Il sacrificio annunciato di Kyjiv continuerà a perseguitare l’Europa (linkiesta.it)

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Le conseguenze del trumpismo

Come dice l’ex consigliere di Putin, il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino si intendono «come capi di clan mafiosi rivali».

Ma la seconda vittima della vittoria di Trump, dopo l’Ucraina, rischia di essere proprio l’Europa, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette

A nemmeno due giorni dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – ma chi l’avrebbe mai detto – la notizia sulle prime pagine di tutti i giornali è la riapertura del dialogo con Vladimir Putin, ovviamente sulla pelle degli ucraini. Sulle ragioni profonde della loro intesa, per una volta, mi pare si possa dare credito alla versione russa, e in particolare a Sergej Markov, direttore dell’Istituto di Ricerche Politiche di Mosca ed ex consigliere di Putin, che a Repubblica la spiega così: «Da uomini forti, Trump e Putin si rispettano.

Si rispettano come i condottieri di eserciti in guerra o come capi di clan mafiosi rivali». Personalmente, propenderei più per il secondo paragone, ma non esagererei con la rivalità. Al massimo, un po’ di invidia (da parte di Trump, ovviamente).

Sempre su Repubblica, giusto nella pagina accanto, Timothy Garton Ash scrive: «La prima vittima del secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente l’Ucraina. Gli unici che possono evitare questo disastro siamo noi europei». Il guaio è che la seconda vittima della vittoria di Trump rischia di essere proprio l’Europa.

Emmanuel Macron ha reagito al risultato americano affermando che avrebbe lavorato con il cancelliere Olaf Scholz per un’Europa «più unita, più forte, più sovrana». Ma come ricorda Garton Ash la Francia ha ormai un governo debole e instabile, che «di fatto dipende per la sua sopravvivenza politica dalla populista Marine Le Pen, amica di Putin», mentre il governo Scholz è entrato in crisi poche ore dopo l’elezione di Trump, lasciando «il potere centrale europeo in un limbo pre e post elettorale (lungo potenzialmente mesi)».

Data la gravità della situazione, forse possiamo permetterci almeno il lusso della verità. Se nel 2014, davanti alla prima aggressione russa dell’Ucraina, la reazione degli Stati Uniti di Barack Obama e dell’Unione europea fosse stata più adeguata e consapevole, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto.

Dove potremo scivolare se Trump darà seguito alle idee fatte circolare negli ultimi tempi – lasciare alla Russia i territori conquistati e garantirgli persino la “neutralità” dell’Ucraina, cioè la sua impossibilità di difendersi da nuove aggressioni – è davvero difficile prevederlo. Ma è facilissimo pronosticare che non sarà un futuro di pace e prosperità, né per gli ucraini, né per noi europei.

Simenon, la vertigine dell’infanzia (ilmanifesto.it)

di Gennaro Serio

Novecento francese 

Simenon, la vertigine dell’infanzia

La morte di uno zio è uno dei fattacci che turbano i ricordi del dottor Malempin, protagonista del romanzo scritto in Alsazia nel 1939

Nella sua vastità, può darsi che Georges Simenon offra anche una via di uscita dalla incontrollata proliferazione del racconto familiare cui si assiste nella narrativa di oggi, tra ripiegamento narcisistico e impossibilità più o meno celata di ritagliare una autonomia per il proprio sé rispetto agli amati (o odiati) genitori.

La soluzione proposta da Simenon a questo fenomeno contemporaneo sarebbe all’incirca la seguente: non raccontate della vostra famiglia, salvo che tra i suoi ranghi non vi sia almeno un morto ammazzato per mano di uno degli altri parenti.

La morte di uno zio è uno dei fattacci, e certo non il solo, che intervengono a turbare i ricordi d’infanzia di Malempin, protagonista eponimo dell’ultimo titolo dello scrittore belga riproposto da Adelphi nella «Biblioteca» (traduzione di Francesco Tatò, pp. 142, € 18,00) dopo essere già apparso nella lussuosa collana «La Nave Argo» (Pedigree e altri romanzi) e nel 1960 da Mondadori con il titolo Ricordi proibiti.

Nella voce del narratore in prima persona c’è un’impellenza febbrile, allucinata, che egli non sa spiegarsi e che fa scorrere il testo, quasi un racconto lungo, a velocità palpitante, incardinato a un monologo interiore che diventa narrazione e contiene al suo interno tutte le scene e i dialoghi del suo «romanzo di famiglia».

L’insolito impianto «statico» rende Malempin – la cui prima edizione Gallimard è del 1940 – un titolo eccentrico e prezioso, che chiude idealmente la ricca e felice produzione del Simenon anni trenta: il dottor Édouard Malempin siede accanto al figlio, un bambino fragile e malato, che sembra mostrare i segni di una difterite potenzialmente letale. Chiuso nella camera buia, nell’aria stantia di casa sua, il dottore sprofonda nelle reminiscenze, e riattraversa i momenti salienti della sua infanzia.

Il campionario sarebbe quello tradizionale: la «lingua Malempin», fatta di soprannomi misteriosi, allusioni impenetrabili; le zie acide, il padre anaffettivo, i non detti, i problemi di debiti, i tradimenti, i desideri incestuosi. Solo che poi arriva il fattaccio: uno zio morto (questioni di eredità?). E il povero Édouard è costretto a vivere sulla propria pelle l’antico adagio secondo il quale i bambini «sanno», e gli adulti si comportano ingenuamente come se non se ne accorgessero.

«Sono avviluppato dalle radici che sto dipanando e che vedo spingersi sempre più lontano, sempre più aggrovigliate», dice Malempin: i fatti gli sono ben chiari, ma non è quello che gli serve a impedirgli di comportarsi come un fantasma che vive senza coscienza, sospeso, lontano da tutto quel che gli accade intorno, inclusi moglie e figli («Gli unici anni di vita reale sono gli anni dell’infanzia», sentenzia).

Una strana malattia dell’anima che il dottore non riesce a diagnosticare a se stesso, nonostante la puntuale anamnesi – raccolta per iscritto in un quaderno –, e che mostra i primi sintomi quando, ormai già in cammino verso il distacco psichico da tutto quel dolore, quella confusione, e quella mancanza di empatia che aleggia sopra la sua testa, Édouard si aggira nei campi attorno alla fattoria in cui è cresciuto, e trova un ammasso di cenci che potrebbe essere il cadavere di suo zio: sul momento si agita, corre lontano, ma poi tornerà a giocare proprio lì attorno, via via più indifferente.

Il suo congelamento emotivo inquieta, via via più profondamente, il lettore, che se conosce il suo cliente, sa già che non può aspettarsi un lieto scioglimento: Malempin è condannato (a un segreto esilio da se stesso, e dal mondo).

Per i dettagli d’ambiente e dei volti, e per la descrizione di scene appena accennate, Simenon esercita qui il suo magistero con una misura specifica, una leggerezza del tocco che rende tutto ancora, agli occhi del narratore e quindi del lettore, velato – in quel modo in cui solo i ricordi di infanzia sono velati –, eppure terribilmente eloquente.

«Sono trent’anni che cammino in punta di piedi – ammette Malempin –, (…) perché ho capito che tutto è fragile». Quello che aveva la parvenza del romanzo familiare dunque altro non è che una nuova variazione sul tema dell’homme nu, «l’uomo nudo», osservato cioè sotto una lente che lo spoglia dei paramenti sociali e psicologici: ossessione alla quale Simenon non smise di dedicarsi per tutta la sua vita di scrittore.

Il bagno di realismo della sinistra e il rischio di un armistizio sulla pelle degli ucraini (linkiesta.it)

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Pax trumpiana

Dopo la sconfitta dei democratici americani, il timore è che nel Partito democratico italiano si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha tenuto ai margini

L’epocale sconfitta dei Democratici americani è «una grande lezione», come dice Pina Picierno, che in teoria dovrebbe portare a forse qualche novità tra i progressisti europei.

La valanga trumpiana dovrebbe aprire gli occhi a molti, ma è probabile che produca anche il solito riflesso identitario vecchia maniera («dobbiamo essere più radicali», «al centro non si vince» e banalità simili), bypassando il nodo vero di una sinistra che non sa parlare più a popolazioni che nell’età della paura chiedono appunto sicurezza, in tutti i sensi, economica e fisica innanzi tutto.

Nel Partito democratico si attende che la segretaria Elly Schlein imposti una riflessione più approfondita delle prime parole espresse a botta calda («La vittoria di Trump è una brutta notizia. Chi oggi lo festeggia per ragioni di bandiera smetterà presto quando gli effetti di una nuova politica protezionistica colpiranno le imprese e in lavoratori in Europa e anche qui nel nostro Paese»).

Un primo serio ragionamento lo ha svolto Lia Quartapelle, esponente riformista, osservando che «da tempo la sinistra occidentale non vede i problemi scomodi (l’immigrazione, la microcriminalità, la sicurezza nazionale), non aggredisce le questioni economiche o la crisi del sistema di welfare. Quando la sinistra in Occidente vince, vince con personalità rassicuranti che offrono qualche cerotto. Quando mobilita, mobilita segmenti sempre più ridotti di elettorato usando l’identità e l’indignazione».

Ecco dunque che un tema come la sicurezza, sempre un po’ rimosso soprattutto se visto in connessione con la questione-immigrazione, potrebbe avere una sua centralità nella proposta complessiva (di governo) del partito di Elly Schlein. Sarebbe anche ora di abbandonare buonismi e genericità, regalando di fatto alla destra il compito di fare i conti con questa questione che nelle società occidentali è una priorità.

«La sicurezza è un tema decisivo, trasversale e sempre più sentito – dice Carlo Calenda – liquidarlo come argomento reazionario e razzista è una beata fesseria. Se diminuisce il benessere i cittadini hanno paura di dover dividere una torta sempre più piccola con più persone per di più di altre nazionalità».

Altro che evocare una «rivolta sociale» come improvvidamente ha fatto Maurizio Landini, qui si tratta di fare un bagno di realismo nel senso delle riforme partendo dalle domande vere dei cittadini. Non si tratta di inseguire la destra, quanto di competere con essa con progetti seri: «I repubblicani hanno avuto gioco facile – osserva Matteo Renzi – e la cosa che mi fa più rabbia è che questa destra, quanto di più lontano da me, ha saputo raccontare una storia e costretto gli altri a inseguirla».

Allo stesso modo, è possibile che la vittoria di Trump comporti qualche scompiglio in politica estera. Non a caso Lorenzo Guerini ha sentito il bisogno di dire subito la sua: sull’appoggio all’Ucraina non si arretra di un millimetro. La pace? Certo, ma «con l’Ucraina in piedi»: altro che resa!

Il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa si rende benissimo conto che con Donald Trump alla Casa Bianca, Kyjiv rischia di essere usata come primo boccone da consumare assieme a Vladimir Putin, tanto per cementare una diarchia reazionaria alla guida del mondo. E forse Guerini paventa anche un possibile ripiegamento opportunistico appunto in sintonia con il presidente americani da parte di Giorgia Meloni.

Insomma, il rischio di un otto settembre sulla pelle del popolo ucraino è molto forte, tutti a casa, la Russia si pappi pure il Donbas e la Crimea e chi si è visto si è visto. Il nuovo ordine mondiale passa dunque per la strage dei principi, come già è avvenuto molte volte proprio sul suolo europeo.

Guerini forse avverte che, anche per fronteggiare il pacifismo trumpiano di Giuseppe Conte, il gruppo dirigente schleiniano del Pd potrebbe mollare la sua posizione filo-ucraina, peraltro non esente da varie titubanze evidenziate in tante occasioni.

È infatti molto probabile che nel Pd e in generale nella sinistra si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha saputo tenere ai margini, ma che dopo la vittoria di Trump ritiene di sentirsi in sintonia con la Storia, una corrente di pensiero che paradossalmente affida proprio al campione mondiale della destra il compito di portare la pace dopo il bellicismo dei Democratici.

Diversi esponenti soprattutto di scuola comunista la pensano così, anche se per decenza non lo dicono apertamente. Siamo solo alle prime battute ma il dibattito, che sarà ovviamente condizionato dai risultati in Umbria e Emilia-Romagna, è destinato ad aprirsi, con quali conseguenze adesso è impossibile dire. Ma certo è che intorno al Pd tutto sta cambiando.