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Oliver Stone, l’America e noi (doppiozero.com)

di Stefano Malosso

“La mia è anche una storia di fallimenti”.

Oliver Stone, 74 anni da poco, sembra incarnare l’essenza stessa dell’America, capace di grandi cadute e di improvvise resurrezioni, sia che si guardi al destino degli ultimi della piramide sociale statunitense che alle trame ordite dal potere nei grattacieli che svettano nelle sue metropoli. In questa oscillazione – che non risparmia nessuno – si situa la cinematografia del regista nato a New York, tra i pochi a perseguire un’ostinata ricerca nell’intrico della verità, nell’epoca dello svuotamento della centralità del reale in favore dell’interpretazione e della manipolazione operata dai supporti tecnologici, tema cardine di molte pellicole di Stone, dall’amato/odiato Natural Born Killers (1994) all’ultimo Snowden (2016).

E proprio in questa direzione si possono scorrere le pagine di Cercando la luce, l’autobiografia firmata dal regista americano ed edita da La nave di Teseo, un taccuino intimo che, mostrando una storia personale, restituisce la scatola nera dei sussulti dell’America dagli anni Cinquanta ad oggi, in un ritratto dolceamaro dell’American Dream che prevede, prima del successo arrivato nel 1986 con Platoon, l’anticamera infernale della guerra del Vietnam – dove Stone combatte, uccide e viene ferito – seguita dagli anni della scrittura e della frustrazione per l’indifferenza degli studios, durante i quali il regista dovrà accettare anche i lavori più umilianti.

Sono anni colmi di difficoltà, che registrano il fallimento del primo lungometraggio The Hand (1981), le difficoltà nella produzione di Salvador (1986), l’eccitazione della stesura di sceneggiature che diventeranno nel tempo dei veri cult, da quella di Scarface per Brian De Palma a quella di Fuga di mezzanotte per Alan Parker.

Nel mezzo, se ancora non bastasse, Stone riesce a piegare a materia narrativa la cocaina, i fantasmi di una storia familiare non ricomposta e la mai sopita necessità – che diventa sempre più urgenza – di esprimersi per affermare la verità del proprio tempo.

Quella stessa ricerca che continua ad animare il suo sguardo inquieto, che incontro durante il tour italiano di presentazione del volume, tra le paure della pandemia e la consapevolezza di essere spettatori di un’opera che si sta scrivendo sotto i nostri occhi … leggi tutto

Dobbiamo diventare più “vegetali” (e meno “animali”)? (indiscreto.org)

di Roberto Paura

La “plant renaissance” cerca di rigettare 
la vecchia definizione aristotelica di 
vegetale, riconoscendo a piante e alberi 
forme di intelligenza e comunicazione 
simili alle nostre. 

Ma forse dovremmo rovesciare il ragionamento e chiederci cosa ci sia, in noi, che ci rende simili alla vita vegetale.

Qualche anno fa mi capitò di chiedere a una persona di cosa si occupasse e di sentirmi rispondere “abbracciare gli alberi”. Lì per lì pensai a una battuta, del tipo “innaffiare il mare”, ma il ragazzo era serissimo. Era un tree hugger, come si chiamano le persone radicalmente ambientaliste e un po’ New Age che cercano di ricostruire i legami con la natura attraverso pratiche di questo tipo.

Nel 2017 il botanico Giuseppe Barbera, docente di Colture arboree all’Università di Palermo, ha pubblicato per il Saggiatore un libro dal titolo Abbracciare gli alberi: non parla di personaggi stravaganti, ma racconta di storie di alberi e del loro ruolo – passato e presente – nella civiltà europea.

Barbera dedica qualche parola anche al fenomeno dei tree hugger: “Alcuni movimenti di nuova o vecchia spiritualità, votati a realizzare l’unione più stretta tra gli esseri animali e vegetali, forniscono pratiche indicazioni per abbracciare con profitto gli alberi: consigliano di camminare in un parco o in un bosco, accarezzare la corteccia, sentire il profumo del legno, guardare verso l’alto la cima e, alla fine, scegliere la pianta giusta. Dopo di che cingerla con delicatezza e intensità, fino a sentirsene parte”.

Le pratiche spirituali che hanno a che fare con gli alberi si sono moltiplicate negli ultimi anni anche in Italia, contestualmente a un rinnovato interesse sia scientifico che divulgativo all’elemento vegetale, a cui finora non abbiamo mai dedicato una seria attenzione per via della convinzione (o pregiudizio) che vegetale significhi, appunto, immobile, statico, privo di vita.

Eppure, nelle culture totemiche, le piante erano considerate alla stregua degli animali e intere tribù si identificavano spesso con un albero o una pianta particolare. Qualcosa del genere sembra ritornare ora sotto forma dei fenomeni di neo-sciamanesimo o direttamente mutuati dalla cultura New Age.

Per esempio, nella Foresta Mercadante, in Puglia, parte del Parco nazionale dell’Alta Murgia, si può prendere parte a raduni iniziatici organizzati da un’associazione sciamanica, consistenti in camminate di “meditazione dinamica”, momenti di aggregazione nel cuore della foresta in cui, formato un “cerchio sciamanico”, i partecipanti iniziano a suonare sonagli e tamburi con l’obiettivo di animare la foresta e risvegliarne gli spiriti, e sperimentazioni di trance per poter accedere alla visione sciamanica della vita, secondo cui l’intera natura è viva e animata … leggi tutto

Il superorganismo stupido (doppiozero.com)

di Matteo Meschiari

Saul Bass, illustratore americano, inventore 
di geniali poster cinematografici e di 
inconfondibili titoli di testa per Preminger, 
Wilder, Hitchcock e Kubrik, 

diresse tra il 1973 e il 1974 il suo unico lungometraggio, all’origine di un mio indelebile trauma infantile e forse della predilezione per certi temi che avrei sviluppato quarant’anni dopo. Il film si intitola Phase IV, in italiano Fase quarta: distruzione Terra. Leggendo Il superorganismo di Bert Hölldobler e Edward Wilson (vedi su doppiozero l’articolo di Marco Belpoliti, Le origini profonde delle società umane) e avendo lottato durante il lockdown contro un’inquietante invasione di formiche, convinto poi che la vera apocalisse sarà guidata dagli insetti, per la prima volta da allora ho deciso di rivedere questa pellicola straordinaria.

Al botteghino fu un fiasco, la critica la massacrò, solo molto dopo fu rivalutata da una nicchia di cinefili e oggi, ma forse esagero, va considerata una pietra miliare di quella che potremmo definire “archeologia dell’Antropocene”. Non perderò tempo a riassumere la trama o a farne l’analisi perché secondo me dovete proprio vederlo, mi limito a dire che la diegesi alterna il punto di vista di formiche senzienti che innescano uno squilibrio biologico apocalittico e quello di umani abbandonati sull’orlo inesorabile dell’estinzione, con riprese in close up degli insetti, angoscianti e bellissime, realizzate dal documentarista Ken Middleham.

Phase IV mi terrorizzò da bambino e anche adesso mi inquieta seriamente per la dimensione claustrofobica del formicaio, per la perfetta resa in immagini dello sciame deleuziano, per l’ineluttabilità del crollo della ragione tecnologica. Verso la fine viene offerta la chiave di lettura: gli umani pensano di osservare le formiche e di fare test su di esse ma in realtà sono le formiche a fare esprimenti sugli umani.

Nell’effetto specchio capiamo che l’estinzione provocata dagli insetti è metafora del processo distruttivo innescato dall’uomo, ma la metafora zoppica, si inceppa, e quello che passa è qualcosa di completamente diverso: una resa cognitiva di fronte all’inevitabile. Qualunque cosa sia, da qualunque parte provenga … leggi tutto

Mimmo Lucano fiero di essere “fuorilegge”: la sua storia per i rifugiati e Riace (globalist.it)

L’ex sindaco riepiloga, in un volume 
Feltrinelli, un’esperienza positiva ma 
stroncata perché con i migranti risollevò 
il borgo calabrese. 

Ne parla a Conversano e a Trani

Riace non è solo la cittadina calabrese dei due stupendi Bronzi greci, è anche la cittadina che è stato teatro di un esperimento sociale, politico, anzi tutto umano: quello di Domenico Lucano, per tutti Mimmo, sindaco che aveva saputo far risorgere un paese in via di abbandono grazie ai rifugiati, grazie a centinaia di famiglie insediate lì permettendo all’economia del borgo di ripartire. Poi sapete come è finita per volontà di una politica salviniana che lo vedeva come fumo negli occhi e di una vicenda giudiziaria.

Mimmo Lucano non si è arreso. Tanto da raccontare la vicenda sua e di Riace dai secondi anni ’90 al 2018 nel libro “Il fuorilegge” (Feltrinelli, pp 183, euro 15) che presenta al Festival Lector in fabula a Conversano (nel barese) domani 25 settembre e il giorno dopo ai “Dialoghi di Trani” nella manifestazione nella città pugliese sul mare.

Riepiloga il senso del volume e dell’azione di Lucano la scheda di Feltrinelli che dice: “A Riace, alla fine degli anni novanta, non esistevano quasi più né l’agricoltura, né l’allevamento. L’unica possibilità per i pochi abitanti rimasti era fuggire. Poi il sistema di accoglienza diffuso creato da Lucano ha cambiato tutto. Le case del centro, da tempo abbandonate, si sono ripopolate. Centinaia di rifugiati hanno potuto ricostruire le loro famiglie e hanno rimesso in moto l’economia del paese”.

Il 2 ottobre 2018 il sindaco, nato nel 1958 e in carica dal 2004, fu arrestato. I media della destra gioirono e si ringalluzzirono. L’accusa? Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le autorità prontamente bloccarono i programmi di accoglienza e Riace si svuotò … leggi tutto

Il partigiano Pietro Chiodi (doppiozero.com)

di Enrico Manera

Pietro Chiodi (1915-1970), filosofo e 
partigiano, ha legato il suo nome 
all’esistenzialismo in Italia, agli 
studi e alle traduzioni di Kant, di 
Sartre e di Heidegger. 

A lui si deve, oltre alla sistemazione definitiva della complessa terminologia heideggeriana, molto della ricezione del filosofo tedesco che ha permesso di leggerne il pensiero “da sinistra”, inaugurando una fortunata stagione teorica in Italia. Nicola Abbagnano, amico e interprete dell’esistenzialismo positivo, nel ricordo pubblicato il giorno dopo la morte di Chiodi, ha scritto che «fu filosofo per la stessa ragione per cui fu partigiano. Si trattava di realizzare con mezzi diversi uno stesso scopo, quello di contribuire ad emancipare l’individuo e ad affermarne in modo completo l’umanità».

Una immagine di Chiodi, certamente trasfigurata dalla penna dello scrittore ma comunque realistica, ci viene restituita anche attraverso le descrizioni che Fenoglio, che è stato suo allievo ad Alba, ha lasciato del “suo” professore: «Sprizzante naturalmente, anche in riposo, intelligenza dialettica e disciplina filosofica, appoggiata alla larga mano troppo villosa».

In Il partigiano Johnny in un dialogo letterario ma verosimile con il personaggio del prof. Monti, sono riproposte le parole di Chiodi su Kierkegaard e sulla sua attualità: «Vedi, l’angoscia è la categoria del possibile. (…) Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario “sprung”, cioè salto verso il futuro». Chiodi e Fenoglio – vicini anche nel dopoguerra – e altri come loro avrebbero scelto, tra tutte le possibilità di quel tragico passaggio della storia d’Italia del 1943-45, il salto più difficile e autentico: diventare partigiani. Banditi.

Banditi è un testo redatto in forma di diario tra il 1945 e 1946 sulla base di appunti presi nel periodo 1939-1945. Ha avuto diverse edizioni (Anpi 1946, Alba; Panfilo, 1961 Cuneo; Einaudi del 1975/2002, 2015, Torino, “l’Unità” 2003). Davide Lajolo, su «l’Unità» del 10 ottobre 1946, nel recensire la prima edizione ne parlava come del «libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana». Tra i suoi lettori, Fortini lo ha definito «quasi un capolavoro […] che vorrei che tutti leggessero».

Bobbio lo definisce di un «diario duro e scarno” in grado di restituire «l’impressione della reale spietatezza di quella lotta, della violenza delle passioni contrastanti, della severità degli impegni assunti, che bisognava mantenere sino al sacrificio, della atmosfera di angoscia che dominava le famiglie in contatto con le bande» … leggi tutto