La storia di “C’era una volta in America”, tra leggenda e ossessione (huffingtonpost.it)

di Giacomo Galanti

Il giornalista Piero Negri Scaglione racconta 
in un libro la genesi dell'ultimo film di 
Sergio Leone

La prima volta che Sergio Leone parla in pubblico dell’idea di girare “C’era una volta in America” è il 1969. L’occasione è un programma della Rai condotto da Corrado che si chiama “A che gioco giochiamo?”. Il grande regista ha da poco portato sugli schermi “C’era una volta il west” e due anni dopo girerà “Giù la testa”.

Mentre il film che annuncia in diretta televisiva uscirà solo nel 1984. Ben quindici anni dopo, ma se prendiamo il primo momento in cui Leone comincia a pensarci bisogna aggiungere altri tre anni: in tutto fanno diciotto. A raccontarlo è il giornalista Piero Negri Scaglione in un libro imperdibile per tutti gli appassionati di cinema: Che hai fatto in tutti questi anni, edito da Einaudi. Più di 200 pagine in cui viene svelato ogni piccolo particolare dietro a questa opera che va oltre il cinema, assumendo agli occhi dei più un qualcosa di mitico.

Partiamo subito dalla battuta più celebre, una delle più citate della storia del cinema. A pronunciarla è il protagonista, un Noodles ormai invecchiato interpretato da Robert De Niro che alla domanda di un amico su cosa abbia fatto in tutti questi anni, risponde: “Sono andato a letto presto”. Il padre di questa intuizione è Enrico Medioli, fine sceneggiatore di pellicole come “Rocco e i suoi fratelli”, “Il gattopardo” e “La ragazza con la valigia” per citarne alcune.

E spiega all’autore del libro che si tratta di un “furto” alla Recherche di Marcel Proust … leggi tutto

Tutto è connesso (iltascabile.com)

di Andrea Daniele Signorelli

I rischi della fusione tra mondo fisico e digitale 
secondo Laura DeNardis, autrice di Internet in 
ogni cosa.

Ese vivessimo già nel metaverso? Se non fosse necessario aspettare che Mark Zuckerberg crei il suo mondo virtuale basato su Facebook o che Fortnite si espanda fino a occupare ogni spazio della nostra quotidianità? Se la digitalizzazione avesse già pervaso alcune aree del pianeta così a fondo da essere ormai indipendente dalla presenza dell’essere umano?

“Se gli esseri umani improvvisamente svanissero dalla Terra, il mondo digitale continuerebbe comunque a ronzare vivacemente. Le videocamere di sorveglianza che controllano le strade da Pechino a Washington continuerebbero a trasmettere video in streaming. I bot russi dei social media continuerebbero a diffondere propaganda politica. I termostati connessi a internet continuerebbero a regolare il clima delle case.

I robot continuerebbero a spostare merci all’interno di giganteschi magazzini. I server continuerebbero a minare Bitcoin. […] Finché l’elettricità non smette di fluire, il cyberspazio continua a vivere”.

Con questo quadro post-apocalittico – che rende bene l’idea di come l’infrastruttura della rete possa muoversi autonomamente dalla nostra presenza – inizia l’ultimo saggio della statunitense Laura DeNardis, docente di Internet Governance all’Università di Washington: Internet in ogni cosa (di cui ho curato la traduzione, per Luiss University Press).

I visionari – o angoscianti – scenari di un futuro in cui il mondo digitale si scioglie in quello fisico, dove la distanza tra tecnologia e corpo umano si annulla e la nostra vita finisce a scorrere in un metaverso dominato dalle grandi corporation sono già oggi, almeno in parte, l’ambiente in cui viviamo. “Internet non è più soltanto un sistema di comunicazione che mette in collegamento le persone e le informazioni”, scrive DeNardis.

“È un sistema di controllo che connette veicoli, dispositivi indossabili, elettrodomestici, droni, attrezzature mediche e ogni altro settore industriale immaginabile. Il cyberspazio oggi permea completamente, e spesso impercettibilmente, gli spazi offline, dissolvendo i confini tra mondo materiale e mondo virtuale” … leggi tutto

(Lars Kienle)