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La riforma del catasto porterà a un aumento delle tasse? (valigiablu.it)

di 

In poco meno di una settimana 

la maggioranza che sostiene il governo guidato da Mario Draghi si è divisa due volte al voto in Commissione Finanze alla Camera, dove è all’esame il disegno di legge delega sulla riforma fiscale.

In entrambe le occasioni, il 3 marzo e l’8 marzo, l’oggetto della divisione è stata la revisione del catasto, e più nello specifico due emendamenti, sostenuti anche da Forza Italia e dalla Lega (che sono al governo), per modificare le proposte dell’esecutivo che chiedono di aggiornare il sistema catastale italiano. Per un solo voto di scarto entrambi gli emendamenti non sono passati.

Da tempo, il centrodestra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) è compatto nell’opporsi alla revisione del catasto contenuta nella legge delega sul fisco, perché sostiene che si tratti di fatto di un tentativo mascherato per aumentare le imposte sulla casa. Il 9 marzo, durante un’interrogazione alla Camera dei deputati, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ribadito che «nessuno pagherà più tasse» per effetto di quanto previsto dalla legge delega.

Il centrosinistra, e in particolare il Partito democratico, ha più volte ribadito la necessità di approvare la riforma, perché sarebbe tra le condizioni per ricevere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato con risorse europee per far fronte alla crisi causata dalla pandemia. Chi ha ragione in questo dibattito, sempre più confuso? Entrambi gli schieramenti, nel portare avanti le loro ragioni, stanno commettendo errori.

Un catasto vecchio e iniquo

Semplificando un po’, il catasto è l’inventario di tutti i beni immobili presenti sul territorio italiano. Come ha sottolineato un recente dossier della Camera, uno dei suoi problemi principali è quello di essere ormai troppo vecchio, fondandosi su una disciplina «sostanzialmente risalente al 1939». La formazione del catasto è in realtà iniziata nel 1886 ed è stata completata nel 1956, quasi settant’anni fa.

Uno dei concetti principali su cui si basa il nostro catasto è quello della “rendita catastale”. Questa parola, dal sapore particolarmente tecnico, fa riferimento al valore reddituale che il sistema catastale attribuisce a un immobile che può generare reddito per fini fiscali.

Il valore della rendita si calcola considerando diversi fattori, dalla grandezza dell’immobile alla zona in cui si trova in una città. In parole più semplici, la rendita catastale di un immobile dovrebbe più o meno equivalere al valore di un affitto che un proprietario otterrebbe se decidesse di mettere in affitto, appunto, un proprio immobile.

Uno dei problemi principali del catasto è che, a causa del passare del tempo, le rendite catastali degli immobili italiani sono ormai diventate sballate: il loro valore, insomma, non corrisponde più a quello di un ipotetico affitto che possono generare.

Come ha spiegato due anni fa la Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, in un documento dal titolo: “Per una riforma della fiscalità immobiliare equità, semplificazione e rilancio del settore”, gli estimi catastali – fattori che sono usati per calcolare i valori delle rendite – sono stati rivisti l’ultima volta, a livello generale, nel «periodo 1988-89», ossia più di trent’anni fa.

Un esempio aiuta a capire meglio quello di cui stiamo parlando. In base alle rilevazioni dell’Agenzia delle entrate, nel nostro paese le rendite catastali delle sole abitazioni valgono circa 17 miliardi di euro, che divisi per oltre 36 milioni di abitazioni, generano in media una rendita catastale di circa 500 euro all’anno per abitazione.

Un dato evidentemente molto lontano dalla realtà attuale. Secondo un’analisi pubblicata a novembre su lavoce.info, non solo «il valore catastale sottostima quello di mercato nella grande maggioranza dei comuni» italiani, ma ci sono anche due elementi di disuguaglianze … leggi tutto

(Luke Stackpoole)

Sarà difficile per l’Italia avere una politica estera seria finché c’è Di Maio (linkiesta.it)

di

L’inconsistenza del titolare della Farnesina mina 
la credibilità del nostro Paese (Draghi può 
fare molto, ma non tutto). 

Alla megalomania del parvenu si aggiunge l’insipienza di una politica no a tutto che ha costretti a un indebolimento sul fronte energetico

Non abbiamo un ministro degli Esteri: nel pieno della più drammatica crisi internazionale dal 1945 a oggi dobbiamo prendere atto che l’Italia ha alla testa della Farnesina in Luigi Di Maio un dilettante allo sbaraglio.

Siamo ben oltre le sue sbalorditive gaffe, tipiche di un giovanotto che non ha assolutamente idea di come vada il mondo – «il presidente Ping», «Pinochet dittatore del Venezuela», «la Francia ha una tradizione millenaria di democrazia», l’omaggio ai gilet gialli, ecc.- e siamo entrati nell’incompetenza più pericolosa.

L’ultima trovata del nostro è stata la smentita della valutazione del ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani. Questi ha pubblicamente dichiarato che l’Italia potrà cessare la scandalosa dipendenza dal gas russo «nell’arco di 24-30 mesi».

Invece, Di Maio tre giorni fa ha dichiarato tosto tosto che «in due mesi riusciremo a dimezzare la dipendenza dal gas russo. Non saremo più dipendenti da eventuali ricatti». Dunque Cingolani ha torto e il sistema Paese, garantisce Di Maio, può fare i suoi calcoli economici e energetici su una autonomia da qui a domani. Tema fondamentale per il nostro immediato futuro.

Il fatto è che Di Maio non ha fatto questa sparata perché ha studiato il dossier energetico, ma solo perché era in preda a una euforia del suo ego a seguito dei contatti diretti da lui avuti coll’Algeria, il Congo, l’Angola e il Qatar e dei nuovi contratti metaniferi siglati. Missioni che Mario Draghi gli ha delegato con la palese intenzione di tenerlo ben lontano dal dossier Russia-Ucraina nel quale il titolare della Farnesina ha già fatto danni consistenti all’Italia.

Il punto è che Di Maio non si rende conto che le forniture di metano dal Congo, dall’Angola e dal Qatar non arriveranno affatto in Italia entro due mesi per la semplice ragione che non passeranno per metanodotti, inesistenti, ma via mare, sulle navi metanifere, e non troveranno sulle nostre coste gli indispensabili rigassificatori per immetterli in rete.

Eppure proprio lui è personalmente corresponsabile dell’assurda situazione di un Italia che ha solo tre rigassificatori, contro gli otto della Spagna, che ha 14 milioni di abitanti in meno dell’Italia. Negli anni scorsi infatti il Movimento 5 Stelle da lui diretto è sempre stato in prima linea, purtroppo con successo, nell’impedire la costruzione dei rogassificatori di Trieste-Zaule, di Rosignano e di Porto Empedocle.

Il tutto, va detto, con la piena e rivendicata complicità degli allora governatori del Partito Democratico Debora Serracchiani e Enrico Rossi e di un partito succube di miti ambientalisti.

Dunque, come prevede Cingolani, ci vorranno due o tre anni per dotare l’Italia dei rigassificatori bloccati da anni, come per la costruzione di quel metanodotto East Med – come abbiamo visto – bloccato sempre da Di Maio.

Ma veniamo ora alle ragioni per le quali Mario Draghi è stato costretto a allontanare decisamente il ministro degli Esteri dal dossier Russia-Ucraina. Il 23 febbraio, infatti, alla vigilia della invasione russa dell’Ucraina, Di Maio ha dichiarato alla Commissione Esteri del Senato, proprio nel momento in cui si dispiegavano i più intensi tentativi diplomatici europei per evitare il disastro, che la strada della diplomazia europea era invece già chiusa: «Siamo impegnati al massimo nei canali multilaterali di dialogo.

Riteniamo tuttavia che non possano esserci nuovi incontri bilaterali con i vertici russi finché non ci saranno segnali di allentamento della tensione, linea adottata nelle ultime ore anche dai nostri alleati e partner europei» … leggi tutto

(Andrey Tikhonovskiy)

Grano, mais, olio di semi: la guerra in Ucraina e la crisi del settore agricolo in Italia (valigiablu.it)

di Alice Facchini

“Ieri mi è arrivato il carico di farina: mi è 
costato una fortuna, per scherzare ho chiesto 
all’autista se dietro c’era la scorta”. 

Roberto Capello è il proprietario di uno storico panificio di Bergamo, e presidente della Fippa – Federazione italiana panificatori, pasticceri e affini. “Negli ultimi due mesi, la farina di grano tenero è passata da 35-40 centesimi al chilo a 65-80 centesimi, a seconda del tipo, e l’invasione in Ucraina ha solo peggiorato la situazione. Ormai assorbire i costi da parte dei fornai sta diventando impossibile, e parte di questa spesa ricade sul consumatore: il prezzo del pane ha già avuto un incremento del 12-15%”.

L’Ucraina ha esportato nell’ultimo anno 25 milioni di tonnellate di grano tenero, e insieme alla Russia detiene quasi il 30% delle esportazioni mondiali. È quindi in grado di influenzare i prezzi a livello internazionale: ecco perché, già nella prima settimana di guerra, il costo del grano tenero è cresciuto del 13%, secondo un report elaborato da Consorzi agrari d’Italia. Così, beni di prima necessità come farina, pane, pizza e biscotti stanno diventando sempre più cari.

L’aumento dei prezzi dovuto alla guerra arriva dopo mesi di crescita dei costi dell’energia, della logistica e degli imballaggi: attualmente il grano tenero è venduto a 314 euro la tonnellata, il 40% in più rispetto alla stessa settimana del 2021, secondo i dati della Coldiretti.

Ad aumentare la quotazione c’è anche il cambiamento climatico: l’anno scorso la quantità di grano prodotta a livello mondiale è stata inferiore alla media per via di una siccità anomala, e anche in questi primi mesi del 2022 le piogge sono state molto scarse. Ci si aspetta quindi che il raccolto di grano sia scarso anche quest’anno, il che comporta un ulteriore aumento dei prezzi.

Da dove viene il grano che mangiamo?

In Italia, la produzione nazionale di grano tenero copre solo il 35% del fabbisogno dei nostri mulini, riporta Italmopa: il resto viene importato. Nel 2020 si parla di circa 4 miliardi e 355 milioni di kg importati, secondo i dati ISTAT sul commercio estero, per un valore di circa 30 milioni di euro.

Tra i paesi al primo posto c’è l’Ungheria, che rappresenta il 26% delle importazioni, seguita dalla Francia (18%), l’Austria (9%) e la Germania (7%). L’Ucraina rappresenta solo il 5% del totale, mentre la Russia arriva a poco più dell’1%.

L’invasione dell’Ucraina, se da un lato incide sull’aumento dei prezzi, dall’altro non dovrebbe rappresentare un problema per gli approvvigionamenti dagli altri paesi. E invece, come conseguenza l’Ungheria (insieme alla Bulgaria) ha deciso di bloccare l’export di cereali, per coprire il fabbisogno interno e far fronte ad una crisi che potrebbe protrarsi nel tempo.

Al momento i mulini italiani hanno ancora la scorta di materia prima, avendo immagazzinato il raccolto dell’anno passato e gli acquisti fatti sul mercato internazionale fino al mese scorso, ma presto il grano tenero potrebbe iniziare a scarseggiare.

Italmopa, l’associazione industriali mugnai d’Italia, ha dichiarato che l’industria molitoria italiana non sarà più in grado di garantire la produzione di farine di frumento tenero nei volumi richiesti, se non verrà revocato il blocco deciso dall’Ungheria … leggi tutto

(Mockup Graphics)