di Nara Cecchini
Siamo nel salotto di un appartamento di Milano,
l’ambiente è inondato di luce e sembra
faccia caldo.
Nell’inquadratura una signora di una certa età siede sul suo divano nell’angolo in cui di solito “legge libri gialli”. Indossa un vestito al ginocchio, blu scuro e comodo, giacca turchese e classico filo di perle a incorniciare un viso disegnato dal tempo, incredibilmente espressivo. Gli occhi sono intelligenti, mobili e vivaci, spesso affettuosamente irridenti.
La voce dell’intervistatrice le chiede quale messaggio lascerebbe alle generazioni future e a suo figlio. La signora appare sorpresa per la domanda, in un primo momento ride: non è tipo da lasciare messaggi ai posteri. Poi si ferma e si fa di colpo pensierosa, lo sguardo si sposta di lato e sembra andare altrove. Lei è Luciana Nissim Momigliano, sopravvissuta ad Auschwitz che ha deciso di partecipare all’iniziativa della Shoah Foundation di Spielberg; è il 3 luglio del 1998 e in dicembre un tumore ne avrebbe spento la vita.
Dopo quel momento di impasse si ricompone, cambia posizione e risponde: “Il messaggio è questo: lavorare, darsi con devozione alle cose che si fanno, fare quello che si crede sia importante fare, non fare le cose solo per il successo, per farsi un monumento […] e poi credere nella vita anche quando le cose vanno peggio e tutto sembra sia distrutto”. Chiude ironizzando su ciò che ha appena detto, “Per carità di Dio, dare un messaggio alle generazioni future, ma scherziamo? Ma dai!”.
Questa risposta, e l’ironia che vi è sottesa, ci dice molto della sua straordinaria personalità. Luciana ha voluto credere che potesse ancora esserci vita anche quando tutto intorno a lei moriva; lei stessa è stata vita che resiste sotto il peso delle macerie della seconda guerra mondiale, dei Lager e dello sterminio.
Quando è poi riemersa dal cumulo di rovine ha deciso che avrebbe vissuto dandosi interamente a ciò che amava, al suo lavoro e alle persone che aveva vicino. Sembra una lezione semplice, quasi banale, ma non lo è. Appena tornata aveva raccontato la sua esperienza concentrazionaria in un breve scritto dal titolo Ricordi dalla casa dei morti, considerando così chiuso quel capitolo della sua vita. Assolto il dovere della testimonianza, del Lager non aveva più parlato fino agli anni ’90.
“Ora che siamo alla fine dell’intervista, perché non ha testimoniato per tutta la vita e ora invece sì? Cos’è cambiato?”, le chiede la sua intervistatrice. Questa volta nessun tentennamento precede la risposta: “Beh, perché credo che bisogna testimoniare. Per tanti anni non l’ho fatto, pensavo che lo faceva Primo Levi molto meglio di me, io facevo l’analista ed era importante far bene il lavoro che facevo.
Da quando è morto Primo mi sembrava più necessario parlare […] credo che essendo in tarda età sia importante lasciare una testimonianza, non so, non avrò mai nemmeno modo di vederla” … leggi tutto
