I passi falsi da evitare con Putin (corriere.it)

di Paolo Mieli

America e Ucraina

Domenica scorsa il Washington Post ha dato notizia di una telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin in cui il futuro presidente degli Stati Uniti aveva stabilito, anzi ristabilito, un rapporto cordiale con l’interlocutore.

Telefonata che, sempre secondo il giornale, si sarebbe conclusa con un’esortazione al leader russo a non procedere oltre nell’escalation militare in Ucraina. Il neoeletto capo di Stato Usa non ha ritenuto di rettificare la notizia proveniente da un giornale che non si era pronunciato nel corso della campagna elettorale e, di conseguenza, non poteva essere considerato come pregiudizialmente ostile nei suoi confronti.

Talché nessuno ha pensato a una trappola giornalistica. Il Cremlino ha preso tempo e ventiquattr’ore dopo ha definito lo scoop del giornale americano «pura fiction». Dalla successione temporale di queste mancate dichiarazioni e piccate reazioni si può intuire che la telefonata con ogni probabilità c’è stata. Ma Putin non ha gradito che la notizia del colloquio sia stata accompagnata dall’indiscrezione sull’invito di Trump ad attenuare l’uso delle armi in territorio ucraino.

E per fare capire meglio le proprie intenzioni, lo stesso Putin ha intensificato l’azione nel Donbass e a Kursk. Poi, la notte successiva, ha ordinato un attacco di missili e droni contro Kiev come non se ne vedevano da due mesi e mezzo.

L a successione di questi episodi, apparentemente relativi solo a un’indiscrezione giornalistica, può essere considerata come il primo passo falso di Trump. Prima delle elezioni, Trump aveva promesso che avrebbe risolto la crisi ucraina in un battibaleno. Adesso è costretto a constatare che ha di fronte un Putin diverso da quello con il quale dialogava quattro anni fa.

E che la faciloneria con la quale pensava di poter risolvere il caso — concedendo ai russi le terre «conquistate», lasciando l’Ucraina a secco e interponendo tra il Paese aggressore e quello aggredito un inesistente esercito europeo — è del tutto inadeguata.

Non solo perché umiliante nei confronti di Volodymyr Zelensky, gratificato oltretutto dall’entourage di Mar-a-Lago di autentiche offese e minacce di estromissione. Ma perché, al punto a cui è arrivata la guerra, questa prospettiva non sta in piedi.

Nella sola giornata di ieri il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ribadito al cospetto del Bundestag che non consegnerà i missili Taurus all’Ucraina. Il nuovo capo dell’Organizzazione dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte (per l’occasione assieme all’americano Antony Blinken), ha annunciato che la Nato darà una «risposta ferma» allo schieramento di soldati nordcoreani in Ucraina.

Sempre ieri Maria Zakharova ha detto che, se Kiev otterrà l’autorizzazione a colpire in profondità il territorio russo, l’«inevitabile» risposta sarà «distruttiva». Secondo il New York Times , nelle stesse ore lo speaker della Camera statunitense, Mike Johnson, avrebbe confidato, in un incontro a porte chiuse, ad alcuni deputati trumpiani che non saranno più inviati soldi all’Ucraina. Il caos, insomma.

A cui si aggiunge che ieri in Polonia è stato arrestato un cittadino bielorusso per un tentato incendio doloso a Danzica. Nella stessa Polonia, contemporaneamente, è stata inaugurata una base che fa parte del sistema missilistico balistico statunitense. Da Mosca sono giunte immediate proteste perché la suddetta base è a 230 chilometri dall’enclave russa di Kaliningrad. E potremmo continuare ancora. Insistendo in particolare sul ruolo e le potenzialità militari della Polonia.

Può darsi che alcune di queste parole siano solo chiacchiere al vento. Ma la nostra impressione è che Trump sia giunto non del tutto preparato all’appuntamento dell’emergenza in atto, fuori dai confini del suo Paese. Appuntamento con la Russia, ovviamente con l’Ucraina e con un’Europa a dir poco frastornata.

La situazione che Trump eredita da Joe Biden è assai più intricata di quella che quattro anni fa lo stesso Trump lasciò a Biden in materia d’Afghanistan. Per Biden gli obblighi relativi al passaggio di quelle consegne, fu all’origine, nell’agosto del ’21, del catastrofico ritiro da Kabul. Ritiro che costò all’allora Presidente degli Stati Uniti un danno d’immagine da cui non si è più ripreso. L’idea, adesso, di sgattaiolarsene via dall’Ucraina lasciando la patata bollente nelle mani dell’Europa (pur colpevolmente impreparata a tale eventualità) è semplicemente puerile.

Anche perché ne va dell’affidabilità della Casa Bianca per quel che riguarda l’altra crisi in atto, quella del Medio Oriente dove in queste stesse ore missili houthi hanno colpito navi americane. E al cospetto della Cina con cui il confronto sarà, per così dire, non semplice.

Inoltrarsi in questo modo lungo la via che dovrebbe portare ad un accordo per l’Ucraina fa tornare alla mente il Trump facilone che annunciò di aver ottenuto la pace tra le due Coree chiudendo con un colpo di bacchetta magica una situazione rimasta in sospeso dal 1953. Ci conviene per una volta far finta di credere ai russi e considerare quella del Washington Post come una notizia senza fondamento.

Sperare che il «primo» colloquio diretto tra Trump e Putin avvenga su altre basi. Che Trump, scottato da questo supposto passo falso, si disponga ad un costrutto più serio da proporre agli interlocutori. E che capisca dell’inutilità (o peggio) di affidarsi all’amichevole benevolenza di Putin.

Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini (ilmanifesto.it)

di Marinella Salvi

Scontro con la Slovenia

Respinta una mozione delle opposizioni perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita. Il tutto mentre “le due Gorizie” sono in corsa per essere – insieme – Capitale della cultura 2025

Gorizia e Nova Gorica capitali europee della cultura nel 2025. E’ la prima volta per una capitale della cultura transfrontaliera, un titolo riconosciuto a questa pianura di case giardini strade e capannoni attraversata dall’azzurro Isonzo che si incontra con il Vipacco e intorno le colline con i vigneti del Collio.

Sembra un tutt’uno ma sono due città e due nazioni diverse. Un confine sofferto, una storia ingombrante, cent’anni e più di battaglie sanguinose ma anche di convivenza e solidarietà.

Gente abituata a vivere assieme, amicizie, famiglie, impieghi, di qua e di là indifferentemente ma non manca qualche strascico fastidioso della sua storia disunita. Baci e abbracci pubblici tra i due sindaci, proclami di amicizia ad ogni piè sospinto ma ci sono stati e ci sono ancora spigoli, scivolate, cadute di gusto. Celebra la X Mas ogni anno a Gorizia e Casa Pound affigge i suoi manifesti e scende in strada con la benedizione del Comune.

Ancora D’Annunzio e i massacri titini e i territori perduti: non mancano mai i piagnistei sulle vittorie mutilate o comunque le rivendicazioni del primato italiano sul circondario slavo. Un virus che non si riesce a debellare, che corre da sud a nord lungo questo confine e ancora condiziona parole e gesti anche e soprattutto dentro le istituzioni.

Succede lunedì scorso che i consiglieri di minoranza nel Comune di Gorizia, amministrato dal centro-destra, presentino una mozione perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita a Mussolini illo tempore. Lo hanno già fatto alcuni comuni intorno a Gorizia e sembra un gesto ovvio anche per presentarsi con una faccia più pulita all’appuntamento del 2025.

La risposta del sindaco Ziberna ha i toni dell’aggressione, per più di venti minuti è un attacco violento a quella che ritiene “furia iconoclasta”. La mozione viene votata dagli undici consiglieri di minoranza, compatta la maggioranza nel bocciarla.

Protestano associazioni, gruppi, persone. La civica Eleonora Sartori che ha presentato la mozione ci mette un paio di giorni a commentare (“ho aspettato mi passasse il mal di stomaco”): “Io, e tanti con me, da tempo siamo pronti a una narrazione diversa, a un futuro davvero senza confini, non ostaggio del ‘900. GO!2025 se la merita tutto il territorio e il riconoscimento è arrivato grazie alle cittadine e ai cittadini che lo vivono ogni giorno, nonostante e non grazie alla politica. Quello che ci rimarrà non saranno i concerti, ma il significato simbolico che ha fatto sì che fossimo noi e non altri la prima capitale europea della cultura transfrontaliera. Se sarà un anno bellissimo, come credo, lo sarà non per gli eventi o per tutto ciò che verrà organizzato grazie ai tantissimi soldi stanziati, ma per ciò che abbiamo saputo costruire assieme prima e meglio delle istituzioni.”

Ancora una volta, anche la Slovenia fa sentire la propria delusione.

Il ministero degli esteri sloveno, guidato da Tanja Fajon, stigmatizza la scelta fatta dal Comune di Gorizia che vive come un tentativo di «approfondire le divisioni, relativizzare i fatti storici e sfruttarli per scopi politici quotidiani» e che getta ombre anche su Go!2025.

La Slovenia, ribadisce, è impegnata a «superare le divisioni storiche, a promuovere la cooperazione e la convivenza tra popoli e culture, specialmente nelle aree che hanno sperimentato per prime la brutalità del regime fascista».

Durissimo il sottosegretario di stato al ministero della cultura Marko Rusjan: “La questione non è chi si trova dalla parte del confine, ma chi si trova dalla parte sbagliata della storia. I partigiani sloveni, jugoslavi e italiani cooperarono e insieme sconfissero il male del fascismo in Europa. Da allora, generazioni di vicini su entrambi i lati del confine hanno vissuto in pace. Tra pochi mesi avrà inizio Go!2025, un progetto congiunto delle due città che porta esattamente questo messaggio di convivenza” per poi concludere: “Insieme abbiamo già sconfitto i fascisti una volta. E non permetteremo che le loro brutte copie nel 21° secolo relativizzino la storia che ha causato tanta miseria e che è stata superata grazie agli sforzi delle masse su entrambi i lati del confine”.

Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini

Le banche stanno bloccando i conti dei propagandisti di Putin per evitare sanzioni secondarie (linkiesta.it)

di

Congelamento antirusso

Dopo le nostre inchieste, l’avvio delle procedure sanzionatorie da parte dell’Ucraina e l’azione congiunta delle istituzioni europee, anche gli istituti di credito si muovono contro chi diffonde fake news al soldo di Mosca.

Così evitano il danno reputazionale e non vanno contro gli ultimi provvedimenti europei

Nei giorni scorsi Andrea Lucidi, il propagandista italiano che vive in Donbas, ha chiesto a Vladimir Putin la possibilità di avere la cittadinanza russa poiché si sente perseguitato dalle istituzioni europee e rischia, con l’arrivo delle sanzioni, di vedersi bloccati sia i conti correnti bancari sia la possibilità di muoversi liberamente in Europa (in base all’ultimo pacchetto di sanzioni dell’8 ottobre 2024).

Ma se i tempi della burocrazia non fossero rapidi, una prima scossa potrebbe arrivare dal mondo bancario.

Secondo quanto abbiamo appreso da fonti del mondo della finanza, alcuni istituti bancari italiani avrebbero avviato procedure per congelare in via cautelativa numerosi conti correnti bancari di privati, associazioni e società editoriali che avrebbero intrattenuto direttamente o indirettamente rapporti con personalità nei territori illegalmente occupati, società che si sono avvalse di stratagemmi per aggirare le sanzioni o che nelle loro attività sostengono attivamente l’invasione criminale di Putin e le tesi genocidarie del popolo ucraino.

Una scelta quella di molti istituti di credito italiani e stranieri dettata da una doppia necessità: evitare un danno reputazionale (sono molte infatti le realtà che per ricevere donazioni espongono su siti e canali Telegram le coordinate bancarie) e per scongiurare il problema delle cosiddette eventuali sanzioni secondarie, che con i pacchetti degli scorsi mesi vanno a colpire anche le strutture che offrono supporto alle entità sanzionabili.

Una scelta quella di molti istituti di credito italiani e stranieri dettata da una doppia necessità: evitare un danno reputazionale (sono molte infatti le realtà che per ricevere donazioni espongono su siti e canali Telegram le coordinate bancarie) e per scongiurare il problema delle cosiddette eventuali sanzioni secondarie, che con i pacchetti degli scorsi mesi vanno a colpire anche le strutture che offrono supporto alle entità sanzionabili. Inoltre le azioni degli istituti di credito in aderenza alle già esistenti previsioni legislative dell’Unione Europea a contrasto della propaganda Russa e fake news del Cremlino.

Gli alert degli istituti di credito hanno attivato le procedure interne del The Know Your Customer (Kyc), un processo di verifica delle identità dei clienti e delle transazioni atte a prevenire i versamenti illegali o di dubbia provenienza. Questa azione fa parte della normativa Anti-Money Laundering (Aml) che gli istituti di credito sono tenuti a seguire secondo le normative europee.

Al termine di questo iter scatta la segnalazione all’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (Uif), che nel sistema di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo è l’autorità che provvede ad acquisire le informazioni riguardanti le operazioni sospette per poi attivare un blocco bancario totale.

Sono finite nel mirino anche le numerose operazioni con criptovalute registrate, e l’utilizzo di carte prepagate e versamenti in contanti massicci.

L’attenzione del mondo della finanza e degli inquirenti è anche sul mondo del no-profit per comprendere se, come per il terrorismo di matrice islamista, vi sia una connessione tra attività fintamente benefiche e riciclaggio di denaro.

Una situazione difficile per i nostri concittadini, che questa volta difficilmente potranno contare sull’aiuto della grande madre russa.

Abbiamo usato i fatti di Amsterdam solo per confermare le nostre opinioni (rivistastudio.com)

di Bruno Montesano

Troppo impegnati a decidere se si è trattato di 
semplici risse o di nuovo pogrom, ci siamo persi 
la verità: da un anno è in atto una sorta di 
"scontro di civiltà", 

una guerra dalla quale usciremo tutti sconfitti.

Ad Amsterdam dei tifosi ebrei israeliani del Tel Aviv Maccabi hanno cantato cori a favore del genocidio del popolo palestinese (“olé, olé, facciamo vincere l’Idf, fotteremo gli arabi”, “non ci sono più ospedali perché non ci sono più bambini a Gaza”).

Questi hooligan – che avevano già pestato alcuni mesi fa una persona che portava la bandiera palestinese ad Atene – hanno anche attaccato un tassista. E non hanno rispettato il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Valencia in “protesta” per la posizione del governo spagnolo a favore di uno Stato palestinese.

La risposta di alcuni tassisti olandesi solidali con il collega e altri abitanti – e non degli ultras dell’Ajax, come inizialmente si diceva – è stata quella di attaccare tutti i tifosi ebrei israeliani in città, spesso con insulti antisemiti, in quella che alcuni hanno chiamato “caccia all’ebreo” (Jodenjacht). Cinque tifosi sono finiti in ospedale e tra le venti e le trenta persone hanno riportato ferite lievi.

Sembrerebbe che, da un lato, alcuni cittadini olandesi stessero preparando una protesta contro il massacro israeliano nella Striscia di Gaza e, dall’altro, che questa, dopo le violenze dei tifosi del Maccabi, sia sfociata in forme di razzismo antiebraico-israeliano. Un conto infatti sarebbe stato rispondere, anche con la violenza, ai tifosi razzisti israeliani.

Ma quello che è successo è stato diverso: gli assalitori hanno fermato persone per strada, chiedendo loro il passaporto, per poi aggredire il malcapitato se risultava israeliano qualificandolo come “cancro ebreo” (kanker joden). Inoltre, il 12 novembre, in una città in stato di emergenza e con i tifosi del Maccabi già tornati a casa, ci sono stati scontri con la polizia al grido di “ebrei di merda”.

I media italiani – e l’estrema destra internazionale, da Geert Wilders a Giorgia Meloni passando per Benjamin Netanyahu – hanno colto la palla al balzo e si sono messi a parlare di pogrom e di “Notte dei cristalli 2.0”: i fatti di Amsterdam si sono verificati, infatti, il giorno prima della giornata in ricordo della Notte dei cristalli del ’38.

Come al solito, alcuni ambienti della sinistra, invece di denunciare la strumentalizzazione islamofoba dell’accaduto e fare i dovuti distinguo, si sono messi a parlare sui social network di resistenza antifascista contro i nazisionisti.

Ci sono andati di mezzo altri civili israeliani innocenti, compresi dei minori? Sono marginali vittime collaterali, si risponde. À la guerre comme à la guerre, e poi “israeliani innocenti” è un ossimoro: sono tutti coloni, dagli zero ai novant’anni (come mostra il 7 ottobre).

Speculare – e certo più potente e diffusa – è stata la facilità con cui i media italiani hanno scritto che sono stati dei musulmani ad attaccare degli ebrei. Così come il riflesso pavloviano di riportare tutto al nazifascismo, come fatto, ad esempio e ovviamente, dal Foglio o come scritto da Ernesto Galli della Loggia, che non aspettava altro che avere un nuovo evento per chiedersi se “possiamo essere islamofobi davanti a questi eventi?” e rispondersi con un soddisfatto sì.

Ma il frame dello scontro di civiltà vale anche al contrario: all’islamofobia della destra si risponde troppo spesso con una minimizzazione sistematica dell’antisemitismo. La punizione collettiva degli ebrei israeliani ad Amsterdam (e non dei razzisti ebrei antipalestinesi) infatti rimanda a una logica di blocchi.

È il noi contro loro. L’estrema destra non aspetta altro, e infatti cavalca questa storia. Chi dice che ad Amsterdam sia andata in scena la resistenza partecipa allo stesso modo alla partita: è dell’altra squadra, ma partecipa. È un anno che assistiamo a questo gioco ed è evidente che non fa avanzare nessuno.

Anche la posizione degli ebrei è scivolosa, presi come sono tra due fuochi. Alcune rappresentanze delle comunità ebraiche parlano dell’insicurezza di vivere in Europa. Netanyahu e altri governi di destra gridano al pogrom mentre continuano a discriminare musulmani e migranti. I postfascisti si atteggiano ad amici degli ebrei per rilegittimarsi.

Al contempo, la questione dell’antisemitismo, a sinistra, è costantemente rimandata, venendo considerata sempre e solo come un problema di strumentalizzazione e mai come un fenomeno reale e in crescita. Questa logica bellica, di scontro frontale, è comune a molte discussioni.

La destra o il mainstream accusano di qualcosa qualcuno (la sinistra o i soggetti da questa difesi) e parte della sinistra risponde, in modo automatico, difendendo la propria parte senza alcun cedimento e ribaltando simmetricamente il punto di vista dell’avversario. Non c’è terreno possibile di dialogo, tutto – sia i fatti che le interpretazioni – diventa un’arma nello scontro.

Un esempio possibile, tra i tanti, che dimostra il funzionamento di questo meccanismo è un episodio avvenuto a Parigi nel 2018. In quell’occasione alcuni gilet jaunes hanno attaccato il filosofo neoconservatore Alain Finkielkraut al grido di “sporco sionista torna a Tel Aviv”.

Ma Finkielkraut, anche qualora accettassimo questa logica, non dovrebbe “tornare” in alcun Paese essendo un ebreo francese, non israeliano. Andrebbe attaccato per le sue idee ripugnanti e islamofobe, e non come uno “straniero” nella nazione di cui ha la cittadinanza. Non si attacca la persona giusta con i metodi sbagliati.

Intimare ad un cittadino di una minoranza di andare nel “proprio” Paese è un’azione razzista. “Torna in Israele, noi siamo il popolo” vuol dire infatti che il cittadino francese Finkielkraut non è considerato un vero cittadino e che il suo diritto alla residenza dipende da come la pensa e da cosa fa. Ma se si fosse trattato di un estremista di destra francese, non appartenente a una minoranza, non gli si sarebbe potuta dire la stessa cosa.

È tempo che quel che resta della sinistra affini le sue analisi su antisemitismo e antisionismo – ma il catalogo sarebbe lungo – così da accettare la propria mancanza di purezza. Antisemitismo e antisionismo non coincidono affatto, ma il secondo non esclude il primo. Per questo la Jerusalem Declaration sull’antisemitismo è meglio della IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) adottata da diversi governi europei, tra cui il nostro.

E se degli ebrei negano che l’antisemitismo a sinistra esista non vuol dire che ciò sia vero. Per ragioni strategiche alcune parti della sinistra decidono di sorvolare sulle proprie contraddizioni, come l’antisemitismo, ma così facendo, oltre a viziare la bontà dei loro fini con mezzi sbagliati, non riusciranno neanche a raggiungere l’esito atteso.

Non riconoscendo il nucleo di verità nelle ragioni dell’altro, solo lo scontro potrà risolvere la contesa. Ma in uno scontro di civiltà così pervertito e ribaltato vince comunque chi ha più forza.

E, di solito, purtroppo non è la sinistra.

 (Foto di Jeroen Jumlet/Anp/Afp via Getty Images)

Ecco come il nostro ministero degli Esteri sottovaluta la propaganda russa (linkiesta.it)

di

Il sonno della Farnesina

Andrea Lucidi e Vincenzo Lorusso, i due italiani che fanno da megafono alle bugie del Cremlino, operano illegalmente in un territorio ucraino occupato dai russi.

Il primo è stato più volte segnalato dagli ucraini a Tajani, ma Roma non ha mai mosso un dito. Ora Kyjiv e Bruxelles cominciano a muoversi al fine di svegliare il ministro dal torpore

In questa serie di articoli che nel corso di queste settimane vi abbiamo proposto c’è stata la puntuale analisi di azioni e di iniziative fuori dal quadro della legalità e delle disposizioni europee da parte di soggetti che agiscono, tramite committenti privati, per rilanciare la propaganda del Cremlino, e che passano sotto il silenzio delle istituzioni e del governo italiano.

Non siamo nel Regno Unito, dove il ministro degli Esteri David Lammy ha definito i tentativi di interferenze e di disinformazione come un’emergenza nazionale: siamo molto più semplicemente in Italia, patria del compromesso e dell’ignavia, terra quindi prospera per essere cassa di risonanza e ricettacolo di ogni genere di nefandezze.

Più volte abbiamo analizzato il caso di Andrea Lucidi e di Vincenzo Lorusso, i due “freelance” della propaganda putiniana in Italia, più volte abbiamo raccontato modalità di finanziamento e di azione nella sfera del dibattito pubblico italiano, ma se la loro missione lavorativa per conto terzi è nota, non è nota la modalità in cui avviene.

Secondo quanto appreso da fonti del Ministero dell’Interno ucraino, Lucidi e Lorusso si troverebbero in territorio ucraino occupato dall’esercito russo in modo irregolare, poiché non hanno nessun permesso del governo di Kyjiv che per il diritto internazionale ha la giurisdizione nelle aree del Donbas e del Luhansk.

Infatti, secondo il Regolamento dell’ingresso nel territorio della Repubblica d’Ucraina temporaneamente occupato (Decreto del Gabinetto dei Ministri dell’Ucraina N. 367 del 4 giugno 2015), ogni cittadino straniero che vive, lavora, e opera in suddetti territori deve essere autorizzato prima di entrare, e può permanere per un numero limitato di mesi.

Fra l’altro, il Regolamento prevede che l’ingresso dei cittadini stranieri e delle persone senza cittadinanza nel territorio ucraino temporaneamente occupato dai russi si svolga tramite punti di controllo. Le persone devono essere munite del passaporto valido e del permesso speciale, rilasciato dall’organo territoriale del Servizio Statale delle migrazioni.

Ovviamente Lucidi e Lorusso non hanno cittadinanza ucraina, e tanto meno visti o permessi di soggiorno, e quindi risiedono illegalmente nel Paese dove svolgono un’attività giornalistica che diffonde contenuti giustificazionisti della politica genocidaria del Cremlino.

La situazione di Lucidi è stata più volte segnalata dalle autorità ucraine al ministero degli Affari Esteri e allo stesso ministro Antonio Tajani, che a oggi – secondo quanto apprendiamo – non hanno intrapreso nessuna iniziativa significativa.

La diplomazia ucraina ha chiesto al ministero a più riprese, dopo il deposito di un’istruttoria accurata, di procedere con l’inserimento del propagandista nell’elenco dei sanzionati. La risposta è stata sorprendente: «L’Italia applica solo le sanzioni europee o internazionali».

Anche per questo motivo nel corso dei giorni scorsi è iniziato l’iter per includere Lucidi e Lorusso tra i sanzionati del governo ucraino, per poi trasmettere formale richiesta all’Alto Rappresentante designato della politica estera europea, Kaja Kallas, per rendere il provvedimento omogeneo in tutta Europa, anche in virtù del nuovo pacchetto di sanzioni approvato lo scorso ottobre dal Consiglio europeo che prevede per propagandisti e agenti stranieri il blocco dei beni e divieto di viaggi internazionali.

E Mosca spinge le voci sul «sostituire» Zelensky (corriere.it)

di Lorenzo Cremonesi

L'agenzia russa Tass: gli Stati Uniti vogliono 
nuove elezioni. 

E sui social gira lo sfottò di Donald Jr. Trump

Mosca spinge le voci sul «sostituire» Zelensky, lo sfottò di Donald jr.

Davvero il dipartimento di Stato americano starebbe lavorando per organizzare le elezioni ucraine al fine di sostituire il «presuntuoso» Volodymyr Zelensky?

Lo sostiene da Mosca l’agenzia di stampa russa Tass citando il Servizio dell’intelligence estera. Vista da Kiev la notizia appare semplicemente ridicola. Non ne parla nessun politico, neppure i più critici del presidente, e non si trova alcun accenno in proposito sui media locali.

«Pura propaganda, la solita disinformazia della dittatura di Putin», si limitano a commentare ufficiosamente i portavoce di rango più basso, se proprio tirati per la giacca, ma desiderosi di non dare alcun peso al tema.

C’è da aggiungere che il figlio di Trump ha postato sui social una foto di Zelensky con la didascalia: «Pov, punto di vista: mancano 38 giorni alla perdita della tua paghetta». Un’ambigua provocazione? I 38 giorni potrebbero riferirsi al 17 dicembre, quando i grandi elettori in Usa si riuniranno per esprimere il loro voto per il presidente e il suo vice in base ai risultati del 5 novembre.

E il messaggio sembra ribadire l’intenzione di Trump di bloccare l’invio di aiuti all’Ucraina al più presto. Ma tutto ciò deve essere ancora verificato e non è neppure detto che nel caos delle fake news anche questo non sia un falso.

Quanto alla questione delle elezioni, la posizione ufficiale ucraina non è mai cambiata dall’entrata in vigore della legge marziale promulgata dal presidente nel primo giorno dell’invasione russa il 24 febbraio 2022. Un passo ritenuto legittimo dalle forze politiche locali e contemplato dalle convenzioni internazionali nella circostanza eccezionale dell’aggressione armata contro uno Stato sovrano.

In questo contesto, Zelensky ha l’autorità di bloccare il normale gioco democratico e la tenuta delle elezioni sino alla fine della guerra. Nessun leader dell’opposizione o partito politico ha mai protestato sino ad oggi. In Ucraina resta solido il consenso per cui si voterà appena dopo la fine della guerra e lo stesso Zelensky lo ha ripetuto più volte durante gli ultimi quasi 1.000 giorni di crisi militare.

Lo scorso 25 ottobre il capo dell’ufficio presidenziale e uomo forte dell’esecutivo, Andriy Yermak, nella sua intervista al Corriere si è dilungato nell’argomentare i motivi dell’impossibilità del voto mentre ancora sparano i cannoni. «Il processo elettorale è soltanto momentaneamente sospeso, certo non annullato.

L’Ucraina era e resta un Paese democratico deciso ad entrare in Europa seguendo le regole comunitarie», ci ha spiegato. «Ma i motivi del rinvio delle elezioni sono evidenti per almeno tre ragioni. In primo luogo, la libera competizione politica rischia di dividere il Paese in un momento in cui serve invece la coesione interna per fare fronte all’aggressione.

Secondo: la popolazione nei territori occupati non potrebbe avere accesso alle urne e la cosa sembrerebbe legittimare l’abuso russo. E anche i soldati al fronte avrebbero enormi difficoltà nell’esercitare il loro diritto. Terzo: milioni di nostri concittadini sono profughi all’estero e torneranno solo dopo la fine del conflitto».

C’è da aggiungere che gli ultimi sondaggi danno la popolarità di Zelensky al 59 per cento, in forte diminuzione rispetto al 90 nei primi giorni del conflitto. Secondo alcuni rilevamenti dell’Università di Leopoli, potrebbe essere addirittura scesa tra il 40 e 30 per cento.

Parecchi commentatori fanno il paragone con Churchill, che condusse l’Inghilterra alla vittoria contro il nazismo, ma venne sconfitto alle urne appena dopo la fine della guerra.