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Janis Joplin e il blues cosmico (doppiozero.com)

di Corrado Antonini

Nel leggere due libri contemporaneamente può 
capitare di sovrapporre l’uno all’altro, 
di confondere personaggi e vicende, oppure 
di cercarvi delle assonanze se non proprio 
delle corrispondenze. 

Mi è successo di recente con Janis, la biografia definitiva di Holly George-Warren (ed. DeAgostini, 2020, traduzione di Luca Fusari e Sara Prencipe, 478 pp., € 24,00) e Istante propizio, 1855 dello scrittore cèco Patrik Ouředník (ed. Exorma, 2018; trad. Andrea Libero Carbone, 138 pp., € 12,00). Fra i due libri non v’è relazione, ma nel libro di Ouředník a un certo punto si legge: “Non chiedo l’uguaglianza delle donne; parlo di libertà.

L’uguaglianza non è altro che una nuova riorganizzazione della società degli uomini, una nuova riforma: si dà licenza alle donne di assomigliarci, di diventare assassini, politici, strateghi, individui irresponsabili ed egoisti, avidi di potere. Dite alla donna che ha il diritto di uccidere, mettetele un fucile in mano – diventerà sanguinaria ed esecrabile tanto quanto l’uomo. (…) Questo oggi rivendicano i predicatori della nuova dottrina, del nuovo idolo che chiamano femminismo. No – non diamo l’uguaglianza alle donne, diamo loro la libertà”.

Ouředník nel libro s’ispira alla storia dell’agronomo rivoluzionario pisano Giovanni Rossi, il quale nel 1890 fondò una comune anarco-comunista in Brasile dove, fra le altre cose, teorizzò di poligamia e di libero amore, salvo accorgersi che un conto era quando a teorizzare e a praticare erano gli uomini, ma quando teoria e pratica (soprattutto la pratica) passavano di mano, anche le migliori utopie rischiavano di finire gambe all’aria.

Quando Janis Joplin abbandonò definitivamente il natio Texas per stabilirsi in California (era nata e cresciuta a Fort Worth, cittadina portuale sviluppatasi grazie alle raffinerie di petrolio), lo fece assecondando impulsi diversi. A muoverla erano l’irrequietezza giovanile, il desiderio di seguire le orme di Jack Kerouac, l’ambizione di inventarsi una carriera come cantante ma, anche, nelle sue parole: la volontà di cercare un po’ di libertà personale, e qualcuno che la pensasse come me.

In Texas all’epoca quasi nessuno la pensava come lei, mentre in California non le fu difficile imbattersi in un gruppo di ragazzi che come lei sognava un mondo diverso e un modo diverso di stare insieme. Si unì al gruppo Big Brother and the Holding Company e ben presto, sull’esempio dei Grateful Dead, si trasferì con la band nella contea di Marin prendendo in affitto un vecchio ranch … leggi tutto

L’immortale Bartfuss (doppiozero.com)

di Daniela Gross

“Bartfuss è immortale. Durante la Seconda guerra 
mondiale fu in uno di quei piccoli campi della 
morte, noti per la loro ferocia. 

Adesso a cinquantasette anni, è sposato con una donna che una volta chiamava Rosa, ha due figlie, una maritata”. L’enigma di uno dei personaggi più intensi creati dal grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld, scomparso tre anni fa, è tutto qui – nella stringata cronistoria che apre L’immortale Bartfuss (Guanda, 113 pp.) per la prima volta tradotto in italiano da Elena Loewenthal.

Perché Bartfuss è immortale? In quale campo è stato? Come ha fatto a sopravvivere? Perché ha smesso di chiamare sua moglie per nome? Pagina dopo pagina, incalzati dalle domande, lo seguiamo lungo le vie di Tel Aviv spazzate dal vento e dalla pioggia, dentro i caffè dove incontra altri sopravvissuti, nel minuscolo appartamento che condivide con la moglie e le figlie.

Mentre il racconto procede, le domande si moltiplicano e le risposte arrivano a frammenti, oblique, rapsodiche. E alla fine poco contano perché il miracolo di questo libro è nel silenzio che lo pervade – nella capacità di Appelfeld di dare vita per sottrazione a un personaggio che resiste a ogni tentativo di afferrarlo ma si stampa nella memoria come certe immagini fuori fuoco che pure risultano precisissime.

Di Bartfuss si sa che è arrivato in Israele in circostanze avventurose, dopo un periodo trascorso in un campo profughi in Italia. Un tempo che spesso gli torna alla mente come una mitica età dell’oro – “l’incantevole Italia prima di Rosa, prima delle figlie”. Se non fosse per la moglie, per “quell’errore madornale, adesso sarebbe alle isole di San Giorgio, in quelle isole meravigliose, disabitate e infuse giorno e notte di silenzio e di acqua”. Per il resto, la sua storia sfuma nel mito.

Non gli si conoscono genitori o amici. Nessuno sa sa come si sia salvato dal campo della morte. Si dice che sia immortale. (“Ha cinquanta pallottole nel corpo. Come fa uno a vivere con cinquanta pallottole nel corpo?”. “Fatto sta che è vivo”. “Allora è immortale”). La sua abilità negli affari è leggendaria. Vive poveramente ma è ricchissimo, si dice … leggi tutto

Svastiche e insulti antisemiti: su Zoom l’irruzione neofascista contro il libro sulla Shoah (repubblica.it)

Un'incursione vera e propria, studiata, 
organizzata, 

violenta – come fosse in una sala, ma andata tutta in onda online – da parte di un gruppo rimasto anonimo ma contro cui ora partirà una denuncia alla polizia postale. È accaduto durante la presentazione del volume “La generazione del deserto” della scrittrice Lia Tagliacozzo: “È stato scioccante”

Insulti antisemiti, urla, minacce, svastiche, immagini di Hitler. Tutto durante la presentazione di un libro sulla memoria della Shoah e l’uso che di quella memoria si può fare oggi, come strumento di civiltà.

È accaduto oggi in diretta Zoom quando Lia Tagliacozzo – scrittrice, giornalista, autrice di “La generazione del deserto”, edito da Manni – aveva appena preso la parola per discutere della sua ultima opera in un incontro online organizzato dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza in collaborazione con il Centro di Studi ebraici di Torino.

A raccontare l’accaduto sono stati per primi i suoi due figli, su Facebook, scioccati, arrabbiati, disgustati da quanto avvenuto in rete. “Un gruppo di persone organizzate – scrive Sara, 20 anni, romana – sono entrate in massa nella riunione Zoom della presentazione, mentre stava parlando mia madre. Zittendola.

Hanno iniziato ad urlare “ebrei ai forni”, “sono tornati i nazisti” ,”vi bruceremo tutti”, “dovete morire tutti”. Impostando come foto identificativa immagini di Hitler e svastiche enormi” … leggi tutto

L’anguille di Bolsena e la vernaccia (treccani.it)

Percorsi di cose e parole nella lingua 
del cibo

La lingua del cibo fra tradizione e innovazione

Siamo immersi nella lingua del cibo: non solo le librerie hanno fra gli scaffali da sempre più frequentati quelli dedicati alla cucina e all’enogastronomia, non solo i quotidiani più diffusi pubblicano inserti e supplementi (per altro improvvidamente chiamati FoodCook), che si affiancano a riviste dalla tradizione illustre, come La cucina italiana, ma i canali di comunicazione sociale, a qualunque livello, abbondano di ricette, esecuzioni, creazioni culinarie più o meno probabili, più o meno fantasiose, presentate con toni ora rustico-casarecci, ora molto affettati e presuntamente modaioli.

La centralità del cibo, le sue intersezioni con i piani della cultura, della tradizione, dell’innovazione, della moda, le sue interrelazioni con le questioni dell’economia e della tecnologia, fanno sì che il discorso sulla lingua (di preferenza parlerei appunto di lingua del cibo, come possibile iperonimo capace di raccogliere sia la componente degli alimenti sia quella della loro trasformazione culinaria e dell’esito gastronomico) non sia mai neutro, ma caricato di valenze identitarie, di facili tendenze esterofile, di tangenze con la politica del mercato internazionale.

Parlare di lingua del cibo significa dunque tentare di raccogliere sotto un’etichetta passabilmente riconoscibile un insieme largo e vario di realtà; e significa anche affrontare questioni di tipo specificamente linguistico, a cominciare dalla connotazione di questo come linguaggio specialistico.

Non pare possibile equiparare in maniera diretta il linguaggio del cibo a quello della burocrazia, o della politica, o della scienza, o dell’economia, la cui qualifica specialistica, o ‘settoriale’, è ormai da tempo concordemente riconosciuta … leggi tutto

«Dante, la Divina Commedia resta un mistero» (corriere.it)

di Paolo Di Stefano

Federico Sanguineti, studioso dell’Alighieri 
come suo padre Edoardo: i filologi sono come 
i virologi, sanno tutto. 

Ma del poema non conosciamo quasi nulla

Per raggiungere Federico Sanguineti basta andare su Facebook, dove sotto la sua fotografia con cilindro nero un po’ buffonesco troverete il suo motto: «La vita è un partorirsi quotidiano». Tutto con lui assume un carattere stralunato e insieme puntuale fino alla pignoleria, un continuo pendolarismo tra poesia comico-burlesca e filologia. Filologia italiana è la disciplina che Sanguineti insegna a Salerno da diversi anni, con un occhio particolare a Dante, suo cavallo di battaglia sin dagli Anni 80, e tanto più da quando nel 2001 pubblicò una edizione critica della Commedia che fece scalpore.

Dopo la famosa edizione di Giorgio Petrocchi (1966-67), che definiva il corpus di manoscritti più importante nella cosiddetta «antica vulgata», cioè nei 30 codici anteriori a Boccaccio, Sanguineti riprendeva in considerazione i seicento manoscritti non frammentari, arrivando a considerare validi per la ricostruzione del testo sette soli testimoni.

Tra questi, identificava il più autorevole nell’Urbinate 366, di colore linguistico emiliano-romagnolo. Ne nacquero adesioni entusiastiche (per esempio da Maria Corti) e serie obiezioni, come quella di Cesare Segre. Il quale esprimeva le sue perplessità sui tratti linguistici anti-fiorentini dell’edizione.

Sanguineti ha continuato a lavorare ed è giunto, con gli anni, a nuove e diverse acquisizioni. Nel 2018, per il Melangolo, con la collaborazione di Eleonisia Mandola, è uscito un Paradiso e di recente un Inferno, basati sul «più antico codice di sicura fiorentinità». Che, a differenza di quel che si è creduto per lungo tempo, non sarebbe il celebre Trivulziano 1080, datato 1337.

Il fatto è che se dal punto di vista linguistico i codici settentrionali sono poco affidabili, perché hanno una patina estranea all’originale (ovviamente fiorentino), sul piano testuale, essendo il frutto della prima diffusione del poema, avvenuta al Nord, sono meno corrotti … leggi tutto