Dal congedo di paternità al referendum sull’aborto: la vittoria delle donne di San Marino (governato da uomini) (corrieredibologna)

di Enea Conti

Karen Pruccoli guida il comitato promotore. E 
ricorda tutte le battaglie di genere

«Il risultato del referendum, che permetterà alle donne di abortire legalmente a San Marino ci motiva prima di tutto lavorare e a interagire con le ragazze più giovani. Possiamo dire che le donne di sammarinesi sono cittadine di Serie A per la propria autodeterminazione sul loro corpo».

A parlare è Karen Pruccoli del Comitato esecutivo dell’associazione Unione donne sammarinesi che ha promosso il referendum per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza a San Marino dello scorso 26 settembre. A pochi giorni dalla chiusura delle urne Pruccoli delinea gli scenari inediti che potrebbero aprirsi sul Titano. 

«Questa consapevolezza di cui parlavo potrebbe spingere le donne più giovani ad impegnarsi di più anche in politica. Dove non ci sono le donne nei luoghi decisionali si bada poco alle pari opportunità». Non è un’affermazione casuale, in un Paese dove le donne possono essere elette in parlamento solo dal 1974. E l’attività dell’associazione Unione donne sammarinesi ricorda quanto le questioni di genere vanno ben oltre l’aborto.

Karen Pruccoli da quanto è attiva Uds? «Ci siamo costituiti nel 2019 e siamo partiti con un atto a tutela dei diritti degli uomini ottenendo l’introduzione a San Marino del congedo di paternità paritario. È anche un modo per ribadire che il nostro obiettivo è la parità di genere.

Subito dopo in vista delle elezioni politiche di quell’anno promuovemmo una campagna per i diritti per il voto alle donne: abbiamo portato le parlamentari elette dal 23% al 33%: non era mai successo che nel parlamento sammarinese, il Congresso di Stato, un parlamentare su tre fosse donna. Prima del 2019 erano meno che un quarto».

E quali sono le ragioni di questa arretratezza? «C’è un discorso a monte da fare: le donne sono entrate a far parte del parlamento solo nel 1974 perché prima non avevano il diritto di voto passivo … leggi tutto

(Patrick)

“Il processo mediatico è un diritto intangibile!”, Travaglio si gioca il tutto per tutto (ildubbio.news)

di Errico Novi

Clamoroso editoriale firmato dal direttore 
del Fatto. 

Il quale dichiara che i politici “non temono più di finire in galera ma sui giornali”, e che dunque la sputtanopoli quotidiana può anche prescindere dall’accertamento processuale. È un proclama estremo, una rivendicazione di chi si sente prossimo alla sconfitta. Ma che non per questo va sottovalutato

Marco Travaglio firma sul Fatto quotidiano un editoriale che sembra una rivendicazione. Proclama il diritto, a suo giudizio intangibile, al processo mediatico. Attacca le norme sulla presunzione d’innocenza. Con contorno di dileggio per la ministra Cartabia.

Come ha scritto Daniele Zaccaria sul Dubbio di oggi, un quotidiano-manifesto dell’intransigenza come il Fatto si trova in questi giorni a reagire contro la botta della sentenza di Palermo. Tutto bene, nel senso che, a parti invertite, un giornale garantista farebbe lo stesso. Ma nell’altolà di Travaglio al decreto sulla giustizia mediatica c’è qualcosa che va oltre la polemica: c’è il segno di una sconfitta che incombe. Di un vento che è cambiato forse irreparabilmente.

Dichiarare  “ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno” ha del clamoroso, e può spiegarsi solo con la logica del tutto per tutto. È la difesa di un mondo e di un modo di intendere l’informazione giudiziaria forse al tramonto. Una certificazione di sconfitta.

Non possiamo essere certi che andrà così. Ma come nelle partite decisive, meglio mettere al sicuro il risultato che cantare vittoria in anticipo.

Leggi anche: Ma sì, adottiamo il lodo Travaglio: addio processi, basta la gogna

Quei misteri italiani che sono diventati storia (corriere.it)

di Paolo Mieli

Nei suoi 160 anni di vita lo Stato ha «negoziato 
con i nemici» infinite volte e non lo ha 
mai smentito. 

Ma la politica non ha affrontato la questione nel suo insieme

Qui di certo, incontrovertibile e definitivo c’è solo che nei codici del nostro Paese (e, a dire il vero, di tutti gli altri) il reato di «trattativa» non esiste. Sicché per perseguire un supposto negoziato tra la mafia e l’autorità pubblica italiana che si sarebbe protratto oltre l’intero arco degli anni Novanta, alcuni sostituti procuratori hanno incriminato politici e alti ufficiali dei carabinieri per «minaccia a organi dello Stato» (a norma dell’articolo 338 del Codice penale). Risultato: prima una sentenza di condanna e adesso una, in secondo grado, d’assoluzione. I togati dell’accusa e i loro simpatizzanti si consolano così: «Comunque è emerso chiaramente che la trattativa c’è stata».

E si domandano: «Come è possibile che siano stati condannati i mafiosi ma non carabinieri e politici?». La risposta è semplice: se il reato fosse stato quello (ripetiamolo: inesistente) di trattativa, forse le cose sarebbero andate diversamente. Però, dal momento che nel tribunale di Palermo si discuteva di «minacce», è probabile si possa dimostrare che solo Antonino Cinà e Leoluca Bagarella abbiano provato ad impaurire la loro controparte statuale.

Ma non ne discende automaticamente che Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno abbiano commesso lo stesso reato associandosi alle minacce di Bagarella, Cinà e altri mafiosi. Fosse accaduto, si dovevano esibire delle prove. Ma evidentemente la corte ha ritenuto che mancassero evidenze di tali «minacce». Di più: che fossero del tutto assenti.

Dal giorno successivo al verdetto, gli inquirenti — e coloro che (a prescindere dalla sentenza) hanno fatto propria la loro causa — si consolano dicendo: «vedrete che dalle motivazioni finali verrà fuori che la trattativa c’è stata». Possibile. Più che possibile. Nei suoi centosessant’anni di storia lo Stato italiano ha «negoziato con i nemici» infinite volte.

Più recentemente con i brigatisti rossi (caso Sossi), con i terroristi palestinesi (tramite il colonnello Giovannone), con i camorristi (caso Cirillo). Talvolta la Repubblica ha concesso poi attestati di pubblica gratitudine nei confronti di chi, come Giovannone, trattando ha evitato lutti al Paese. In altri casi si è un po’ vergognata di questo genere di commerci. Ma non ha mai smentito che fossero avvenuti.

Un discorso a parte merita il caso di Marcello Dell’Utri, condannato in altra sede ma stavolta assolto con una formula più ampia rispetto a quella usata per i carabinieri. Nell’ipotesi dell’accusa, Dell’Utri avrebbe minacciato Silvio Berlusconi (in concorso con la mafia) per ottenere alleggerimenti di pena o di trattamento nei confronti di malavitosi catturati.

Anche in questo caso non è venuta fuori nessuna evidenza e il discorso dovrebbe chiudersi qui … leggi tutto

(Muhammad Ali)