Johnson: “Parigi riprenda i migranti che traversano la Manica” (euronews.com)

I manifestanti britannici: "Londra complice della 
tragedia"

Boris Johnson chiede a Parigi di riprendere i migranti arrivati nel Regno Unito. Davanti al Ministero degli interni britannico, i manifestanti scandiscono invece il loro benvenuto e invocano una solidarietà senza frontiere. “Londra è complice”, l’accusa che si legge sui cartelli, a due giorni dal tragico naufragio nella Manica, costato la vita ad almeno 27 persone.

Londra chiama Parigi. Parigi chiama l’Europa: “Servono accordi e collaborazione”

In una lettera al presidente francese Macron, il premier britannico Boris Johnson ha proposto più controlli per impedire le partenze da Calais, intensificazione di pattugliamenti congiunti nella Manica e l’impiego di radar e tecnologie più sofisticate.

Cruciale, soprattutto un accordo immediato con cui Parigi si impegni a riprendere i migranti, arrivati nel Regno Unito. Una misura, twitta Johnson, che risparmierebbe ulteriori, tragiche morti. Necessario intensificare la collaborazione europea, l’appello poco prima lanciato da Macron. La Francia è solo un paese di transito.

E in transito, si dicono in effetti la maggior parte dei migranti presenti a Calais. Penultima tappa di un periplo costoso e pericoloso, che nulla sembra possa dissuaderli dal portare a termine. “È straziante sentire che un amico o un conoscente sono morti in mare – dice un giovane liberiano, arrivato appena una settimana fa -. Non possiamo però rinunciare. A questo punto non possiamo che andare fino in fondo, per raggiungere la nostra meta”.

La piazza di Calais: “Cambiare le politiche migratorie o le tragedie si ripeteranno”

335 morti alla frontiera tra Francia e Regno Unito, il macabro conteggio affidato a uno striscione dai manifestanti, che a Calais hanno ricordato le vittime del naufragio di mercoledì. “Provo un’enorme tristezza, ma anche molta rabbia – dice una di loro -.

Tutte queste vittime potevano essere evitate. È da 30 anni che viviamo questa situazione a Calais. E queste stragi continueranno a ripetersi, finché non cambieranno le politiche migratorie”. Il naufragio di mercoledì è il più grave dall’intensificarsi di traversate nella Manica, iniziato tre anni fa.

C’era una volta il Mes (lavoce.info)

di

Prima se ne è parlato fin troppo, ora del Mes 
non parla più nessuno. 

Invece sarebbe utile riprendere la discussione. Perché i problemi del nostro sistema sanitario sono ancora da risolvere e risparmiare risorse è sempre una necessità.

La discussione sul Mes

Nel momento più critico della pandemia, il “tema” Meccanismo europeo di stabilità è stato uno dei più trattati all’interno del mondo politico e di quello giornalistico. Per quasi un anno non c’è stato giorno in cui carta stampata e telegiornali, seguendo una diatriba politica interna al governo Conte II, non abbiano parlato del Mes, interrogandosi sull’esistenza o meno di condizionalità, evocando un presunto rischio stigma e dividendosi conseguentemente fra chi sollecitava l’esecutivo dell’epoca a prendere quei circa 36 miliardi e chi, invece, profetizzava il rischio di portarsi in casa un “cavallo di Troika”.

Oggi, trascorsi diversi mesi da quando è cambiato l’inquilino a Palazzo Chigi, la “questione” Mes è scomparsa dai radar dell’informazione ed è finita nel dimenticatoio: effettuando una rapida ricerca su Internet, è infatti difficile trovare anche solo notizie sul tema, mentre su giornali e canali televisivi il celeberrimo acronimo è caduto nell’oblio.

Inizialmente, per giustificare l’improvvisa “scomparsa”, da più parti è stato sottolineato come l’avvento del nuovo governo avesse comportato un’importante riduzione dei tassi sul debito pubblico e, di rimando, fosse venuta meno la convenienza di far ricorso ai fondi del Meccanismo europeo di stabilità.

Ora, con i tassi d’interesse che sono tornati ad aumentare (superando quelli dell’autunno 2020), la giustificazione ha perso di valore. Eppure, di quei circa 36 miliardi di euro non se ne parla più.

Che cos’è la “Pandemic Crisis Support Credit Line” 

È allora utile richiamare velocemente le caratteristiche della linea di credito Mes e rispolverare le motivazioni a favore, e contro, lo strumento.

La Pandemic Crisis Support Credit Line è stata messa a punto dall’Eurogruppo, e quindi approvata dal Consiglio europeo e dal Board of Governors del Mes, nella primavera del 2020, con un obiettivo specifico: finanziare le spese, dirette o indirette, di carattere sanitario riconducibili all’epidemia da Covid-19.

L’importo massimo per ogni paese è pari al 2 per cento del Pil nazionale (per l’Italia, i famosi 36 miliardi). Stando a quanto affermato dalla Commissione e dai vertici dello stesso Meccanismo europeo di stabilità, non sono previste condizionalità di alcun genere nell’attingere a questi fondi.

Proprio quest’ultimo elemento è stato però alla base della diatriba sorta nel nostro paese: alcune forze politiche (sostenute da parte della dottrina) hanno affermato come, a Trattati invariati, le condizionalità sarebbero invece rimaste e, in quest’ottica, l’Italia avrebbe potuto essere sottoposta a trattamenti affini a quelli “subiti” dagli altri stati europei che, in passato, hanno fatto ricorso al Mes … leggi tutto

(Ernesto Velázquez)

L’operazione Ulivetto non decolla e adesso il Pd corteggia Calenda (linkiesta.it)

di

Con Letta alla guida, i democratici sono più uniti 
al loro interno, ma fanno fatica a trovare sostegno 
all’esterno. 

Il Movimento 5 stelle è sempre più debole e l’ultima idea è un accordo anti Renzi con Azione (ma Calenda non ci sta)

Se ha un senso l’adagio per cui il nemico del mio nemico è mio amico, allora si spiega perché al Partito democratico Carlo Calenda stia tornando simpatico. Le bordate di quest’ultimo a Matteo Renzi dopo la Leopolda hanno fatto drizzare le antenne al Nazareno a caccia di rami da innestare su un Nuovo Ulivo che non decolla, senza contare il piacere quasi fisico che i dem hanno provato nel vedere l’ex segretario fiorentino bersaglio di mille frecce che nemmeno San Sebastiano: il riff renziano «il tempo è galantuomo» stavolta lo suona un esponente dem di prima fila.

Perché è chiaro che Renzi alzando il ponte levatoio abbia tolto un peso dallo stomaco dei dem che non hanno più questo problema tra i piedi, e le liti tra riformisti non possono che far piacere a un Partito democratico spostato a sinistra come nell’edizione lettiana.

E però Calenda lo vogliono, al netto del fatto che con lui il Partito democratico già si è scottato le mani una volta, anche perché sarebbe un’ottima copertura “a destra”. Spiega a Linkiesta Emanuele Felice, testa d’uovo della sinistra orlandiana: «Nel Nuovo Ulivo possono venire Calenda e Bonino: la gamba liberal-democratica sono loro.

Come liberal-democratici sono più credibili di Renzi, compromesso ormai dopo i rapporti con i sauditi e la commistione tra affari e politica. Su questo, giustamente, anche Calenda è molto critico. Oltretutto, Renzi ormai è talmente inviso che, alleandosi con noi, penso siano più i voti che farebbe perdere che quelli che porterebbe in dote».

Esponenti dem di diverse aree sostengono che Letta e Calenda (e Più Europa) abbiano già stretto un accordo per isolare Renzi, giudicato unfit, e sgonfiare come un palloncino le sue velleità neocentriste.

Ma il leader di Azione smentisce tutte queste voci: «Non parlo con Letta dal giorno delle discussioni sull’ingresso del Movimento 5 stelle nel gruppo dei socialisti europei». La strada di Carlo Calenda, curiosamente, assomiglia a quella di Renzi: si tratta di scalare una montagna praticamente da soli. Senza incontrarsi. Come ha fatto a Roma vuole fare in Italia, il leader di Azione, in un percorso fatto al 99% di contenuti e all’1% di discorsi sulle alleanze. Resisterà alle sirene nazarene quando si avvicineranno le elezioni, quando si faranno le liste?

Da parte sua il Partito democratico, come detto, è in affanno nella costruzione del “campo largo”. L’operazione non decolla, l’unico compagno di strada resta sempre Bersani: non un granché … leggi tutto

(Chiara Polo)

Il Fatto processa i giudici che hanno assolto Uggetti (ildubbio.news)

di Davide Varì

La sentenza che ha assolto l'ex sindaco di Lodi 
ha ristabilito il primato della politica: 

ed è questo che non va giù a Travaglio

Potremmo chiamarlo “Quarto grado” di giudizio, come la trasmissione tivvù. Oppure “il controprocesso”, perché in fin dei conti è proprio questo che si sta celebrando sulle pagine del Fatto quotidiano: un controprocesso all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti e un nuovo e inedito processo ai giudici che hanno osato assolverlo.

Del resto c’è da capirli: l’assoluzione del sindaco di Lodi è un boccone troppo amaro da mandare giù anche a causa del gran gesto di Luigi Di Maio, il quale chiese pubblicamente scusa per la gogna mediatica cui sottoposero  il povero Uggetti nei giorni in cui finì in galera.

Ma la cosa che più brucia ai grillini rimasti affezionati ai vecchi slogan, sono le motivazioni con cui i giudici, pochi giorni fa, hanno spiegato quell’assoluzione. In  poche ma incisive righe i magistrati hanno infatti riaffermato l’autonomia della politica e il suo primato anche nei confronti alla giustizia: che non vuol dire impunità ma diritto a prendersi responsabilità politiche.

Ed è questo che più  brucia dalle parti del giornale di Travaglio: il fatto che un giudice riconosca l’autorità della politica,  il suo diritto a “condizionare”, nel senso più alto del termine, le direzioni dei singoli bandi. E non per favorire gli amici degli amici ma nel supremo interesse pubblico.

Vale la pena rileggere qualche passaggio di quelle motivazioni perché sono una pietra angolare del Diritto e un esempio di quello che dovrebbe essere il rapporto tra politica e giustizia.

Partendo da una sentenza della Consulta e da una legge regionale, i giudici spiegano che  «la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa “costituisce un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione”».

Viene inoltre ristabilito il principio secondo cui il sindaco ha «un margine di intervento entro il quale l’esercizio di una responsabilità politica è espressione non collusiva, ma legittima del perseguimento di un bilanciamento – proprio dell’attività politica – fra pluralità di interessi pubblici».

Insomma, mentre il Fatto processa i giudici, noi consideriamo questa sentenza uno dei momenti più alti del complicato rapporto tra giustizia e politica: questione di punti di vista…