Maternità surrogata, l’assenza di presupposti per il reato universale. A decidere non è il governo (ilriformista.it)

di Alessio Lo Giudice

Diritti

Sul piano meramente descrittivo, la figura del reato universale sarebbe applicabile a quelle fattispecie di reato per le quali è prevista la possibilità di punire le relative condotte attuate ovunque e da chiunque (cittadino italiano o straniero).

Il recente richiamo, da parte del decisore politico italiano, a tale categoria desta, però, molteplici perplessità. In particolare, non pare esserci sufficiente consapevolezza dei presupposti e delle implicazioni che l’accostamento della categoria dell’universalità al diritto, e al diritto penale in particolare, comporta.

Limitandosi al dato letterale, il concetto di reato universale sembrerebbe evocare una costruzione di matrice giusnaturalistica. Potrebbe, infatti, indurre a pensare che, a prescindere da qualsiasi opera di positivizzazione giuridica, esistano delle condotte che sono naturalmente ed eternamente criminali.

Siano essere previste o meno da norme di ordinamenti nazionali, sovranazionali o da norme di diritto internazionale. Questa prima accezione, sebbene possa apparire coerente con nobili orientamenti della scienza giuridica, indipendentemente dalla sua debolezza teorica e dalla sua infondatezza storica, appare insostenibile in un mondo complesso e globale dove lo sfondo multiculturale conduce ad un esasperato pluralismo giuridico.

Se invece si volessero dedurre i contorni del concetto di reato universale dalla disposizione (art. 7) del Codice penale che prevede la possibilità di punire secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluni reati (indicati nello stesso art. 7), giungeremmo a cogliere nella difesa dello Stato italiano, della sua immagine, del suo decoro e del suo interesse come istituzione, la ragione principale della deroga al principio di territorialità del diritto penale.

I delitti per la cui punizione è prevista tale deroga sono, infatti, i delitti contro la personalità dello Stato; i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; i delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato; i delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni.

A questi va anche aggiunto il delitto politico previsto dall’art. 8 del Codice penale. In effetti, più che reati universali secondo una precisa e stringente accezione teorica, si tratterebbe, in questi casi, di reati extraterritoriali perseguiti a tutela dell’interesse dello Stato come istituzione.

I veri reati universali

Più ragionevole, dal punto di vista della teoria del diritto, è, invece, servirsi della clausola aperta contenuta nell’ultima parte dell’art. 7 del Codice penale, ove si prevede che la deroga al principio di territorialità del diritto penale si estende a “ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana”.

Infatti, il richiamo alle convenzioni internazionali ci consente di intendere la previsione dei reati universali come incarnata principalmente dalla categoria dei crimini internazionali e, in particolare, da quelle fattispecie di estrema gravità come nel caso dei crimini contro l’umanità, della tortura, del genocidio, della riduzione in schiavitù.

Si tratta di reati che sono riconducibili a previsioni normative di livello internazionale chiaramente individuabili e che trovano, altresì, riscontro in molteplici pronunce giurisprudenziali sia nell’ambito nazionale sia nell’ambito internazionale.

A ben vedere, nonostante le criticità sul piano applicativo delle norme appena richiamate, ciò che caratterizza la previsione dei crimini internazionali di estrema gravità è l’ampio riconoscimento da parte della comunità internazionale e l’altrettanto diffuso richiamo da parte di molti ordinamenti nazionali.

In altre parole, l’universalità di tali reati, qualificazione qui condivisibile dal punto di vista teorico, deriva dal generale riconoscimento culturale e normativo da parte della comunità internazionale generalmente intesa, e non, in sé e per sé, dal presunto fondamento ontologico o metafisico del divieto di realizzare le condotte criminali in oggetto o dalla necessità di tutelare gli interessi dello Stato.

Ebbene, l’utilizzo contemporaneo della categoria dei reati culturali, a prescindere dall’oggetto specifico (nel caso italiano la categoria in questione è stata richiamata in relazione alle norme previste per ostacolare, senza alcuna efficacia, l’attività degli scafisti dopo la strage di Cutro, e per contrastare la pratica della cosiddetta maternità surrogata) non appare riconducibile né all’accezione giusnaturalistica né alla ragionevole accezione internazionalistica e neanche alla necessità di tutelare gli interessi dello Stato come istituzione.

Sarebbe invece riconducibile alle speciali disposizioni di legge che possono introdurre, ai sensi dell’art. 7 del Codice penale, nuove deroghe al principio di territorialità del diritto penale. Ma, indipendentemente dalla coerenza normativa delle recenti previsioni con l’ultima parte dell’art. 7 del Codice penale, si tratta, in realtà, di disposizioni che non sono certamente supportate da un ipotetico fondamento teorico di tipo universalistico e che, soprattutto, non registrano un riconoscimento generalizzato della comunità internazionale.

Più che reati universali, corrispondono, dunque, a forme locali di ipertrofia penalistica. Il loro valore è soprattutto simbolico e retorico, quale espressione del potere di rivendicare una specifica declinazione dell’identità nazionale spacciata, invece, come istanza morale universalistica. In fin dei conti, attraverso il richiamo alla nozione di reato culturale che, nei casi più recenti, è evidentemente povero dal punto di vista teorico, si manipola e si strumentalizza il diritto penale.

Quest’ultimo viene utilizzato quale mezzo di comunicazione con l’opinione pubblica, quale forma di trasmissione di messaggi politici propagandistici, senza che sia prestata la dovuta attenzione alla coerenza sistematica della scelta di ricorrere allo strumento penalistico e alla concreta applicabilità delle disposizioni introdotte.

Licia Rognini Pinelli aveva una storia da raccontare. E non era soltanto sua (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È morta a Milano, a 97 anni, la moglie dell’anarchico che il 15 dicembre 1969 morì dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano

“Una storia quasi soltanto mia”, con questo titolo Licia Rognini Pinelli l’aveva raccontata a un nostro carissimo compagno e amico, Piero Scaramucci. In quella riserva, “quasi”, stava la condivisione di tanta parte della gente italiana, di chi allora c’era e di chi ancora non c’era e ha saputo, ha voluto sapere.

Avrebbe ricordato, Licia: “Il libro, edito inizialmente da Mondadori, nel 1982, venne mandato al macero poco tempo dopo la sua uscita”. E’ stato ripubblicato da Feltrinelli, nel 2009, e più volte da allora.

Lei, le sue figlie, i nipoti, le amiche, gli amici, non stava tutta in quella storia. Scrisse ancora di sé, per l’Enciclopedia delle donne, e intitolò così: “Dopo”. Con una domanda “che mi ronzava continuamente nella testa: ‘Che senso ha la vita’… Anche da bambina, quando sognavo di diventare medico e di curare la gente, ‘pensavo’ che sarei rinata più volte e sarei diventata più persone”.

Scrisse anche dell’udienza del 2009 dal presidente Napolitano, apprezzandone “l’umanità e la semplicità”. Aggiungendo: “In quella occasione il Presidente disse cose che avrei voluto sentire molti anni prima”.

Dopo, più di mezzo secolo dopo, appena un mese fa, il Comune di Milano ha annunciato che la grande, magnifica opera di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, sarà esposta in permanenza al pubblico nel Museo del Novecento. C’è bisogno di molto tempo, infatti. A volte non basta.

“Adesso il testimone è passato alle mie figlie”, scrisse anche. Silvia e Claudia. Ora è successo. Licia è morta, a casa sua, come voleva. Aveva chiuso il suo libretto di allora con una frase letta una volta su un poster: “Alla fine della vita ciò che conta è aver amato”. E lei è stata amata.

Succede che non si abbia più spazio per ciò cui non si vuol bene, e lo si riservi intero alle persone e alle cose cui si vuol bene. E si sia grati di condividere con loro il mondo che si abita. Licia Rognini Pinelli lo ha abitato, ha continuato ad abitarlo, fino alla vigilia dei suoi 97 anni.

Forse, probabilmente, fin troppo a lungo per lei. Vorrei – ci credo – che abbia sempre ricordato che cosa la sua vita volesse dire per tante, tanti altri. Ho appena visto il titolo di un’agenzia: “Piazza Fontana: morta a Milano Licia Pinelli”. Involontario, naturalmente, e involontariamente efficace. Milano, Piazza Fontana, 55 anni dopo.

Quest’anno il 15 dicembre sarà più caldo, apriremo tutte le finestre.

(Licia Rognini Pinelli con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – foto Ansa)