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Trump e le ombre cinesi (corriere.it)

di Federico Fubini

Non solo tariffe

Da quando Donald Trump è tornato alla presidenza, anche il sito della Casa Bianca si è trasfigurato.

Non presenta più il lavoro di un’istituzione, officia il culto di una persona. La pagina web si apre su una foto gigantesca di Trump e un annuncio a lettere cubitali: «America is back», l’America è tornata. Sotto, una sola promessa: «Ogni singolo giorno lotterò per voi con tutto il fiato che ho in corpo. Non riposerò finché non vi avrò dato l’America forte, sicura e prospera che meritate. Questa sarà veramente l’età dell’oro» per la nazione.

L’ idea di fondo è che il presidente costruirà una «Fortezza America» basata su un’«economia della produzione», indipendente nella manifattura di tutto ciò che è indispensabile. È la visione di un’autarchia americana. Per realizzarla, in poco più di due mesi la Casa Bianca ha deciso o minacciato dazi sul commercio di beni per oltre 1.900 miliardi di dollari: due terzi delle importazioni materiali degli Stati Uniti, che sono di gran lunga il più vasto mercato al mondo.

Se non è un cigno nero, è uno choc paragonabile all’aggressione all’Ucraina del 2022. Ora si aspetta il «Giorno della Liberazione» (mercoledì prossimo), in cui dovrebbero essere precisati i contorni di un’altra ondata di dazi «reciproci» contro l’Unione europea e vari altri Paesi; quindi, dopo acciaio e alluminio, si studiano barriere su rame, legname, farmaceutica e persino una tassa all’attracco delle navi fabbricate in Cina.

È tutto così novecentesco: materiali e manufatti che costituiscono l’infrastruttura di un’economia industriale e di una società tradizionale. Trump resta imprevedibile e ondivago, ma il suo obiettivo di fondo sembra essere un taglio netto alle catene fisiche del valore che tengono l’America legata al resto del mondo.

Le vuole rimpatriare in nome di un’economia simile a quelle di un tempo, quando ogni prodotto si faceva dall’inizio alla fine in un unico Paese. Così ad esempio il presidente tassa le componenti auto (un import da quasi 90 miliardi di dollari l’anno) e non solo il bene finito, in modo da spingere General Motors, Ford e Stellantis a rimpatriare filiere oggi estese in Messico, Canada o altrove.

All’annuncio, le case auto di Detroit sono cadute in Borsa; del resto tutta Wall Street da settimane dà segni di malessere, così come ne danno il dollaro stesso o le famiglie americane che temono l’inflazione innescata dai dazi. Ma il presidente, in apparenza, non se ne cura. O se ne cura solo a volte e solo in parte. Per lo più dimostra (per ora) un’indifferenza ai segnali di stress dell’economia e dei mercati che è nuova, rispetto al suo primo mandato.

Perché lo fa? Ufficialmente vuole ridare dignità e buoni posti di lavoro all’«uomo dimenticato», l’americano medio umiliato dalle delocalizzazioni verso la Cina. Lo stesso JD Vance, il vicepresidente, è notoriamente figlio di una comunità devastata dalla crisi industriale.

Un’occhiata più attenta suggerisce però che questa spiegazione non basti. Già oggi l’America è vicina alla piena occupazione, eppure l’industria assorbe appena l’8% della manodopera attiva anche se il numero degli addetti manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni dopo i crolli precedenti. In sostanza un’America autarchica non avrebbe abbastanza persone per le sue fabbriche, specie ora che gli stranieri sono deportati e scoraggiati in ogni modo.

Dietro le azioni di Trump sembra esserci piuttosto l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta.

L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.

Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni.

Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.

Putin era fuori gioco. Trump lo ha rimesso al centro della scena (italiaoggi.it)

di Luigi Chiarello

Dimostrando che nel mondo ciò che vale è solo 
la forza

«Abbiamo bisogno della Groenlandia per la sicurezza internazionale. Dobbiamo averla»: Donald Trump parla chiaro, anche se ciò che dice fa a pugni con la democrazia. Il 26 marzo, il presidente Usa ha dato ancora sfogo alle sue brame sull’isola.

L’uscita del tycoon cade in una fase delicata per il territorio autonomo danese: fervono trattative per un nuovo governo, a seguito delle elezioni dell’11 marzo che hanno portato il partito Demokraatit a triplicare i consensi (29,9% dei voti). Trump sta saturando la comunicazione.

I social network sono un cannone nelle sue mani: li usa per mettere spalle al muro gli interlocutori. Spara post apodittici a cui fa seguire atti che appaiono come editti. Dai dazi alla partita ucraina, prima partono i ceffoni poi si siede al tavolo. Chi lo ha di fronte deve capire se sta bluffando o ci crede davvero. Lui legge le reazioni, riadatta la postura, quindi va dritto al risultato col minimo sforzo.

Trump può farlo, perché è il Commander in chief della potenza globale. E perché è l’epoca della post verità: le fake news impazzano, persino nelle cancellerie; si screditano le fonti ufficiali; si può dire tutto e il suo contrario senza pagar dazio nelle urne. Trump s’è messo comodo e dal social di cui è proprietario lancia anatemi a raffica: l’ha creato, dice, «contro gli altri media che dicono bugie». E ora sono al suo servizio.

L’ha chiamato “Truth”, verità, forse con ironia. I suoi input rimbalzano ovunque. Ogni soffio diventa ciclone. I guasti però non mancano. Se fino a pochi anni fa, chi si comportava così era bollato come “una minaccia per l’Occidente”, in politica finiva ai margini e diventava “un paria” nella comunità internazionale, oggi le intemerate di Washington stanno scollando gli Usa dagli alleati.

Putin non può che gioirne: dopo l’invasione dell’Ucraina era alla berlina. Un mandato d’arresto della Corte penale internazionale gli complicava la vita, solo i leader dei Brics lo tenevano in piedi. Ora è tornato al centro della scena, riabilitato dagli States come interlocutore, in base al più classico degli schemi della guerra fredda: le sfere d’influenza.

In più, oggi Mosca si frega le mani: le minacce di Trump su Panama e sulla Groenlandia legittimano la forza come unica regola. Il che, nel percepito e nelle narrazioni, derubrica da crimine a fatto naturale, l’annessione della Crimea e la conquista degli oblast ucraini.

Anche Pechino sorride, guardando a Taipei. In Europa, invece, la mente corre al Lebensraum, «lo spazio vitale necessario ai tedeschi» con cui Hitler giustificò la conquista dell’Est Europa. Non è chiaro se la rottura del principio di sovranità disturbi i sovranisti.