La cinica geopolitica dalemiana, e la lunga, lunghissima, nottata che attende l’Ucraina (linkiesta.it)

di

Buonanotte, Kyjiv

Tra nostalgia romanzata e verità alternative, l’ex leader dei Ds liquida la causa degli ucraini come un incidente della Storia, sostenendo che la vittoria della Russia sarà inevitabile perché è una potenza troppo grande e per essere fermata.

Purtroppo non è l’unico a pensarla così a sinistra

«Sento leader europei dire: “Vinceremo la guerra contro la Russia”: una sciocchezza. La Russia è una potenza nucleare, non si lascerà sconfiggere. Non perché c’è Putin ma perché sono russi. Ma quali libri hanno letto da ragazzi questi nuovi governanti?». Con la consueta cultura del dubbio che da sempre lo anima, Massimo D’Alema, in una lunga intervista a Domani, ne dice diverse di cose che se fossimo lui definiremmo sciocchezze, ma siccome non siamo lui definiremmo come minimo opinabili, diciamo. È

evidente che l’ex ministro degli Esteri (oggi osservatore con interessi di tutt’altro tipo, commerciali, diciamo) considera la difesa dell’Ucraina una velleità, una specie di obolo da pagare alla dignità di quel popolo, ma soprattutto una causa impolitica, una sconfitta prevedibile, annunciata, inevitabile perché «la Russia non si lascerà sconfiggere»: e dove sta scritto?

Certo, in “Guerra e pace” (lo hanno letto tutti, anche «questi nuovi governanti») ma per venire a tempi più recenti è anche vero che la beneamata Unione sovietica dovette abbandonare l’Afghanistan a gambe levate, e poi bombarda l’Ucraina da due anni e mezzo senza riuscire a sottomettere Kyjiv, segno che anche gli indomiti russi non sono così imbattibili tanto che hanno dovuto chiedere una mano ai nordcoreani giunti alle porte dell’Europa, una follia nella follia.

Tutto questo dimostra che i carri armati di Putin possono essere fermati e il regime di Mosca costretto a una trattativa con l’Ucraina in piedi: o per meglio dire così sarebbe potuto andare se il 5 novembre non avesse vinto Donald Trump.

Ora che nella sostanza Joe Biden non è già più alla casa Bianca (Joe Biden, altro che «questi nuovi governanti», uno che si occupa di politica estera più o meno da quando D’Alema, da “Pioniere”, dava i fiori a Palmiro Togliatti al IX congresso del Partito comunista italiano), è facile dire che la Russia non perderà: Kyjiv la stanno già svendendo.

L’ex leader della sinistra italiana non è «contento» della pax putinian-trumpiana ma in fondo sì, la pace prima di tutto e non c’importa degli altri, come cantava Adriano Celentano, cioè di quegli ucraini che potrebbero vedersi togliere pezzi della loro Patria del tutto illegittimamente, dopo un atto di forza condannato da tutti i paesi liberi.

«Noi» – non si stanca di ripetere l’ex ministro degli Esteri – facevamo politica: con Bill Clinton ma anche andando oltre Bill Clinton («noi cercavamo una soluzione per il dopoguerra. Si convinse») all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia: come se quel conflitto fosse paragonabile all’aggressione di una grande potenza militare come la Russia ai danni di un Paese sovrano.

Ma già, la colpa dell’invasione non è dell’invasore ma dell’Occidente che lo ha fatto innervosire con la strategia dell’allargamento della Nato – anche qui, che c’importa della volontà dei paesi che liberamente vogliono stare “da questa parte” – e questa è esattamente l’argomentazione del Cremlino per giustificare l’aggressione. Invadere è stata un’esagerazione («la responsabilità è di Putin»), ma la responsabilità è dell’America che guida la Nato, diciamo.

Coincidenza, ieri Sergio Mattarella, che ebbe la ventura di essere il vicepresidente del governo guidato da D’Alema (vedi la Storia com’è strana) ha affermato l’opposto: «Risalta oggi come l’Alleanza Atlantica abbia contribuito, in modo determinante, alla stabilità internazionale e al più lungo periodo di pace vissuto dal Continente europeo, saldo ancoraggio per la sicurezza del nostro Paese. La attuale fase di instabilità conferma la validità di quelle scelte.

L’inaccettabile aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e il conflitto in Medio Oriente ne sono ragioni evidenti». È assai probabile che tra la lettura dell’ex capo dei Ds e quella del presidente della Repubblica un bel pezzo della sinistra non solo quella rossobruna degli estremisti ma anche di quella del Partito democratico preferisca la prima. Adesso – sostiene D’Alema – «serve la poliitica»: ma senza gente come “noi” che eravamo tanto bravi  chi sarà in grado di farla?

Meno male che Donald c’è, pensa l’ex lìder Maximo la sera prima di mettere la testa sul cuscino. E buonanotte, Ucraina.

Scarti umani – Candidato fascista, No Vax e No gender

Un giorno col candidato: Teodori. No gender, No euro e No vax (ilrestodelcarlino.it)

“Destra e sinistra? Superate”. 

Campagna elettorale a mezzo servizio, perché deve tenere aperto il negozio La profezia: “L’onda americana arriverà anche qui, l’attuale classe politica sarà travolta”

Ultimo viaggio con i candidati alla presidenza della Regione. Il Carlino ha passato una giornata insieme con Luca Teodori, sostenuto da ’Lealtà, Coerenza, Verità.

Luca Teodori, ferrarese, 56 anni, seduto al centro con la camicia azzurra circondato dai suoi sostenitori

(Luca Teodori, ferrarese, 56 anni, seduto al centro con la camicia azzurra circondato dai suoi sostenitori)

L’outsider di queste elezioni Regionali si presenta come il candidato della porta accanto, ma basta parlarci qualche minuto che si lascia andare a idee con forti accenti anti-sistema.

“Non sono un politico di professione, come tutti devo portare a scuola i figli, aprire il mio negozio, tornare a casa da mia moglie la sera. L’attività politica la faccio, ma dopo (o durante) le mie faccende quotidiane. O in pausa pranzo e nei weekend. La mia vita è quella di un qualsiasi normale cittadino anche in campagna elettorale”, dice Luca Teodori, aspirante governatore di ’Lealtà, Coerenza, Verità’.

Una lista civica che mette insieme le esperienze di Italexit, Isp, Udcl e Vita contro gli obblighi vaccinali, contro il ‘dominio’ dell’Unione Europea e della Nato, a favore della sovranità monetaria rispetto alla finanza, con idee come quella di creare una moneta regionale.

Teodori, attivista no-vax nel periodo del Covid (“l’obbligo vaccinale di massa durante la pandemia è stata una truffa”, ripete) e già segretario politico del movimento ’Vaccini Vogliamo Verità’, è ferrarese, ha 56 anni e come segno zodiacale è “scorpione ascendente scorpione”, come ci tiene a sottolineare.

La sua giornata elettorale inizia nella sua Ferrara come sempre attorno alle 7.30, quando va a prendere la colazione per le due bambine, dopo una breve passeggiata. Poi, accompagna la figlia alle elementari, e nel tragitto inizia a dettagliare i capisaldi del suo programma: “Quando diciamo no alla propaganda gender e Lgbt nelle scuole e no agli obblighi vaccinali pediatrici sappiamo di che cosa parliamo…”

Un’oretta dopo, si sposta a Copparo per aprire alle 8.30 il suo negozio del settore auto, un’attività che porta avanti da circa vent’anni. In pausa pranzo si dedica agli impegni politici. E, così, alle 12.30 Teodori raggiunge il corteo dei sindacati a favore della Berco, l’azienda metalmeccanica di Copparo, nel Ferrarese, che vede 480 dipendenti a rischio licenziamento.

L’aspirante presidente anti-sistema, però, sta in disparte. “Non mi piace speculare sulle persone, non sono qui per fare comizi”, taglia corto. E si presenta una mezz’ora dopo davanti ai cancelli della fabbrica per portare la sua solidarietà ai lavoratori. Poi fa la sua analisi personale della crisi: “Tutto nasce dall’ingresso nell’euro, basta guardare la curva della diminuzione dei salari…”.

La pausa pranzo è quasi terminata, sono le 14 e Teodori deve riaprire il negozio. Nel frattempo, però, “devo studiare un documento recapitato da alcuni agricoltori”, e fissare un incontro con “un comitato di cittadini di Bologna sul tema della sicurezza. Ci sono sempre più persone e commercianti che si sentono insicuri in tutto il nostro territorio. Questo è un problema concreto, ma che la classe politica sottovaluta.

La sinistra a livello ideologico fa fatica a parlarne, la destra si concentra solo sull’immigrazione”. Mentre è al lavoro, spiega, quindi, il suo pensiero oltre la destra e la sinistra: “Sono categorie superate. Magari posso essere d’accordo con l’uno o con l’altro su certe questioni, ma ciò che manca loro è la coerenza. Cosa che, invece, riguarda noi che siamo la vera novità di queste elezioni”.

Nessuna vicinanza al ’centro’: “Vorrebbe dire essere come Antonio Tajani o Matteo Renzi, per carità”. Alle 18.30 Teodori esce dal lavoro, un breve passaggio a Ferrara, per poi ripartire verso Reggio-Emilia per un incontro sulla scuola assieme a candidati e candidate della lista ’Lealtà, Coerenza, Verità’.

Prima di uscire, si lascia andare a una sua personale analisi delle elezioni Usa: “Trump ha vinto le elezioni grazie al voto dei No Vax. E quest’onda arriverà anche in Italia. Credo, anzi, che questa classe politica verrà travolta ancora di più che durante Tangentopoli”.

Con gli Usa negazionisti, l’azione climatica dipende dall’Europa (lavoce.info)

di   e 

Il secondo mandato di Trump avrà conseguenze 
sulle politiche del clima a livello internazionale. 

Molto probabilmente gli Usa usciranno dall’Accordo di Parigi e forse abbandoneranno anche l’Unfccc. L’Europa deve tornare a esercitare un ruolo di leadership.

I riflessi delle presidenziali Usa sulla Cop29

Le conseguenze per l’azione climatica internazionale del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca si potrebbero vedere già presto. Lunedì 11 novembre si aprirà infatti a Baku la 29esima Conferenza delle parti (Cop29) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), trattato firmato a Rio de Janeiro nel 1992, in cui per la prima volta i governi hanno riconosciuto la necessità di ridurre le emissioni di gas serra.

Se la storia del coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo delle Cop non è mai stata lineare, con la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto – al contrario ad esempio di quella dell’Unione europea, che ha guidato la leadership climatica internazionale sin dalla firma dei primi trattati -, il punto in cui gli Usa si sono più distaccati dal processo multilaterale per l’azione climatica è stato sotto la presidenza Trump, quando, nel 2017, si sono ritirati dall’Accordo di Parigi, il trattato su cui si fondano tutt’oggi gli sforzi di mitigazione e adattamento di tutti gli stati del mondo.

L’offensiva contro Accordo di Parigi e Unfccc

Il presidente Trump uscirà quindi di nuovo dall’Accordo di Parigi? Le probabilità sono alte (nonostante i target di Parigi siano già stati sorpassati nei fatti l’anno scorso), aumentate dalla facilità di ritirarsi dal trattato, che non è stato ratificato dal Senato.

È molto probabile però che si spinga addirittura oltre: tra le bozze di ordini esecutivi che potrebbe firmare nei suoi primissimi giorni nello Studio Ovale ce n’è uno che prevede la decisione degli Stati Uniti di uscire dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc).

Dal punto di vista legale, potrebbe essere più difficile, perché gli Stati Uniti hanno aderito all’Unfccc attraverso il processo di ratifica del Senato e, secondo molti, potrebbe essere necessaria una nuova votazione per l’uscita. Questa volta però, al contrario del primo tentativo nel 2017, Trump potrebbe avere il tempo di trovare una solida maggioranza a favore.

Durante la campagna elettorale, infatti, Trump ha più volte promesso di invertire la rotta dell’amministrazione Biden che negli ultimi quattro anni ha cercato di ripristinare la credibilità e la leadership degli Stati Uniti negli sforzi globali per il clima.

Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, quasi 200 paesi si sono impegnati a limitare l’aumento della temperatura globale a lungo termine a 2°C sopra i livelli preindustriali e, idealmente, a 1,5°C. Gli Stati Uniti però sono la più grande economia del mondo, con un Pil annuo di oltre 27mila miliardi nel 2023 (contro i circa 18mila dell’Unione europea e della Cina), ma sono anche il secondo emettitore di gas a effetto serra, responsabili del 13 per cento delle emissioni globali, preceduti solo dalla Cina (con più del 30 per cento).

Il ritiro dall’Accordo di Parigi e forse anche dall’Unfccc non solo implicherebbe un aumento delle emissioni stimato di 4 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030, ma anche un freno all’efficacia delle negoziazioni della Cop29, in cui andrà ridiscussa l’ambizione dei piani climatici nazionali (le Nationally Determined Contributions, Ndc) e un nuovo obiettivo per la finanza per il clima nei paesi in via di sviluppo.

Infatti, prima ancora del possibile ritiro dai trattati sul clima (di cui comunque, eventualmente, si discuterà a gennaio dopo che il nuovo presidente sarà entrato in carica, con molta probabilità già durante la Cop29 assisteremo al ritorno di una diplomazia incentrata su una retorica aggressiva, al motto di “America first”, che punta il dito contro le altre potenze globali, in primo luogo la Cina.

Alla Conferenza parteciperanno rappresentanti statunitensi ancora legati all’amministrazione Biden, ma sarà complicato per loro mantenere un clima cooperativo. Inoltre, la consapevolezza di un’inaffidabilità dell’amministrazione Trump in ambito climatico rischia di minare la credibilità della posizione che i negoziatori statunitensi difenderanno.

Allo stesso tempo, c’è chi sostiene che il risultato potrebbe in realtà essere opposto: il ritiro degli Stati Uniti da una posizione di leadership climatica lascerebbe libero lo spazio per altri paesi, in particolare la Cina, per affermarsi come leader nell’arena climatica internazionale, con vantaggi in un periodo di forti tensioni sulle catene del valore delle tecnologie verdi.

Le negoziazioni della Cop29

Memori dello shock che l’elezione di Trump provocò durante la Cop22 di Marrakesh nel 2016, alcuni negoziatori hanno già lavorato negli ultimi mesi per creare le premesse per un’azione climatica immune al cambio della guardia alla Casa Bianca, attraverso canali di diplomazia climatica che non passino da Washington: alcuni funzionari del Maryland e della California, ad esempio, hanno incontrato degli omologhi cinesi per discutere della prosecuzione della collaborazione sul clima a livello subnazionale; il capo negoziatore statunitense per il clima, John Podesta, ha avuto colloqui con la sua controparte cinese.

Rimane comunque alta la probabilità che l’elezione di Trump crei maggiori difficoltà nell’avanzamento dei negoziati alla Cop29, specialmente se il nuovo presidente deciderà di sfruttare questa finestra di visibilità per riaffermare la propria posizione in ambito climatico ed energetico, o, peggio, se annuncerà impegni di uscita dai negoziati dopo il suo insediamento a gennaio.

Se l’uscita dall’Accordo di Parigi minerebbe già sensibilmente l’ambizione dell’azione climatica internazionale, con la revoca dall’Unfccc gli Stati Uniti non parteciperebbero più ai negoziati delle Cop tout court, logorandone alla radice l’efficacia, già da molti contestata, e compromettendo il multilateralismo in ambito climatico.

Secondo l’analisi di Carbon Brief la presidenza Trump potrebbe aggiungere 4 miliardi di tonnellate di gas-serra, in CO2 equivalente, entro il 2030 (figura 1) rendendo impossibile anche solo intravedere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050. Un target che invece l’Unione europea ha messo al centro della sua strategia climatica.

Con la rielezione di Trump, l’Unione europea dovrà svolgere un ruolo di leadership e di mediazione con il blocco di paesi non industrializzati all’interno della Cop, a partire dalla Cina, spingendo su una maggior cooperazione sul clima e sulle catene di valore relative alle tecnologie verdi.

A livello europeo, infatti, un declino della rilevanza della diplomazia climatica avrebbe implicazioni problematiche non solo per l’indebolimento della strategia economica del blocco portata avanti dalla prima Commissione von der Leyen, orientata verso le zero emissioni nette, ma anche per l’integrazione europea. Infatti, è nel dossier ambientale e climatico che l’Unione ha storicamente trovato un ambito in cui parlare con una sola voce e per una causa ritenuta giusta, forgiando un “soft power” sia a livello internazionale che domestico.

L’assenza alla COP29 della Presidente Von der Leyen, però, accanto a quella di Macron, Putin, Biden e Lula, non è un segnale positivo. Il rischio è che si perda di vista l’obiettivo più urgente e importante di questo secolo: agire velocemente per frenare la crescita delle emissioni e investire per adattarsi ai cambiamenti climatici inevitabili già in atto.

(Figura 1 – Emissioni di gas a effetto serra, miliardi di tonnellate di CO2e)

Scontri tra tifosi ad Amsterdam o “pogrom organizzato”? (butac.it)

di 

Scommettiamo che ad ascoltare solo una delle due 
parti la risposta sembra semplice. 

Ed è il motivo per cui riportare acriticamente solo la versione di una delle due parti molto spesso è sbagliato…

Ad Amsterdam la settimana scorsa sono avvenuti scontri che hanno portato a numerosi feriti e svariati arresti. In Italia, e su tante testate internazionali, la notizia è passata come un attacco mirato contro i tifosi ebrei del Maccabi, o in generale contro gli ebrei, riportando addirittura la definizione di “pogrom” o il paragone con la notte dei Cristalli data da Netanyahu.

Noi riteniamo vada fatta un po’ di chiarezza sui fatti, anche per non mancare di rispetto alla memoria di quelli che sono stati perseguitati proprio a causa della loro appartenenza religiosa. E lo facciamo come sempre andando a cercare le notizie alla fonte, che in questo caso sono i quotidiani olandesi, unici sul posto ad aver documentato quanto avvenuto.

La prima cosa che sottolineiamo è che BUTAC non ha una posizione a favore o contro qualcuno, come sempre cerchiamo di stare dalla parte della corretta informazione, anche quando non è così facile.

Il prepartita

Partiamo con un articolo del 7 novembre pubblicato sul sito dell’emittente olandese PowNed, articolo uscito prima che la partita di calcio tra Maccabi Tel Aviv e Ajax si giocasse, e dunque che gli scontri post partita – quelli a cui quasi tutti fanno riferimento – avvenissero. Articolo che titola:

I tifosi del Maccabi Tel Aviv strappano le bandiere della Palestina dalle case nel 020 (codice del distretto di Amsterdam ndmaicolengel), scontro con i tassisti

Ma come? Non erano i tifosi del Maccabi ad aver subito attacchi? A quanto pare prima degli attacchi avvenuti nel post partita erano successe altre cose, che quasi nessuna testata italiana ha riportato. Vi incollo alcune parti dell’articolo di PowNed:

Stasera l’Ajax gioca in Europa League contro i suoi amici israeliani del Maccabi Tel Aviv e penseresti: è una bella chiacchierata tra due club con radici ebraiche, ma ovviamente c’è gente (gente di sinistra) ad Amsterdam che guarda la cosa molto diversamente. In tutta la città hanno appeso volantini contro il club israeliano e dove c’erano i tifosi del Maccabi in città sono apparse bandiere palestinesi ovunque. I tifosi del Maccabi hanno reagito contro questo. 

Ad esempio, una bandiera palestinese è stata rimossa dalla facciata di un edificio a Rokin, al grido di Vaffanculo Palestina.

Si dice che sia stata data alle fiamme anche una bandiera. Inoltre, ci sarebbe stato uno scontro tra tifosi del Maccabi e tassisti a Max Euweplein. I sostenitori israeliani sarebbero poi fuggiti all’Holland Casino. Anche l’auto di un tassista sarebbe stata colpita con una cintura.

E ancora:

Ad Amsterdam prima della partita alcuni gruppi erano pronti protestare contro gli israeliani, ma le proteste sono state vietate dalla sindaca della città, Femke Halsema, dopo che su Telegram erano circolati post molto violenti. Pertanto mentre i tifosi del Maccabi nel prepartita sono stati lasciati liberi di muoversi e comportarsi come descritto da PowNed – e mostrato in tantissimi video presenti su svariate piattaforme – ai loro antagonisti è stato vietato farlo.

Sostenere che si sia trattato di una “caccia all’ebreo” o arrivare a usare termini come “pogrom organizzato” è a nostro avviso terribilmente sbagliato. Ci sono stati scontri, che non hanno avuto nulla a che fare con i tifosi della partita, scontri tra sostenitori della Palestina e sostenitori di Israele, scontri che forse non era difficile prevedere visto appunto le premesse del prepartita. Come spiegato dal New York Times:

Amsterdam, patria di migliaia di immigrati provenienti da paesi islamici, ha visto regolarmente marce e dimostrazioni pro-palestinesi negli ultimi 15 mesi e ospitare una squadra israeliana in una partita di alto profilo era stato considerato un evento ad alto rischio dalle autorità locali.

La presenza di circa 1.000 tifosi in trasferta non ha fatto molto per placare un’atmosfera tesa e sui social media sono stati ampiamente condivisi video che sembravano mostrare sostenitori del Maccabi che cantavano slogan anti-arabi. Il Maccabi ha anche una storia problematica con una parte dei suoi sostenitori, con il loro gruppo ultras che è stato precedentemente accusato di usare un linguaggio razzista.

Concludendo

Questo non giustifica la violenza, ma speriamo che sia chiaro che le colpe non sono solo da un lato della barricata. BUTAC, come sa chi ci legge con regolarità, da sempre cerca di stare con la corretta informazione, anche quando è complesso farlo.

Ci auguriamo, coi link qui sopra, di avervi dato materiale su cui riflettere, ricordandovi nuovamente che su certi argomenti non è sempre una questione di bianco o nero, ma spesso di sfumature di grigio.