquisizioni si contano tre uomini, arrivati come alieni in un pianeta che può ospitarli per il tempo di un abbraccio.
Per il resto la sezione femminile del carcere di Bologna, la Dozza, è una comunità di sole donne. Il mondo chiuso delle ragazze, il cui recinto di sbarre permette ancora di intuire il cielo azzurro e il destino del vicinato, quando nel pomeriggio le voci del campetto da calcio attraversano le mura alte e spesse che le separano dall’istituto maschile.
A loro, le ragazze, basta sapere che quel campetto è più grande del loro, un fazzoletto d’erba con una rete da pallavolo che non usa nessuno. Non sotto i nostri occhi, e le linee di terra consumate all’infinito suggeriscono che non sia un caso: le detenute che girano in tondo preferiscono sgranchirsi le gambe finché possono, prima di tornare in cella per il “carrello” del pranzo. Non che sia un’attesa gradita.
Il cibo in carcere è una schifezza che fa male al corpo e all’anima. Ma la vera fame è di ascolto, disperato bisogno di ricordarci che ci sono anche loro.
«Oggi ho cucinato pasta allo scoglio», grida una ristretta che fa capolino dalla finestra. Ma temiamo che sia tutto un sogno. Noi le possiamo rubare solo qualche parola. Da visitatore devi rispettare rigide regole, anche se la comunità del carcere ti prende con sé. Si comincia dai piani alti, le stanze del direttore. I nostri Caronte sono gli educatori del ministero, due dei dieci previsti dalla pianta organica. Adesso ne manca soltanto uno, ma ce ne vorrebbero tanti di più.
Ognuno di loro ha in carico almeno un centinaio di persone, donne e uomini dell’istituto penitenziario più grande della Regione. Il giovedì hanno da fare: è il giorno dell’equipe. Alle prese con il linguaggio esclusivo di chi abita il carcere, ne sentiamo parlare in ogni angolo del penitenziario prima di capire di cosa si tratti.
Lo prevede l’articolo 13 dell’Ordinamento penitenziario: “Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento”.
Come parte dell’equipe, gli educatori stilano una relazione di sintesi. Ma l’ultima parola spetta al direttore dell’istituto, Rosalba Casella. A cui non manca il coraggio di incentivare le misure alternative, dice chi ci accompagna. «Bologna ha 65 detenuti in sezione semilibertà, se non credessi nelle misure alternative e nell’utilità dei percorsi esterni che sono parte del percorso trattamentale del detenuto non avrei lavorato in questa direzione.
Nessuna detenzione produce effetti gettando via la chiave: il percorso di reinserimento deve necessariamente prevedere che la persona rientri in società e che torni cambiato, con alcune opportunità che non ha avuto quando è entrato, altrimenti il dettato costituzionale resta inattuato», spiega Casella.
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