Ora l’Ue dovrebbe agire subito per salvare l’Ucraina: l’alternativa è la resa dell’Europa

di PierGiorgio Gawronski

Questa notte, tutto il mondo (chi ha potuto) 
ha assistito con grande interesse alle elezioni 
americane, per le ovvie ricadute locali nell’era 
della globalizzazione. 

Ma per un Paese in particolare il risultato elettorale americano era una questione di vita o di morte: l’Ucraina.

Attaccando con Kiev l’“ordine globale” vigente, Putin aveva scommesso – più che sulle sue armate – sulla scarsa volontà dell’Occidente di difendere i principi su cui esso stesso si fonda. Codificati – dopo la Seconda guerra mondiale – a Norimberga, nella dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, nel diritto penale internazionale, nelle istituzioni delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Wto, dell’Ocse e di altri organismi di cooperazione internazionale. Principi, peraltro, spesso violati dai repubblicani americani (Bush jr. in Iraq, ecc).

Con il successo di Trump, Putin ha vinto la sua prima scommessa: a fine gennaio gli Stati Uniti verosimilmente ritireranno il loro sostegno economico e militare all’Ucraina invasa, colpita, torturata ma finora solo in parte sottomessa.

Biden si è premurato di lasciare in eredità agli ucraini un po’ di soldi e di armi. Ma l’ascesa a Washington di un fervente ammiratore di Putin si farà sentire subito al fronte, attraverso il meccanismo potente delle aspettative. La prevista interruzione degli aiuti, infatti, potrebbe facilmente demoralizzare gli ucraini, determinandone il rapido crollo.

È già successo in Afghanistan pochi anni fa, quando la notizia di un futuro disimpegno americano determinò il rapido crollo dell’esercito alleato locale e, a seguire, la fuga ignominiosa degli americani.

Se dunque l’Europa volesse salvare Kiev dovrebbe agire immediatamente, proponendosi in modo credibile al posto degli americani. I quali però non offrivano agli ucraini solo soldi e armi, ma anche un ombrello nucleare basato sulla deterrenza. E questa, contrariamente al flusso di armi e soldi, cesserà improvvisamente il prossimo 20 gennaio, con il passaggio delle consegne da Biden a Trump.

L’Europa avrebbe dunque di fronte un compito estremamente arduo e urgente, che richiederebbe di fare in due mesi quei progressi che per decenni sono mancati, sul coordinamento delle politiche estere e di difesa e sulla messa in comune della sovranità. O almeno, occorrerebbero fantasia e leadership per creare meccanismi istituzionali provvisori/straordinari ma funzionali.

Ma perché mai l’Unione europea dovrebbe difendere l’Ucraina? Le categorie geopolitiche non chiariscono la questione. Come dice Putin, la guerra (mondiale) è fra i sostenitori del vecchio ordine globale (liberale) e i sostenitori del nuovo ordine globale (autoritario). La profonda divisione dell’elettorato americano dimostra che la faglia fra i liberali e gli autoritari attraversa tutte le nazioni. Questa faglia (come altre) in caso di scontro paralizza ed espone le democrazie (per questo Putin le ritiene decadenti), condannando i regimi liberali alla sconfitta.

L’alternativa è una vergognosa resa dell’Europa in Ucraina. Rinunciando a sostenere la parte combattente del movimento liberaldemocratico internazionale, l’Europa invierebbe un chiaro segnale a dei pericolosi clienti: di essere disposta a sottomettersi. E tuttavia, è questa la soluzione di gran lunga più probabile, in base ai vincoli politici correnti e alla storia di promesse occidentali non mantenute degli ultimi secoli – dalle rivoluzioni del 1848 al tradimento della Cecoslovacchia nel 1938, alla ‘drole de guerre’ nel settembre 1939.

La vittoria di Trump accelera la crisi delle democrazie, acutamente percepita da Putin nel suo ormai famoso articolo di geopolitica del 2021 (del quale l’ambasciata russa due settimane fa pubblicizzava una traduzione in italiano).

Oggi come allora la politica ‘piccola’ ha tutto l’interesse ad alimentare l’illusione che la pace e la libertà possono essere conservate a buon mercato: il risveglio è quasi sempre duro.

Cori anti-arabi, bandiere strappate. Poi i pestaggi. Cinque israeliani feriti (ilmanifesto.it)

di Ester Nemo

Tutto in una notte Ore di violenze ad Amsterdam 
prima e dopo la partita con l’Ajax, circa 60 
i fermi. 

La sindaca sotto attacco cancella i cortei pro-Pal

Cinque feriti israeliani e una sessantina di arresti. È il bilancio, ancora da chiarire, degli scontri che si sono verificati ad Amsterdam tra giovedì e venerdì notte. I tifosi del Maccabi Tel Aviv sono stati aggrediti all’uscita del match perso con l’Ajax per 5-0.

«Pogrom», hanno tuonato media e politici dalla capitale dello Stato ebraico, insieme ai nazionalisti dei Paesi bassi e a quelli di mezza Europa. «Espelleremo i radicali islamici», ha dichiarato Geert Wilders, leader di estrema destra del Partito per la Libertà. Il premier olandese Dick Schoof ha condannato «gli attacchi antisemiti».

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha parlato di «aggressioni inaccettabili». Sulla stessa linea d’onda Joe Biden, secondo cui si è trattato di atti che «ricordano momenti bui della storia in cui gli ebrei erano perseguitati».

AL CORO GRANITICO dei sostenitori di Israele senza se e senza ma, manca però un pezzo della vicenda. Prima della brutta esplosione di violenza, infatti, gli ultrà del Maccabi avevano spadroneggiato impuniti per le strade della capitale olandese. I tanti video disponibili online mostrano un pre partita con, per così dire, poco fair play.

«Tifosi» israeliani che si arrampicano sulle case strappando le bandiere della Palestina esposte alle finestre. Un tassista arabo, pare di origine marocchina, aggredito. Notizie confermato dal capo della polizia di Amsterdam Peter Holla in una conferenza stampa. E poi i cori all’ingresso dello stadio: «Israele distruggerà gli arabi» e «Non ci sono più scuole a Gaza perché non restano più bambini».

L’oltraggio verso le vittime del genocidio è continuato anche durante il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione nella provincia di Valencia. La tifoseria israeliana lo ha interrotto rumorosamente, in dissenso con il sostegno spagnolo al popolo palestinese.A un certo punto della giornata di ieri si era diffusa la voce che ci fossero dei «dispersi» o persino degli «ostaggi». Tutto smentito.

GLI SCONTRI non sembrano riducibili alle classiche dinamiche da stadio, anche perché la curva dell’Ajax ha connessioni storiche con il variegato mondo ebraico. Stando alle autorità sarebbero diversi i minorenni coinvolti e gran parte delle azioni sarebbe avvenuta nell’area di Bijlmer, zona periferica a sud-est della capitale dove ha sede la John Cruijff arena, lo stadio dell’Ajax.

La costellazione di attivisti e associazioni che nei Paesi Bassi sostengono la Palestina, e si coordinano su Instagram intorno a profili come Amsterdam Encampment, avevano chiamato alla mobilitazione e alla protesta, denunciando gli atti intimidatori.

La sindaca di Amsterdam Femke Halsema – del partito Sinistra verde che però non ha mai nascosto una certa ostilità nei confronti del mondo musulmano e in particolare dei manifestanti pro Palestina – aveva risposto nei giorni passati a chi chiedeva di giocare a porte chiuse che il Maccabi non era nella lista delle tifoserie «attenzionate».

Durante la conferenza stampa di ieri la sindaca ha annunciato una serie draconiana di misure per il weekend, con la dichiarazione dello stato d’emergenza e il divieto di manifestazioni. Poco prima il driehoek (il comitato per l’ordine e la sicurezza in Olanda, composto da sindaco, capo della polizia e pm) si era unito d’urgenza in seguito agli scontri.

Il giornalista del quotidiano Nrc Toon Beemsterboer, però, aveva ricordato che la tifoseria della squadra si era già fatta riconoscere, eccome, ad Atene per episodi simili a quelli visti a piazza Dam. Nella capitale greca un cittadino di origine arabe era stato aggredito e mandato in ospedale da una quarantina di hooligans solo perché indossava una kefiah.

L’ARABISTA olandese Rena Netjes ha puntato il dito contro chi ha consentito a quei tifosi di marciare indisturbati per le vie di Amsterdam intonando in ebraico quei cori contro palestinesi e arabi. Responsabilità istituzionali rapidamente sparite dal dibattito, che ha avuto un’eco globale.

SE NON È POSSIBILE escludere che in alcuni casi l’esplosione di rabbia abbia assunto sfumature antisemite, dai video che si trovano in rete è evidente che le ragioni principali riguardassero la situazione a Gaza. «Grida Palestina libera, grida Palestina libera», dice un uomo a un supporter della squadra israeliana caduto a terra.

Del resto da Tel Aviv non era partita una comitiva di turisti israeliani in visita alla casa di Anne Frank, come hanno sottolineato anche Stephan van Baarle, capogruppo alla Camera olandese del partito multitenico Denk e Esther Ouwehand, leader del Partito per gli Animali – i soli parlamentari ad aver protestato per la reazione a senso unico dell’establishment dei Paesi Bassi – ma ultra nazionalisti che a dispetto delle promesse, la politica non l’hanno affatto lasciata fuori dai confini olandesi.

UN PROBLEMA SERIO in una città come Amsterdam, una delle capitali europee con più alte percentuali di musulmani – che rappresentano circa il 15% della popolazione – che allo stesso tempo si porta dietro la drammatica storia di persecuzioni e deportazioni di ebrei.

E un problema persino più serio se a guidare la città c’è una sindaca diventata di recente il bersaglio preferito degli attacchi di Geert Wilders, che ne ha auspicato diverse volte la rimozione, con la dichiarazione dello stato d’emergenza sembra abbia ceduto alle pressioni del capo del primo partito in Olanda, che pur non avendo formalmente incarichi, dice di aver parlato al telefono con Nethanyau e di aver garantito il massimo impegno per cacciare dal paese «i musulmani radicali».

(ha collaborato Massimiliano Sfregola)

Manifestanti pro-palestinesi al corteo che ha preceduto la partita Ajax-Maccabi foto Epa/Jeroen Jumelet (Manifestanti pro-palestinesi al corteo che ha preceduto la partita Ajax-Maccabi – Epa/Jeroen Jumelet)

150.000 posti di lavoro in Germania minacciati con Trump vincente (bild.de)

di Lena Campanaro, Nils Heisterhagen

Gli esperti economici avvertono

Come i presidenti avrebbero un impatto sui portafogli dei cittadini tedeschi.

Azioni

► Trump: I mercati azionari potrebbero gioire in un primo momento. Il motivo: Trump vuole una riduzione delle imposte sulle società, il che significa maggiori profitti per gli azionisti. Il capo economista di Commerzbank, il dottor Jörg Krämer (58 anni), ha dichiarato a BILD: “Anche i proprietari tedeschi di azioni statunitensi ne trarrebbero beneficio”.

A lungo termine, tuttavia, gli svantaggi superano gli svantaggi: i dazi di Trump probabilmente provocheranno contro-dazi. “Questo potrebbe indebolire la divisione internazionale del lavoro e persino innescare una guerra commerciale”. Anche le aziende e gli azionisti tedeschi ne risentirebbero.

Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine

(Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine Foto: AP)

Harris: Per il democratico, è il contrario: prevede un aumento delle tasse sulle società, che inizialmente potrebbe deprimere i prezzi delle azioni. A lungo termine, tuttavia, Krämer si aspetta “più stabilità”, poiché Harris non inizieranno una guerra commerciale con noi.

Lavoro

Trump: L’IW di Colonia ha calcolato cosa significherebbero per noi i piani tariffari di Trump: se aumentasse i dazi sui prodotti europei fino al 20% e Bruxelles rispondesse con contromisure, il prodotto interno lordo della Germania potrebbe ridursi di ben 180 miliardi di euro entro il 2028.

Si tratterebbe di una media di 2170 euro in meno in ogni portafoglio. Peggio ancora, la Germania è minacciata di una perdita fino a 151.000 posti di lavoro.

Se Trump dovesse effettivamente introdurre le tariffe, sarebbe “un problema per la Germania come paese esportatore”, ha detto Krämer. L'”industria automobilistica già malconcia” ne risentirebbe in modo particolare.

Martin Moryson (Chief Economist Europe presso l’asset manager DWS) a BILD: “Anche se i dazi non arriveranno come precedentemente annunciato, sconvolgeranno gli investimenti. Le aziende attendono le loro decisioni di investimento fino a quando non avranno chiarezza. Questo può richiedere molto tempo con Trump, fino a quattro anni”.

"L'elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare", dice l'economista Krämer

(“L’elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare”, dice l’economista Krämer Foto: KENT NISHIMURA/Getty Images via AFP)

► Harris: Uno studio della Fondazione Hans Böckler avverte che se continuerà il corso del suo predecessore Joe Biden (81), potrebbe mettere a dura prova anche il mercato del lavoro tedesco. Questo perché gli Stati Uniti stanno attirando industrie ad alta intensità energetica nel paese con sussidi giganteschi.

Lo scenario peggiore: le aziende migrano. Krämer a BILD: “Questa distorsione della concorrenza rimane, non puoi ingannare te stesso”.

Quale futuro per i tuoi soldi?

Nel complesso, gli economisti di Harris si aspettano “deficit più bassi, inflazione e tassi di interesse più bassi”. L’economista Max Krahe del Future Department Institute ha detto a BILD: “Quindi i rendimenti dei risparmi rimarranno come sono ora, ma i mutui non diventeranno più costosi”.

Con Trump, d’altra parte, potrebbero esserci “deficit più alti, più crescita, più inflazione e tassi di interesse più alti”. Quest’ultimo potrebbe estendersi all’Europa, rendendo i mutui più costosi ma allo stesso tempo aumentando il rendimento dei risparmi, secondo Krahe.

Risultato

Il verdetto del capo economista di Commerzbank Krämer: “Harris sarebbe meglio per la Germania di Trump. Ma con lei non c’è il sole”.

Fare propaganda anti Meloni vuol dire soffiare sugli spiriti partigiani: cambiamenti strutturali avviati solo da governi Renzi e Draghi (ilriformista.it)

di Claudio Velardi

Caro Mario,

parto dalle tue conclusioni, con le quali (ohibò!) concordo: due anni dopo siamo al punto di partenza.

Nel senso che nessun problema strutturale del paese è stato finora affrontato dal governo in carica con il passo necessario, che dovrebbe avere la potenza e la velocità di un razzo di Musk. Perché il nostro paese, tra quelli europei, ha il più basso tasso di crescita della produttività non da ieri, ma dal 2000 (0,4% contro l’1,5% medio del continente).

E la vecchia Europa (il cui PIL, da qui a 20 anni, scenderà dal 15% al 10/12% del PIL globale) è l’epicentro dell’Occidente aggredito, oltre che da chi ci fa direttamente la guerra, dal mondo BRIC che cresce alla velocità della luce.

I dati fuorvianti

In questo quadro, che vuoi che faccia il governo Meloni? Certo, neppure ci prova. Si balocca con dati fuorvianti, il principale dei quali – quasi l’unico – è che l’occupazione italiana cresce (vero), ma è mal pagata e sempre meno qualificata, con i giovani bravi che scappano via dal paese; altri dati incoraggianti non ne conosco.

Mentre il governo, nelle sue varie articolazioni, sa usare, con addestrata esperienza, i più classici argomenti securitari (immigrati alle porte, città insicure, cancerose nostalgie verso un passato idealizzato) per dirottare le paure generate dalle trasformazioni (digitalizzazione, tecnologie, IA… Insomma la modernità in marcia) verso obiettivi di comodo: l’”altro” da noi, il diverso pronto a scardinare la nostra civiltà, e la solita sinistra nemica della triade Dio-Patria-Famiglia, emissaria delle élites che non si rassegnano al governo degli underdogs (e poco male se, al di là della Meloni, parecchi di questi underdogs sono brocchi veri).

Solo governi Renzi e Draghi avviato cambiamenti strutturali

Bene, qui finisce la filippica, buona per riempire il vuoto delle chiacchiere tra conoscenti perbene. E poi? Poi, per onestà, dobbiamo anche dirci che nei 25 anni di non-crescita e progressiva depressione dell’Italia ci sono stati governi di centro-sinistra (o tecnici equiparabili) per una dozzina d’anni e di centro-destra per 10.

E, sempre per onestà, dobbiamo aggiungere che nessun governo ha messo in moto nessuno di quei cambiamenti strutturali indispensabili (da fondare sulla triade libertà-mercato-mondo, altro che quell’altra…). Salvo (giudizi miei) il governo Renzi, scalzato per la sua ingenua arroganza giacobina, e il breve regno del supertecnico Draghi, che personalmente ancora rimpiango.

Tu potresti controbattere che questo è il passato, e che – visti i risultati non brillanti della Meloni – sarebbe comunque il caso di puntare, magari a breve, a costruirle un’alternativa, iniziando a pressarla su quello che non fa, mettendo su una coalizione alternativa ragionevole, un programma credibile e bla bla bla… Ma mi parleresti di cose che palesemente non si stanno facendo, dalle parti di Elly e della sua squinternata band.

E comunque il punto, caro Mario, non è neppure questo: il fixing dei rapporti tra Schlein, Conte, Fratoianni, Renzi &C è l’ultimo dei problemi, a mio avviso. Il punto è che, dopo 25 anni di incalzante trasformazione del mondo e di parallelo declino dell’Italia, si può legittimamente arrivare alla conclusione (provvisoria come tutte le cose della vita, ma al momento piuttosto condivisa nel comune sentire) che non è dall’alternarsi di coalizioni e partiti che ci si può aspettare un cambio di rotta, un’inversione di tendenza del piccolo pezzo di pianeta che abitiamo.

Dopo 25 anni dare stabilità e credibilità a sistema Italia

L’unica remota possibilità di migliorare le cose, sul medio-lungo periodo, sarebbe dare al sistema-Italia un minimo di stabilità e credibilità in più, magari unendo le forze, non organizzando gli eserciti contrapposti: ma questo, più che una speranza, è un sogno.

Mentre la sfida più concreta, stimolante e appassionante – almeno secondo me – sta nel costruire, giorno dopo giorno, la cultura diffusa, cosmopolita e moderna delle casematte della società civile (niente egemonia, dio scampi…), che – sole – possono far sperare in una crescita del paese reale.
Di qui la conclusione. Che si dica che il governo Meloni è “così così”, è splendido o fa schifo, non cambia le cose, neppure di un ette.

Le sorti di Giorgia dipenderanno da come riuscirà a districarsi nel caos crescente di casa sua, e dalla quantità di elettori/tifosi che andranno alle urne e, quando sarà il momento, decideranno. Ma, anche a questo fine, che si alzi la voce e si sparga una parola di propaganda in più contro il suo governo, non significa conquistare consensi ma solo soffiare sui bollenti spiriti dei partigiani.

Che continueranno, contenti loro, ad andare in cerca di qualche rivincita e non della soluzione dei problemi. Ma quella è una partita che non può appassionare i riformisti.

L’AfD espelle tre sospetti terroristi (bild.de)

di Michael Deutschmann

Un giorno dopo che le autorità hanno arrestato un 
presunto smantellato il gruppo terroristico 
estremista di destra l'AfD ha Sassonia ed espulse 
tre degli arrestati dal partito.

(Ora ex consigliere comunale dell’AfD: Kurt Hättasch (3° da sinistra) di Grimma Foto: Fonte: AfD)

In precedenza, si era saputo che tre degli otto arrestati dei cosiddetti “separatisti sassoni” erano anche membri e funzionari eletti dell’organizzazione giovanile “Giovane Alternativa”.

Tra loro c’era il consigliere comunale dell’AfD Kurt Hättasch di Grimma. Afd

“L’esecutivo statale dell’AfD sassone ha deciso all’unanimità l’immediato ritiro dei diritti di iscrizione e l’espulsione dal partito per Kurt H., Hans-Georg P. e Kevin R.”, ha annunciato mercoledì il partito. Il leader del partito Jörg Urban (60 anni) ha dichiarato di rifiutare qualsiasi forma di violenza nel dibattito politico. “Chiunque si armi, cerchi la vicinanza con i veri neonazisti e sostenga fantasie separatiste non ha posto nell’AfD”.

Ieri, l’AfD aveva già preso le distanze dai tre sospetti terroristi di destra imprigionati. Con un tale “gruppo separatista” presumibilmente neonazista, non abbiamo nulla in comune né in termini di contenuto né di organizzazione”, ha detto.

Nel frattempo, però, si è saputo che il consigliere comunale dell’AfD Kurt Hättasch non è solo tesoriere dell’organizzazione giovanile “Giovane Alternativa” (JA) e dell’esecutivo distrettuale dell’AfD, ma anche un dipendente del deputato statale Alexander Wiesner (35 anni) fino al suo arresto. Questo almeno confuta l’affermazione che essi non hanno nulla a che fare con i “separatisti sassoni” in termini di organizzazione.

Dopo il raid, gli agenti di polizia mettono al sicuro le tracce

(Dopo il raid, gli agenti di polizia mettono al sicuro le tracce Foto: JENS SCHLUETER/AFP)

Wiesner – presidente statale della JA tra il 2020 e il 2024 – ha poi licenziato il suo precedente dipendente Hättasch. Ciò è stato confermato dall’amministrazione del parlamento statale quando gli è stato chiesto.

Anche l’ufficio del presidente del parlamento statale della Sassonia, Alexander Dierks (37 anni, CDU), ha assicurato in una dichiarazione: “Kurt Hättasch non era il titolare di un pass per il parlamento statale sassone e non aveva accesso incontrollato all’edificio del parlamento”.