Landini ha sbagliato libro (italiaoggi.it)

di Michele Magno

Apprezzerebbe un autore che ha l'opposto 
delle sue idee

Forse affidandosi al solo titolo, vuol regalare a Meloni «L’uomo in rivolta» di Camus

Caro direttore, mentre si stanno ancora versando (giustamente) fiumi di inchiostro sulla vittoria di Donald Trump, mi consenta di spendere poche parole su un piccolo fatto, che tuttavia in qualche misura denota la modestia del dibattito pubblico nel nostro paese.

Durante lo sciopero dei trasporti di venerdì scorso (il venerdì è d’obbligo per garantire un weekend lungo), Maurizio Landini ha ribadito che ci vuole «una rivolta sociale perché è in discussione la libertà di esistere delle persone» . Il segretario generale della Cgil, inoltre, ha annunciato che avrebbe regalato a Giorgia Meloni «L’uomo in rivolta» di Albert Camus.

Ora, lasciamo stare il linguaggio protogruppettaro, che mal si addice al capo di un sindacato che è diventato una grande, responsabile e democratica organizzazione grazie a leader come Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama e Bruno Trentin. Andiamo, invece, al merito delle sue dichiarazioni.

Non so se Landini sia «pronto a occupare le fabbriche», come diceva circa dieci anni fa quando era segretario della Fiom i metalmeccanici della Cgil. Né ha chiarito se è pronto a occupare anche le Camere, Palazzo Chigi, i ministeri, Confindustria, la Rai, le scuole. So però, ma forse lui non se n’è accorto, che in realtà una sorta di «rivolta sociale» in Italia è in corso già da tempo.

È cominciata nel 2020 con il blocco dei licenziamenti imposto a un accondiscendente presidente del consiglio (Giuseppe Conte). La sua abolizione, qualcuno forse lo ricorda, fu duramente avversata dalla Cgil e dalla Uil agitando lo spettro di uno tsunami di licenziamenti. Solo che gli impieghi stabili da allora sono aumentati e quelli precari sono diminuiti (dati Istat, Bankitalia e Inps).

Quella rivolta è poi proseguita con una raffica di scioperi nei servizi pubblici e di scioperi generali, che hanno preso in ostaggio gli utenti e che spesso hanno riempito le piazze, ma non hanno svuotato i luoghi di lavoro. Non basta. Nel costosissimo elenco di rivendicazioni, illustrato dalla Cgil nell’audizione parlamentare sulla legge di Bilancio, compare nuovamente il blocco dei licenziamenti. Richiesta che all’epoca della pandemia poteva avere un senso, ma che nel tempo presente è palesemente strampalata.

Vengo al secondo e ultimo punto. Chiuque conosca anche solo superficialmente la letteratura sul dono, non può ignorare il suo significato ambivalente. Il termine «gift» vuol dire infatti dono in inglese, ma veleno in tedesco. Fiabe e miti sono pieni di doni avvelenati, che portano, se non proprio alla rovina, sfortuna a chi li riceve.

Basta ricordare il cavallo di Troia, il vaso di Pandora, il pomo di Adamo, il bacio di Giuda, la mela di Paride e quella della strega di Biancaneve. Forse il libro di Camus promesso alla premier da Landini non è un dono avvelenato, ma, nonostante lo sfoggio di cultura apprezzabile, non ci azzecca niente con la sua idea di rivolta sociale.

Pubblicato nel 1951, L’homme révolté creò una spaccatura insanabile nell’avanguardia intellettuale francese che si proclamava «engagée» impegnata. Il suo esponente più brillante e autorevole, Jean-Paul Sartre, guardava con interesse all’esperimento sovietico e predicava, nei confronti del partito comunista francese, una sorta di «compagnonnage critique».

Una scelta delicata di fronte ai rigori dello stalinismo, ai suoi processi politici e alle sue «purghe» nei campi di concentramento. Ma che l’autore de L’étranger se ne servisse per concludere che la rivoluzione, proprio perché autorizzava quelle misure, si autodistrugge fino a ridursi a ignobile crimine e a follia omicida, Sartre non riusciva a mandarlo giù. Di qui la rottura clamorosa e (verbalmente) violenta col suo vecchio amico e compagno di lotta.

Caro direttore, a differenza di altri opinionisti non mi interessa conoscere qual è il progetto politico di Landini (se ne ha uno). Se ambisce o meno, a colpi di scioperi, referendum (dal Jobs Act all’autonomia differenziata) e slogan a effetto, a diventare un «punto di riferimento fortissimo delle forze progressiste».

Ne abbiamo già avuto uno, impalmato dal Pd, e abbiamo visto che fine ha fatto. Mi interessa piuttosto che il sindacato maggioritario italiano, nel quale ho trascorso buona parte della mia vita, riconquisti la sua tradizionale saggezza e capacità di proposta, e un ruolo da protagonista nell’era dell’intelligenza artificiale. E presumo di non essere l’unico.

I libri su Gaza, la campagna sullo sciopero generale, le riviste invendute. Maurizio Landini e la sua Cgil svenate dalle perdite milionarie sull’editoria (open.online)

di Fosca Bincher

Il segretario del primo sindacato ha inviato pure 
gli ispettori nella casa editrice interna Futura 
srl, che riesce a perdere 3,1 milioni di euro a 
fronte di 3,4 milioni di euro di fatturato. 

Guai anche dal centro congressi

Maurizio Landini ha un cruccio: l’editoria, che è uno dei principali crucci del segretario della Cgil. Non sono poche le società nella galassia delle varie sigle di settore del primo sindacato italiano ad essere in crisi anche drammatica che spesso ha bisogno di ammortizzatori sociali come è accaduto in Umbria dove molti dipendenti sono stati messi in cassa integrazione.

Ma il guaio economico più grosso viene da una società controllata dalla Cgil nazionale, e che supporta proprio l’attività di Landini: la Futura srl.

Da quando ha iniziato a pubblicare libri e riviste sono iniziati i guai finanziari

Secondo la nota integrativa al bilancio depositato alla Camera di commercio di Roma la Futura srl «cura, tra l’altro, la promozione, il coordinamento e lo sviluppo dell’informazione e della comunicazione del suo socio di maggioranza relativo Cgil, Confederazione Generale Italiana del Lavoro, di tutte le categorie nazionali e del patronato, sui temi del lavoro, della previdenza, dell’assistenza, dei diritti civili e sociali.

La Società sviluppa anche piattaforme tecnologiche di condivisione per la gestione delle attività di smart working, webinar, formazione ed eventi. Dall’anno 2021, la Società esercita l’attività editoriale anche attraverso la registrazione di testate periodiche». E proprio da questo momento in cui Futura ha iniziato a fare la casa editrice di riviste periodiche e di libri (la maggiore parte dei volumi sono dedicati alla politica estera e non pochi su Gaza e i palestinesi) che sono iniziati i guai.

Landini ha inviato i suoi ispettori nella casa editrice prima di coprire il buco milionario

Nell’ultimo anno Futura srl ha registrato un fatturato di 3,4 milioni di euro lievemente ridotto rispetto ai 3,7 milioni di euro dell’anno precedente. Ma la perdita si è fatta sentire, perché il rosso è stato quasi identico ai ricavi: perdita di 3,1 milioni di euro superiore anche a quella di 2,5 milioni di euro dell’anno prima.

Tanto è che Landini il 22 e il 23 febbraio scorso ha inviato i suoi ispettori nella società controllata per capire cosa fosse accaduto. Nulla è stato pubblicizzato su quella verifica, ma ne ha dato conto nella relazione di bilancio la presidente della società, Daria Banchieri: «La Presidente informa i presenti che, con lettera datata 22 marzo 2024, il Collegio degli Ispettori della CGIL Nazionale ha inviato alla Società il verbale redatto a seguito della visita ispettiva eseguita il 22 e 23 febbraio 2024; la Presidente comunica inoltre che la Società ha inviato le proprie deduzioni al verbale in data 9 aprile 2024».

Il continuo prelievo di soldi dalla Cgil nazionale per sostenere la casa editrice

Fatto sta che nel luglio scorso la Cgil ha dato il via libera a un aumento di capitale della società editoriale per coprire le perdite anche con l’aiuto di nuovi soci tutti interni alla galassia del sindacato guidato da Landini. Il primo sindacato italiano che raccoglie 21,694 milioni di euro dal tesseramento e nel suo ultimo bilancio aveva un utile di 28.360 euro, ha dato una mano non piccola alla Futura anche nell’anno della sua perdita milionaria.

Oltre a un prestito da 570 mila euro da restituire in 36 rate, ha girato alla società «2023 versamenti in conto capitale senza restituzione per un totale di € 2.164.792» fra cui «350 mila euro per la campagna di comunicazione sullo sciopero generale del 17 novembre 2023».

E se qualche problema di bilancio è venuto dall’aumento dei costi di energia, la presidente Banchieri ha invece voluto mettere nera su bianco una frase che certo non sarà piaciuta al pacifista Landini: «Il conflitto russo-ucraino, divampato in piena Europa nel febbraio 2022 e proseguito nel corso del 2023, di fatto non ha influito in modo significativo sull’andamento gestionale».

Va male anche il centro convegni, e non brilla neppure la gestione degli immobili

Se i libri della casa editrice di Landini non riescono a vendere copie, non arrivano buone notizie anche dalle altre società controllate. Fra questa il Centro congressi Frentani srl, che ospita convegni e riunioni del primo sindacato italiano: ha un fatturato 783.957 euro in crescita rispetto ad anno precedente (era di 653 mila euro), ma perdite raddoppiate (-173.841 euro contro il buco di 82.356 euro dell’anno precedente).

Anche qui la Cgil ha dovuto svenarsi per ricapitalizzare insieme alla federazione dei pensionati (Spi Cgil). Arriva invece un piccolo utile da 50.669 euro da L’Antartide immobiliare, che dal 2023 attraverso una fusione ha assorbito anche l’altra società immobiliare (la Simi srl) direttamente controllata da Cgil.

Salito così pure il fatturato: 470.478 euro, ma gran parte del risultato è arrivato grazie a 320 mila euro di contributi in conto esercizio che sempre dal sindacato di Landini sono arrivati.

Simenon, la vertigine dell’infanzia (ilmanifesto.it)

di Gennaro Serio

Novecento francese 

Simenon, la vertigine dell’infanzia

La morte di uno zio è uno dei fattacci che turbano i ricordi del dottor Malempin, protagonista del romanzo scritto in Alsazia nel 1939

Nella sua vastità, può darsi che Georges Simenon offra anche una via di uscita dalla incontrollata proliferazione del racconto familiare cui si assiste nella narrativa di oggi, tra ripiegamento narcisistico e impossibilità più o meno celata di ritagliare una autonomia per il proprio sé rispetto agli amati (o odiati) genitori.

La soluzione proposta da Simenon a questo fenomeno contemporaneo sarebbe all’incirca la seguente: non raccontate della vostra famiglia, salvo che tra i suoi ranghi non vi sia almeno un morto ammazzato per mano di uno degli altri parenti.

La morte di uno zio è uno dei fattacci, e certo non il solo, che intervengono a turbare i ricordi d’infanzia di Malempin, protagonista eponimo dell’ultimo titolo dello scrittore belga riproposto da Adelphi nella «Biblioteca» (traduzione di Francesco Tatò, pp. 142, € 18,00) dopo essere già apparso nella lussuosa collana «La Nave Argo» (Pedigree e altri romanzi) e nel 1960 da Mondadori con il titolo Ricordi proibiti.

Nella voce del narratore in prima persona c’è un’impellenza febbrile, allucinata, che egli non sa spiegarsi e che fa scorrere il testo, quasi un racconto lungo, a velocità palpitante, incardinato a un monologo interiore che diventa narrazione e contiene al suo interno tutte le scene e i dialoghi del suo «romanzo di famiglia».

L’insolito impianto «statico» rende Malempin – la cui prima edizione Gallimard è del 1940 – un titolo eccentrico e prezioso, che chiude idealmente la ricca e felice produzione del Simenon anni trenta: il dottor Édouard Malempin siede accanto al figlio, un bambino fragile e malato, che sembra mostrare i segni di una difterite potenzialmente letale. Chiuso nella camera buia, nell’aria stantia di casa sua, il dottore sprofonda nelle reminiscenze, e riattraversa i momenti salienti della sua infanzia.

Il campionario sarebbe quello tradizionale: la «lingua Malempin», fatta di soprannomi misteriosi, allusioni impenetrabili; le zie acide, il padre anaffettivo, i non detti, i problemi di debiti, i tradimenti, i desideri incestuosi. Solo che poi arriva il fattaccio: uno zio morto (questioni di eredità?). E il povero Édouard è costretto a vivere sulla propria pelle l’antico adagio secondo il quale i bambini «sanno», e gli adulti si comportano ingenuamente come se non se ne accorgessero.

«Sono avviluppato dalle radici che sto dipanando e che vedo spingersi sempre più lontano, sempre più aggrovigliate», dice Malempin: i fatti gli sono ben chiari, ma non è quello che gli serve a impedirgli di comportarsi come un fantasma che vive senza coscienza, sospeso, lontano da tutto quel che gli accade intorno, inclusi moglie e figli («Gli unici anni di vita reale sono gli anni dell’infanzia», sentenzia).

Una strana malattia dell’anima che il dottore non riesce a diagnosticare a se stesso, nonostante la puntuale anamnesi – raccolta per iscritto in un quaderno –, e che mostra i primi sintomi quando, ormai già in cammino verso il distacco psichico da tutto quel dolore, quella confusione, e quella mancanza di empatia che aleggia sopra la sua testa, Édouard si aggira nei campi attorno alla fattoria in cui è cresciuto, e trova un ammasso di cenci che potrebbe essere il cadavere di suo zio: sul momento si agita, corre lontano, ma poi tornerà a giocare proprio lì attorno, via via più indifferente.

Il suo congelamento emotivo inquieta, via via più profondamente, il lettore, che se conosce il suo cliente, sa già che non può aspettarsi un lieto scioglimento: Malempin è condannato (a un segreto esilio da se stesso, e dal mondo).

Per i dettagli d’ambiente e dei volti, e per la descrizione di scene appena accennate, Simenon esercita qui il suo magistero con una misura specifica, una leggerezza del tocco che rende tutto ancora, agli occhi del narratore e quindi del lettore, velato – in quel modo in cui solo i ricordi di infanzia sono velati –, eppure terribilmente eloquente.

«Sono trent’anni che cammino in punta di piedi – ammette Malempin –, (…) perché ho capito che tutto è fragile». Quello che aveva la parvenza del romanzo familiare dunque altro non è che una nuova variazione sul tema dell’homme nu, «l’uomo nudo», osservato cioè sotto una lente che lo spoglia dei paramenti sociali e psicologici: ossessione alla quale Simenon non smise di dedicarsi per tutta la sua vita di scrittore.

Se il cattivo esempio fa vincere (corriere.it)

di Beppe Severgnini
Oggi siamo arrivati alla kakistocrazia, il 
governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo. 
O, se non altro, felici di sembrarlo

La vittoria di Donald Trump è netta e istruttiva. Ma sostenere che rappresenti un passo avanti per la democrazia sembra azzardato. Il profumo dei vincitori è irresistibile, per tanti italiani.

L’ansia di applaudire non aiuta a capire cosa sta accadendo: l’importanza dell’affidabilità e della coerenza, per un leader politico, è passata in secondo piano. Quello che dice conta più di ciò che fa. Mostrarsi virtuoso rischia addirittura d’essere controproducente: potrebbe allontanare gli elettori, che si sentirebbero sminuiti.

I giornali americani hanno elencato puntigliosamente le falsità con cui il presidente-rieletto ha farcito discorsi e comizi. La bufala degli immigrati haitiani che mangiano gli animali domestici era la più grottesca, non certo la più grave. Non ha fatto alcuna differenza, anzi: sembra aver favorito il candidato repubblicano.

Il suo vice J.D. Vance ha spiegato al New York Times, con calma olimpica, che forzare la verità è talvolta necessario per superare l’ostilità dei grandi media. Colpevoli, evidentemente, di verificare le notizie.

«Non sono migliore di voi. Sono peggiore. Perciò votatemi!» sembra la nuova formula magica della democrazia americana. E dall’America, si sa, noi importiamo molte cose. Sfogare gli istinti e sfoggiare i difetti è diventato un modo per rassicurare quegli elettori — e sono tanti — che detestano le critiche. Chi regala approvazione incondizionata è popolare; chi avanza proposte è noioso; chi solleva obiezioni, insopportabile.

Non occorre essere uno storico per saperlo, basta qualche ricordo scolastico: il popolo, nella Grecia di Platone e Demostene o nella Roma repubblicana, chiedeva leader ammirevoli. Questa pretesa — questa illusione? — è durata per secoli, in luoghi e contesti diversissimi. Il popolo, dai suoi leader, voleva onestà, sincerità, sobrietà. Raramente la otteneva, ma almeno la chiedeva.
Neppure i dittatori sfuggivano alla regola. 

Benito Mussolini non ostentava i suoi eccessi: fingeva di essere sobrio e virtuoso, gli italiani fingevano di crederci. Solo autocrati e tiranni, oggi, continuano la farsa. Il nordcoreano Kim Jong-un, qualche settimana fa, è andato su tutte le furie quando su Pyongyang sono piovuti volantini che mostravano i lussi suoi e della famiglia a una nazione poverissima. Donald Trump li avrebbe utilizzati come manifesti elettorali: guardate quanto sono sfacciato, applauditemi! E non c’è dubbio, i suoi elettori avrebbe applaudito.

Aristocrazia significa, com’è noto, governo dei migliori. Oggi siamo alla kakistocrazia, il governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo; o, almeno, felici di sembrarlo. Il copyright di questo discutibile stilnovo appartiene a Boris Johnson e allo stesso Trump: entrambi, nel 2016, hanno vinto sventolando con orgoglio i propri capricci e le proprie debolezze. Le critiche degli avversari? Ignorate, irrise. Finché i due non hanno dovuto governare. Allora inglesi e americani hanno capito, ma era tardi.

Nell’introduzione di Narrare l’Italia, Luigi Zoja, uno psicoanalista che conosce l’antropologia e la storia, ha scritto: «La crescita dei figli non è guidata dalle regole che i genitori impartiscono, ma dagli esempi che offrono. Anche i governanti — padri e madri del popolo — potranno predicare quelle che considerano necessarie virtù nazionali, ma le diffonderanno solo se saranno i primi a praticarle».

L’autore dovrà ammettere che c’è una novità. I leader vincenti hanno smesso di «predicare le necessarie virtù della nazione», preferiscono applaudirne i difetti. Si fa meno fatica, e rende di più.

Le parole «Dài il buon esempio!» sono la colonna sonora di molte, lontane infanzie italiane. E ciò che si chiedeva a un primogenito o a un capoclasse si pretendeva da un primo cittadino o dal capo del governo. Se tradivano la fiducia — e accadeva con una certa frequenza — ci rimettevano il posto e la reputazione. Oggi essere etichettato come «un buon esempio» non è solo anacronistico: è rischioso.

Chi crede di essere questo/questa? Come si permette di indicarci una strada, di suggerirci un comportamento? Sappiamo sbagliare da soli, grazie.

Un cattivo esempio è rassicurante, per molti elettori: vale un’assoluzione preventiva. Se è la nuova strada scelta dalla democrazia, prepariamoci al peggio. Diventerà impossibile liberarsi di un leader scelto in questo modo e per questi motivi.

Cosa volete da me?, risponderà dopo aver deluso e fallito. Vi avevo detto chi ero, e mi avete votato con entusiasmo. Ora zitti e buoni: non lamentatevi.