Genova, le immagini e i movimenti. Intervista a Tano D’Amico (dinamopress.it)

di Lorenzo Sansonetti

«Da Genova siamo usciti con un secolo di carcere 
e con un ragazzo morto. 

Ha vinto una visione poliziesca delle immagini, che in fondo è l’origine stessa della fotografia». Tano d’amico spazia dai graffiti rupestri agli smartphone: «il problema non sono gli strumenti, ma cosa si cerca in una foto. Non ci concentriamo sui fatti, guardiamo cosa suscitano. Bisogna ripartire dal teatro greco per riconnettere foto e movimenti»

Per parlare di immagini, vent’anni dopo il G8 di Genova, abbiamo deciso di guardare anche altrove, nel tempo e nello spazio. Dai primi anni Settanta Tano D’Amico ha accompagnato e raccontato ogni fase dei movimenti del nostro paese, con alcune tra le foto più belle che hanno caratterizzato quella storia. «Può un’immagine amare così tanto da cambiare il destino?» si chiede nel suo penultimo libro Fotografia e destino, pubblicato da Mimesis.

La sua è una riflessione profonda e poetica che interroga e spiazza. Ascoltare Tano, per chi lavora con le immagini, è sempre istruttivo e mai banale. Ma c’è una condizione: bisogna avere tempo. Per questo, nonostante le difficoltà del momento, decidiamo di vederci di persona, seduti al tavolino di un bar.  A distanza, con i volti coperti come ci è successo in passato durante tante manifestazioni, ci si guarda dritti negli occhi, per affrontare una discussione per niente facile.

Il G8 di Genova, che abbiamo vissuto in prima persona, è stato un evento ipermediatico. In quelle giornate, e poi dopo, mediattivismo e mediatizzazione dall’alto si sono scontrati, con video, foto, radio, articoli. Cosa resta di quelle immagini e di quel movimento vent’anni dopo?

In primo luogo ne è uscito fuori un secolo di carcere e ne è uscito fuori un ragazzo ucciso. Quindi non possiamo dire che per noi è andata bene. Per quanto riguarda le immagini io partirei dal fondo, cioè dall’ultima arringa della difesa in Cassazione. Troppo tardi l’avvocato si è posto il problema e ha parlato di immagini. Ha usato delle belle parole: «Giudici voi state per condannare delle persone per delle immagini a cui voi avete messo le didascalie. Sono istanti di vita distanti tra loro, che voi avete legato assieme, mettendo delle didascalie».

Aspettavo queste parole da tantissimo tempo. Ma rappresentavano una sconfitta delle immagini come erano pensate dai movimenti e dagli stessi avvocati. Con orrore aveva vinto la visione poliziesca delle immagini: da una parte e dell’altra si voleva inchiodare l’avversario. Questo è il peccato originale delle immagini.

Come nasce il rapporto tra fotografia e movimenti?

Facciamo un briciolo di storia, le fotografie sono nate proprio per schedare le persone. All’incirca nel 1830 con la nascita delle grandi fabbriche, in cui si concentravano grandi masse di persone, portate via dalle campagne con il ricatto della fame e obbligate a lavorare senza sosta. Così sono nati i primi sabotaggi (da “sabot”, zoccolo, che veniva gettato negli ingranaggi, per sopravvivere). Per controllare gli operai nei reparti inventarono le foto, per schedare i sabotatori. La fotografia è un’invenzione poliziesca.

Le foto vennero vissute come un pericolo dai maggiori artisti dell’epoca. Cito uno per tutti: Charles Baudelaire, che teneva conferenze in cui teorizzava che quell’invenzione avrebbe riportato indietro la coscienza dell’umanità. Perché – sosteneva – se noi prendiamo un attimo di una realtà ingiusta, lo fermiamo e lo perpetuiamo, facciamo l’operazione più reazionaria che ci possa essere. Non aveva tutti i torti. Però c’era un buco in questo ragionamento: Baudelaire non aveva tenuto conto che quell’attimo che con una foto si ferma e si prolunga il fotografo lo può scegliere.

Eppure Baudelaire, che era l’uomo più fotografato della sua epoca (si parla di 600 ritratti), viveva nello studio di Nadar e degli altri fotografi dell’epoca, che con i loro limiti, sono stati tra i più grandi di sempre. Avevano partecipato ai moti del 1848 e alla Comune di Parigi.

Noi siamo schiavi, ma abbiamo persone bellissime che quando sorridono illuminano tutto. Anche se sappiamo che diventeranno vecchi, sdentati e si ammaleranno, in quel momento, che si prolunga per sempre, quelle persone si raccontano. In quell’istante si può leggere il passato, il presente e anche il destino.

Questo passaggio è descritto molto bene nel tuo libro Fotografia e destino, dove spieghi che per fare «una bella foto bisogna aspettare, aspettare, aspettare…»

Sì, è fondamentale la selezione del momento e delle linee. Tutto il ciclo di studi che facciamo purtroppo è basato sulla parola statica. Ci insegnano la divisione tra immagine statica e immagine figurativa, ma questa è una cazzata! Se noi esaminiamo tutte le immagini che ci hanno formato sappiamo che sono tutte astratte!

I quadri di Van Gogh, ad esempio, richiamano esperienze, pensieri, affetti e sono fortemente astratti. Linee, angoli, che parlano di paura, amore, speranze. Sono gli angoli delle persone. Vedendo un’immagine si capisce se il fotografo ha studiato, si sente l’eco delle immagini del teatro greco, del Rinascimento, della Comune di Parigi, di molti pittori. I movimenti sopravvivono nella nostra memoria grazie alle immagini.

Esistono dei miei colleghi che mai per tutta la vita hanno mandato in carcere nessuno. Perché non hanno rappresentato il periodo? Non è vero, lo hanno rappresentato benissimo. Io, anche se non voglio parlare di me, in sessant’anni di vita con le immagini non ho mai mandato nessuno in carcere. Né amico né nemico, nessuno … leggi tutto

Massimo Recalcati, la Bibbia e la psicoanalisi (doppiozero.com)

di Luigi Maria Epicoco

Il testo di Massimo Recalcati, 

La legge della Parola. Radici bibliche della psicanalisi (Torino Einaudi, 2022, pagine 400) verosimilmente diventerà un classico della saggistica, e questo per un motivo molto semplice: l’autore ci offre in maniera sistematica e approfondita una sorta di antropologia biblica della psicanalisi, una specie di fondale di senso dentro cui si riesce a rileggere non solo la pratica della psicanalisi, ma molti aspetti della nostra contemporaneità e dell’essere umano stesso.

Proprio per questo aspetto in realtà è molto difficile collocare lo studio di Recalcati in un ambito ben definito. Il potenziale di queste pagine è destinato a fecondare molti ambiti di molti saperi. Penso ad esempio a come si potrebbe ripensare un intero approccio teologico a partire proprio da queste intuizioni, o a come ci si ritrova disarmati, dopo la lettura di queste pagine, nell’accostare l’atea riflessione della psicanalisi in maniera vetustamente conflittuale con l’ambito religioso.

Per stessa ammissione dell’autore la scrittura di questo testo non riguarda solo un periodo recente della sua produzione e della sua riflessione, ma comprende una parabola di tempo abbastanza lunga testimoniata dalla profondità di lettura di alcuni brani biblici e di alcune folgoranti intuizioni e relazioni concettuali che a mio parere non ci offrono solo una chiave di lettura nuova, ma insegnano un vero e proprio metodo di lavoro e di riflessione.

Ciò che il libro non è.

C’è però bisogno di una doppia premessa che dica apertamente e fin da subito ciò che questo libro non è.

Esso non è innanzitutto un tentativo di psicanalizzare il testo biblico, bensì esattamente il suo contrario. Il testo biblico è infatti preso come rivelativo e provocante proprio verso la psicanalisi, e Recalcati ne traccia una mappa già percorsa da grandi pensatori come Freud e Lacan, ma in alcuni casi spalanca sentieri che sono ancora tutti da percorrere e scoprire.

La seconda premessa riguarda la ‘rinuncia ideologica’ che Recalcati fa fin dall’inizio del testo, infatti davanti a grandi pensatori come Freud e Lacan, o davanti alla grande tradizione biblica giudaico-cristiana si può stare con la postura fanatica del discepolo integralista che non ammette nessuna difformità al pensiero del maestro. Freud e Lacan possono essere idolatrati fino al punto da tradire proprio l’intuizione ‘eretica’ del loro pensiero, l’originalità del loro contenuto, la capacità di dire qualcosa di nuovo lì dove regna ripetizione o muro.

Lo stesso testo biblico può essere impugnato come una spada per ferire, dividere, uccidere, contrapporre, diventando uno strumento di morte e venendo meno a ‘quell’abbondanza di vita’ di cui è portatore. Recalcati vaglia, riporta alla memoria il pensiero dei grandi, considera le interpretazioni bibliche più tradizionali, ma esercita anche la libertà di contraddire, correggere o semplicemente indicare una lettura altra.

Questo metodo è come l’alcol su una ferita: da una parte impedisce l’infezione del ripiegamento, ma dall’altra provoca il bruciore del narcisismo che è sempre nascosto nel cuore del discepolo integralista che leggendo i propri maestri e la propria tradizione in maniera ideologica, mal sopporta una differenza, interpretandola sempre come eresia. Ma ogni vero contributo è sempre attraversato da una ‘eresia necessaria’.

Il primo tempo di un dittico.

La Legge della Parola è in realtà solo la prima parte di un doppio discorso che speriamo presto di vedere arrivare alla sua conclusione con la pubblicazione del secondo volume. Così come il testo biblico è diviso nell’Antico e nel Nuovo Testamento, così Recalcati in questa prima parte si concentra sul cuore dell’Antico Testamento, la Torah, mostrando come appunto il cuore della Legge è la Legge di quella Parola che taglia, che struttura nell’uomo una mancanza necessaria. È il tempo della riconciliazione con la propria creaturialità.

È proprio la dimenticanza del proprio limite e della propria debolezza la radice di quel delirio di onnipotenza che ci fa aspirare a volerci fare Dio. I racconti della creazione e della prima fraternità fallita, quella di Caino e di Abele, ci mettono davanti all’evidenza che c’è qualcosa che precede l’amore ed è l’odio. C’è qualcosa che precede il legame di bene ed è la furia omicida che ci abita.

L’ammissione di questo buio atavico non dice un destino inesorabile a cui siamo condannati, ma riporta l’amore, il bene, la luce, i legami, nell’ambito di un’umanità che va conquistata e scelta e che non va mai data per scontata.

Accanto a questa tremenda consapevolezza di avere radici che affondano nel buio possiamo rileggere l’azione di Dio come l’azione di una salvezza che più che liberarci da questo buio ci dà l’occasione di elaborarlo come un risvolto della luce, come la sua ombra, cioè in stretta connessione con la luce stessa … leggi tutto