Una conclusione che tira le somme, letteralmente: “Dei sei candidati alla successione di Lenin secondo il suo Testamento, cinque sono scomparsi pochi anni dopo, sterminati dal sesto”
Ieri Repubblica ha pubblicato la nona e ultima puntata di “Lenin. Un romanzo russo”, la storia che Ezio Mauro ha dedicato al centenario della morte del capo della rivoluzione d’ottobre.
Una conclusione che tira le somme, letteralmente: “Dei sei candidati alla successione di Lenin secondo il suo Testamento, cinque sono scomparsi pochi anni dopo, sterminati dal sesto”.
Mauro ha però riservato l’ultimo racconto all’anatomopatologia del sacrario bolscevico. Lenin era morto nella puntata precedente, adesso si tratta di renderlo immortale, imbalsamato, surgelato, immerso in formalina, glicerina, acetato di potassio, devozione e terrore.
Il corpo sta disfacendosi nell’imperizia quando si trova il riluttante taumaturgo. Il mondo è piccolo, lui “ha 48 anni, viene da Odessa, insegna anatomia all’Università di Kharkiv e sta osservando da lontano, dietro gli occhiali pince-nez rotondi, la scena del gran ballo moscovita attorno al cadavere del Capo dell’Urss che sembra scritta da Bulgakov: stanno sbagliando tutto, ancora pochi giorni affidati al ghiaccio e quel corpo non potrà più essere recuperato.
Il professor Volodimir Petrovic Vorobyov sa cosa bisogna fare ma non vuole dirlo, il rischio è troppo grande, comanda la politica e non la scienza: meglio restare silenzioso lontano da Mosca, nel vecchio obitorio. Vorobyov non ha paura degli spettri. Nel 1919 ha fatto parte della commissione per i crimini dei bolscevichi a Kharkiv nella guerra civile.
Ha visto e certificato l’orrore che riemergeva dagli scavi nei campi di Kharkiv, fin dai 18 cadaveri riaffiorati nel primo giorno d’inchiesta, per arrivare al comunicato numero 19 che denuncia “mille persone uccise in città”, al rinvenimento di 97 cadaveri torturati nella prigione del lavoro forzato, al calcolo ufficiale più prudente di 286 vittime… Vorobyov aveva conservato molti organi anatomici, ma non aveva mai provato a imbalsamare un intero corpo umano: e doveva incominciare proprio con Lenin?”.
E’ impressionante come la storia giri attorno a se stessa. Attorno agli stessi luoghi, specialmente, città memorabili e dimenticate fosse comuni. Kharkiv bombardata è cronaca di oggi.
Allora, solo alcuni anni dopo, “davanti alle voci dissacranti, un collega curatore, il professor Boris Zbarskij, invitò nella cripta moscovita un gruppo di testimoni stranieri tra cui il giornalista americano Louis Fischer, che lo vide aprire la bara di vetro, prendere la salma di Lenin per il naso e scuotere la testa a destra e sinistra, assicurando: “Durerà un secolo””. Il secolo è suonato, la mummia andata a rotoli.
Grazie a Mauro per l’ennesimo reportage dal passato, che, se ne avessi il potere, leggerei ad alta voce, nell’unico podcast della mia vita, a due ascoltatori, possibilmente ammanettati, l’uno all’altro magari: Vladimir Putin, ed Elon Musk.
Una realtà scomoda, a sette anni dalla rivoluzione del #MeToo. Mentre sempre più donne giovani aderiscono a valori progressisti, gli uomini della stessa età tendono ad abbracciare idee conservatrici. Basandosi su dati raccolti in più di venti paesi, il Financial Times ha evidenziato la crescita, da sei anni a questa parte, di un “divario ideologico” di circa trenta punti tra le ragazze e i ragazzi della generazione Z, in particolare sulle questioni di genere.
Anche la Francia è toccata da questo fenomeno preoccupante. A gennaio del 2024, l’Haut conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes, un istituto nazionale che si occupa di parità di genere, ha lanciato l’allarme. I risultati della sua indagine annuale sul sessismo mostrano “un divario sempre più polarizzato”, commentano gli autori del rapporto.
“Più l’impegno a favore delle donne si esprime nel dibattito pubblico, più la resistenza si organizza”. In particolare preoccupa la crescita di “riflessi mascolinisti e comportamenti machisti […] tra i giovani uomini: il 28 per cento dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni ritiene che “gli uomini siano fatti per occupare posti di controllo più delle donne” (contro il 9 per cento di chi ha tra i 50 e i 64 anni). E secondo il 52 per cento di loro, “c’è un accanimento contro gli uomini”.
Le femministe conoscono bene il fenomeno del backlash (contraccolpo), termine usato dalla giornalista statunitense Susan Faludi per descrivere l’affermarsi di un contromovimento dopo un’avanzata del femminismo. Da quando è cominciato il #MeToo, molti uomini s’interrogano sulla propria identità maschile e rimettono in discussione il modello dominante in cui sono cresciuti. Ma al tempo stesso nel dibattito pubblico si è affermato un antifemminismo senza filtri.
In pochi anni si sono moltiplicati video e “podcast bros”, in cui degli uomini parlano di muscoli, sport e seduzione, ma anche – in modo spesso degradante e caricaturale – di donne, accusate di aver preso troppo potere. Insegnano metodi di seduzione virili ispirati al “maschio alpha” (stereotipo di una mascolinità dominante), che dovrebbero permettere ai giovani uomini di riconquistare il loro posto nella società.
Questi discorsi attirano una “comunità molto organizzata e solidale di uomini che agiscono insieme”, osserva l’antropologa Mélanie Gourarier, che gli ha dedicato la sua tesi di dottorato, Alpha mâles. Séduire les femmes pour s’apprécier entre hommes (Seuil 2017) . La campagna d’odio online che nel 2022 ha colpito l’attrice statunitense Amber Heard durante la sua battaglia legale contro l’ex compagno, l’attore Johnny Depp, ha rivelato il peso mediatico di questi gruppi.
Grazie agli algoritmi, le rappresentazioni che circolano all’interno di questa maschiosfera si stanno diffondendo nella società, in particolare tra i più giovani. La giornalista Pauline Ferrari, autrice del saggio Formés à la haine (JC Lattès 2023), ha creato su TikTok il profilo di un adolescente un po’ fragile e depresso: dopo un quarto d’ora, il suo feed era pieno di contenuti aggressivi contro le donne.
La parola mascolinismo è presente nel dibattito pubblico dall’inizio degli anni duemila. Indica quelle manifestazioni di resistenza al femminismo secondo cui le donne ormai dominano gli uomini, i quali devono quindi difendere i loro diritti e ristabilire la loro identità maschile.
Questo “contromovimento, incentrato sulla vittimizzazione degli uomini”, come lo definiscono la ricercatrice quebecchese Mélissa Blais e il suo collega Francis Dupuis-Déri, può prendere diverse forme, più o meno gravi. “Spesso si usano degli eufemismi, per esempio dicendo che il femminismo si è spinto troppo oltre, che gli uomini non possono più dire né fare nulla, che bisogna riequilibrare la situazione”, spiega Dupuis-Déri, autore del saggio La crise de la masculinité. Autopsie d’un mythe tenace (Remue-Ménage 2018).
Secondo Mélanie Gourarier, il concetto di mascolinismo si estende a “ogni gruppo organizzato intorno alla difesa della ‘causa degli uomini’ e nello scontro con il femminismo e le donne”. E avverte: “Sarebbe un errore considerarlo un fenomeno limitato ad alcuni ambienti. Rappresenta un pensiero predominante, i cui valori sono molto diffusi nella società”.
Il mascolinismo “si inserisce a pieno titolo nel retaggio di un antifemminismo la cui origine è antica quanto quella del movimento femminista, se non addirittura precedente”, sostiene la storica Christina Bard, tra le curatrici del libro Antiféminismes et masculinismes d’hier et d’aujourd’hui (Puf 2019). Il termine è stato inventato alla fine dell’ottocento dalle pioniere del movimento femminista, insieme alla parola femminismo.
La giornalista Hubertine Auclert (1848-1914) lo usava per descrivere “l’egoismo maschile che spinge gli uomini ad agire in difesa dei proprio interessi”, spiega Denis Carlier, che sta completando una tesi di dottorato in scienze politiche su questo tema.
Significati contraddittori
Nel corso del novecento il significato del termine cambia. Spesso considerato un neologismo, assume significati diversi e a volte contraddittori. Questi cambiamenti riflettono i diversi fronti delle battaglie politiche.
Ancora oggi non esiste una definizione unanime in ambito universitario. La filosofa Geneviève Fraisse preferisce parlare di “resistenza al femminismo”, espressione più politica: “Il mascolinismo rimanda a un’identità e difende, in nome dei diritti degli uomini, una struttura non fondata sull’uguaglianza, mentre il femminismo pone fin da subito la questione politica della libertà e dell’uguaglianza, punti di riferimento della democrazia”.
Secondo Dupuis-Déri, “il termine mantiene ancora oggi un significato molteplice, peraltro diverso in francese e in inglese, dove indica l’ideologia patriarcale”.
Anche se la definizione cambia da una lingua all’altra, poggia su una tesi comune, quella di una “crisi della mascolinità” che sarebbe causata dalla femminilizzazione della società e dall’indebolimento delle differenze tra i sessi. “È un discorso che viene regolarmente tirato fuori per spiegare tutto e il contrario di tutto, in ogni paese”, osserva Dupuis-Déri. “Le difficoltà dei bambini e dei ragazzi a scuola, quelle degli uomini sposati, il rifiuto dei tribunali di concedere la custodia dei figli ai padri divorziati e perfino fenomeni complessi come l’immigrazione, le sommosse, il terrorismo o la guerra”.
Femminicidi e vittimismi
Dagli anni settanta, in Francia, questa crisi è evocata dal movimento di difesa dei padri divorziati. Questi ultimi denunciano la presunta ingiustizia di un sistema giudiziario che affida più volentieri i figli e le figlie alle madri. Come ricorda la ricercatrice Gwénola Sueur, “nel 1969 nasce una prima associazione a Grenoble, la Didhem” (Difesa degli interessi degli uomini divorziati e dei loro figli minorenni). L’associazione è creata pochi mesi dopo il caso di Cestas, sulle cui conseguenze Sueur sta scrivendo una tesi di dottorato.
Nel villaggio di Cestas, nel dipartimento della Gironda, un capocantiere di 38 anni si barrica nella sua fattoria dopo aver rapito i figli. Chiede che la moglie, da cui è divorziato da tre anni, torni da lui, “perché crepi e creperà”. In seguito al rifiuto dell’ex moglie, uccide un gendarme durante l’assedio, poi ammazza due dei figli e si suicida. Insultata dalla folle, la madre dovrà essere protetta dalle forze dell’ordine per potersi raccogliere in preghiera sulla loro tomba.
Nei mesi seguenti, il caso di Cestas ispira numerosi femminicidi, suicidi di uomini e minacce. “Diventa il simbolo di quello che alcuni giornali chiamano il ‘dramma’ dei padri di fronte all’aumento dei divorzi”, commenta Sueur. “Una copertura mediatica che permette al movimento di portare avanti un discorso vittimistico”.
In Se noi bruciamo ha raccontato tutte le
contestazioni e le rivolte dell’ultimo decennio.
Abbiamo parlato con lui di rabbia, repressione, e della rara e famosa pars construens.
Se noi bruciamo è il secondo libro di Vincent Bevins, pubblicato da Einaudi. È un racconto di tutte le proteste popolari scoppiate negli anni Dieci: in Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud, Cile. Bevins racconta le speranze e le delusioni di queste proteste, dando voce a chi vi ha preso parte. E si chiede: come possono funzionare queste rivolte? Bevins è nato a Santa Monica, ha quarant’anni, è stato corrispondente dal Brasile e dall’Indonesia per il Financial Times, il Los Angeles Times e il Washington Post.
ⓢ Come ti è venuta l’idea di scrivere Se noi bruciamo?
Non ho scelto di interessarmi alle rivolte popolari, è un fenomeno esploso fuori da casa mia a San Paolo, in Brasile, nel giugno 2013. Da lì, mi sono appassionato. Nel 2019, subito dopo l’uscita del mio primo libro, ho deciso di ampliare le ricerche. Ho trascorso quattro anni in giro per il mondo, intervistando circa 250 persone provenienti da 12 nazioni diverse e leggendo i libri più rilevanti sull’argomento. Ho scritto Se noi bruciamo in quattro anni, dopo averlo concepito per un decennio.
ⓢ Pensi sia vero che, come diceva Churchill, la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che sono state sperimentate finora?
Io e Churchill abbiamo una concezione diversa di cosa sia una democrazia. Il mondo è cambiato. Se consideri democrazia soltanto la gestione formale di elezioni periodiche, penso che sia una forma di governo imperfetta. Nel contesto di Churchill ci sta guardarsi intorno e vedere il fascismo, i totalitarismi, e considerarli inferiori. La democrazia, però, non dovrebbe essere soltanto l’esistenza di processi che selezionano i leader, ma un sistema dove i leader rappresentano davvero il popolo, dove gli elettori hanno un potere decisionale, non solo di scegliere se sarà questo o quel partito a governare. Le prime proteste sui generis sono nate alla fine del ventesimo secolo, e sono esplose negli anni Dieci. Oggi gli eletti rispondono alle élite economiche, non ai cittadini. C’è differenza fra i finti processi democratici e le democrazie nel vero senso della parola.
ⓢ In Italia abbiamo il Movimento 5 Stelle, utile strumento per incanalare la rabbia popolare in un partito tutto sommato innocuo. Hai seguito le vicende italiane negli ultimi anni?
Ho incluso nel libro soltanto le proteste di massa così grandi da rovesciare un governo, o destabilizzarlo obbligandolo a profonde riforme. C’è però un fenomeno parallelo: l’antipolitica come risposta a crisi di rappresentanza nel sistema globale. È successo la scorsa decade in molti Paesi, uno di questi è l’Italia. In Brasile nel 2010 un clown si è candidato alle elezioni con lo slogan: «Votate per me, le cose non possono andare peggio». Questa soluzione, cioè premiare chi dice “votami, sono un outsider quindi farò meglio di chi è già lì, sto sfottendo il sistema, sfrutto un potere alternativo, magari perché sono ricco o una celebrità”, è emersa come strategia politica. È il contesto dove sono nati i 5 Stelle. Comunque, anche se ti presenti alle elezioni gridando che odi il sistema, se vinci poi devi governare. Un outsider non è più illibato delle persone all’interno delle istituzioni. Donald Trump è l’esempio perfetto, come Zelensky, Macron, Obama.
ⓢ Boris Johnson?
Anche lui. Spesso, chi si definisce alieno alla stanza dei bottoni mente. Boris Johnson appartiene per nascita alla casta che domina il Regno Unito. Donald Trump è un miliardario che finge di essere un imprenditore immobiliare, quando in realtà è un ereditiere che adora stare in televisione. La Brexit è stata alimentata dall’antipolitica, prima di trasformarsi in un autosabotaggio. L’antipolitica, così come il populismo di destra, è una pessima soluzione a problemi reali. È facile dire io non sono parte di questo, io farei meglio. Le cose si possono migliorare anche dall’interno. C’è il rischio altrimenti di scadere nell’autoritarismo alt-right, vedi Bolsonaro in Brasile. Liberiamoci dai partiti politici, dalla lotta e dal dibattito, l’essenza della democrazia, e affidiamoci a un uomo forte, a un gruppo di uomini che rappresenteranno l’intera nazione. Questo è lo sbocco più pericoloso.
ⓢ Secondo te è possibile immaginare oggi una rivoluzione negli Stati Uniti? Non tipo il 6 gennaio, qualcosa di più sistemico.
C’è una regola generale, nella storia dei movimenti rivoluzionari: di solito, arrivano di fretta e inaspettatamente. La Storia può bussare alla porta quando meno te l’aspetti. Posso immaginare nel mio Paese il collasso di una società che crea un vuoto di potere? È possibile, gli Stati Uniti sono un sistema politico potente ma disfunzionale. Temo però che, se succedesse fra poco, predominerebbero le frange più di destra dell’esercito. Una milizia estremista vincerebbe comodamente terribili battaglie combattute per strada.
ⓢ In Italia, al confine della cortina di ferro, negli anni ’70 il Partito comunista aveva il 30 per cento dei voti, e movimenti rivoluzionari di estrema sinistra ottennero un grande potere. Secondo alcune teorie, questi sommovimenti popolari morirono quando l’eroina venne introdotta nel mercato italiano dalla Cia per assopire i giovani, e spegnere le loro velleità rivoluzionarie. È realistico immaginare un simile disegno manipolatorio dietro al boom dei social media, perfetto strumento per depotenziare le proteste, confinandole sul telefono?
Non servono dietrologie, sappiamo per certo che negli ultimi vent’anni l’esplosione di aziende che sviluppano social media, guidate dal profitto e dalla pubblicità, ha profondamente trasformato la percezione umana del senso di comunità, del mondo, della politica. Siamo cambiati, da un punto di vista cognitivo, dal costante rapporto con i social media. Non è internet in generale ad aver inquinato il modo in cui le persone interagiscono, la colpa è di un modello d’impresa nato in California che prevede l’appropriazione di infrastrutture pubbliche da parte di un gruppo di oligarchi che hanno scoperto la formula per massimizzare i profitti: aumentare il tempo che passiamo incollati allo schermo del telefono.
ⓢ C’è anche l’influenza politica, vedi il caso di Elon Musk.
Elon Musk usa il potere economico per cambiare il discorso pubblico. I social media sono stati creati negli Stati Uniti, una delle società più individualiste. È molto semplice spiegare cos’è accaduto, quanto sia stato un fenomeno sconvolgente. È difficile levare internet a questi oligarchi, riprenderlo, creare un movimento democratico per rendere pubblico ciò che avrebbe già dovuto essere esserlo. Immaginiamo cent’anni fa, ai tempi dell’invenzione del telefono: cosa sarebbe successo se le persone che sostenevano di averlo inventato, invece di fornire servizi ai cittadini, si fossero arrogate il diritto di manipolare le tue conversazioni per tenerti in linea più tempo possibile, magari mettendo la pubblicità a metà chiamata?
ⓢ Hai fatto a lungo un mestiere da sogno, il corrispondente dall’estero. Che cosa ne pensi del citizen journalism?
Gli strumenti che fornisce internet sono un’aggiunta positiva all’ecosistema dei media. È un bene che una persona comune, non stipendiata da un’organizzazione, possa registrare l’intervista a un attivista di un movimento locale e pubblicare il video online. Nel frattempo il giornalismo professionistico, una parte importante della democrazia e della civiltà negli ultimi cinquecento anni, sta morendo perché non c’è più un modello di business sostenibile. Il giornalismo come vocazione, qualcosa che fai perché servono delle abilità e una dedizione a tempo pieno, sta sparendo. Dovremmo trovare dei modi per salvarlo. È difficile, penso ci sia bisogno di progetti politici, non di un piano aziendale. Non si può creare un modello economico innovativo, ci vuole un movimento per proteggerlo. Se non lo creiamo, il giornalismo scomparirà. E, dato che sta morendo, qualsiasi cosa che testimonia la prima bozza della storia va bene. Il problema è che il citizen journalism sembra rispondere alle stesse logiche dei social media, spesso viene messa in risalto la cosa più scioccante, strana o scandalosa. E questo non per colpa di quello che il giornalismo partecipativo è o può essere, è colpa dei social media. C’è il rischio che le aziende di marketing e pubblicità prendano possesso dello spazio che una volta era dei giornali, spacciandosi per attività editoriali.
ⓢ Se dovessi ritrovarti leader di una protesta popolare, quali sarebbero le tue prime tre richieste all’autorità?
Idealmente, ci potrebbe essere un tumulto se il governo commettesse abusi evidenti. Bisognerebbe rispondere organizzando gli attivisti in un sistema democratico all’interno del movimento per eleggere i rappresentanti e responsabilizzarli. Sarebbe necessario creare una lista di riforme. E, ovviamente, ci vuole una forte partecipazione popolare. Così quando vai dal governo con le tue domande, dopo una preparazione strategica, puoi dire: guarda, ho questo milione di persone, sono dietro di me e li rappresento davvero. La prima cosa che chiederei è tre pasti gratis al giorno nelle scuole pubbliche. Ci sono persone affamate in America. Potremmo chiamarlo il Black Panther Breakfast Program. Il governo non può rifiutare, e miglioreremmo gli Stati Uniti.
ⓢ L’Italia in confronto è un paradiso socialista, qua tutti i bambini hanno pasta e pizza gratis a scuola.
Anche il Brasile. Questo è un buon modo di negoziare. Chiedi una cosa grande, che non riuscirai a ottenere, ma fai nascere una conversazione.
ⓢ “Siate realisti, chiedete l’impossibile”, come dicevano nel ’68.
Nel 2020 molte persone in America hanno chiesto di abolire la polizia. Una richiesta troppo radicale per essere accettata, ma che ha fatto nascere un dibattito sullo status quo. Non puoi sperare di sfamare tutti i bambini del mondo, ma puoi accendere la scintilla che mette in moto un dibattito. Pasti gratis a scuola, e cercare di rendere gli Stati Uniti un Paese che non si senta al di sopra delle leggi internazionali. Sarebbero due belle conquiste.
ⓢ Aggiungerei, come terza, ospedali gratis. Ultima domanda: pensi che il cambiamento climatico sarà la forza che, in futuro, ci obbligherà a cooperare?
Lo spero. Ci sono molte possibilità in questo scenario apocalittico, tra cui l’inevitabilità di una collaborazione globale. Molti ostacoli la impedirebbero, ci vorrebbe un lavoro profondo, al momento improbabile, fra agenti internazionali. Le catastrofi climatiche aumenteranno l’immigrazione verso le nazioni più ricche, che potrebbero rispondere con violenza. Questo sarebbe catastrofico per la maggioranza dell’umanità, che casualmente non è nata nel mite bacino nord atlantico.
Nell’ottobre del 1924 André Breton pubblicava il primo Manifesto Surrealista: qui un racconto per festeggiare il centenario della società segreta che alla fine trionferà sulle tenebre, dalle tenebre
(Man Ray, 1936, illustrazione per «L’amour fou» di André Breton – Gallimard 1937, Einaudi 1974 e successive edizioni)
In Commedia dell’orrore in Francia, racconto che probabilmente è stato censurato dall’editoria mondiale per decenni, Roberto Bolaño riporta la disavventura di un giovane cileno a Parigi, convocato da telefonate anonime al cimitero del Père Lachaise per aderire a una setta di seguaci di André Breton che alberga nelle catacombe o piuttosto nelle fogne della capitale francese.
Pur avendo le sembianze letterarie di uno scherzo, il fatto è accaduto davvero ed è autobiografico: quando ormai era diventato un autore conosciuto, dopo la pubblicazione di alcuni libri alla metà degli anni novanta, prima del boom planetario dei Detective selvaggi, Bolaño – lo raccontò in via confidenziale all’amico scrittore Enric Montano, che mi ha poi riferito la storia – aveva preso a ricevere telefonate notturne al suo numero di casa, a Blanes.
Una voce contraffatta e suadente gli ripeteva due o tre volte la settimana che la sua presenza sarebbe stata gradita per la notte successiva, in un certo posto di Parigi, per delle ragioni che via via si andarono precisando nel corso delle notti, e che alla fine presero la conformazione, nelle parole di Bolaño riferite da Montano, di «un piano di sabotaggio universale a danno delle merde, per tramite della setta dei surrealisti clandestini».
Progetto che si doveva ispirare alla guida del dittatore e sacerdote del surrealismo, André Breton, che poco prima di morire aveva lasciato scritto proprio questo: il surrealismo doveva ritirarsi in clandestinità, e agire dalle catacombe di Parigi. («Le surréalisme est le ‘rayon invisible’qui nous permettra un jour de l’emporter sur nos adversaires», aveva scritto altrove).
Bolaño non aveva problemi a parlare di notte, perché soffriva di insonnia. Anzi, sogghigna Montano, i suoi amici poterono rilassarsi per un po’, perché ricevettero via via meno telefonate del solito, fino a smettere del tutto di riceverne.
Era proprio questo che turbò da principio Bolaño: non si sentiva più libero di chiamare i suoi amici di notte, perché la voce suadente gli teneva impegnato il telefono, e dopo le prime due o tre volte, lui stesso non osò occupare la linea aspettando la telefonata che non si presentava mai con cadenza fissa (intere notti passate a attendere inutilmente la prossima chiamata, racconta lo scrittore cileno).
Alcuni, ma non Montano, cominciarono a preoccuparsi del fatto che l’amico aveva smesso di svegliarli nottetempo per impegnarli in estenuanti chiamate telefoniche (a tema perlopiù letterario). Bolaño è scomparso, o è morto, disse qualcuno.
E qualcun altro andò a controllare e lui, evasivo, disse che stava avendo problemi con il gestore della sua linea telefonica, che a quel tempo era l’unico gestore di tutta la Spagna, e non stava dando problemi ad altri che a lui, sicché nessuno credette a quella versione, e ciascuno si fece la propria idea a proposito di quel repentino cambiamento.
A Bolaño le telefonate piacevano, ma davano anche motivo di frustrazione, perché egli non aveva tempo né voglia di andare a Parigi, la città che era stata per una stagione quella del suo amatissimo ma ormai defunto amico Mario Santiago, di cui avrebbe poi scritto nei Detective selvaggi sotto il nome di Ulises Lima,magari per poi scoprire che le telefonate erano solo una presa in giro, stuzzicata dalla sua incipiente fama e favorita dall’esistenza, già allora residuale, degli elenchi telefonici.
Poiché le telefonate continuarono a lungo, Bolaño cominciò a riflettere sul da farsi. Da un lato aveva il desiderio che quello scherzo si fermasse, perché cominciava a stancarlo e perché la cosa si stava protendendo verso una durata allarmante. Dall’altro era indeciso se rispondere una volta per tutte presente, o almeno scriverci sopra un grande romanzo convulso e stellato. Cominciò a credere che ci fosse qualcosa di vero nella faccenda della setta.
Agli scettici rispondeva con una frase di Breton presa da L’amour fou: «Mi sembra che la più grande debolezza del pensiero contemporaneo risieda nella stravagante sopravvalutazione di ciò che è noto rispetto a ciò che ancora rimane da conoscere».
Un mattino di pioggia battente, dopo essere rimasto alzato tutta la notte a rimuginare sulla telefonata ricevuta, nella quale stavolta si erano letti interi passi da opere di Breton che Bolaño avrebbe potuto riconoscere già al primo sintagma, lo scrittore si recò in cartoleria e comprò una mappa tascabile di Parigi, con grande sorpresa del cartolaio che lo conosceva come uno che mai più avrebbe messo piede a Parigi in questa vita.
Attraverso gli appunti che da un certo momento in poi aveva cominciato a accumulare, Bolaño prese a segnare sulla cartina i luoghi che gli erano stati indicati di volta in volta: luoghi sempre diversi, tranne per il Père Lachaise, che ricorreva nella proporzione di uno a tre («And every third thought shall be my grave», dice Prospero nella Tempesta).
Dopo qualche mese, e svariate telefonate notturne durante le quali lui non diceva mai niente, quando ormai si era alle porte della primavera, Bolaño ebbe da suo figlio, allora un bambino di sei o sette anni, l’idea di unire i puntini che aveva segnato in rosso sopra la cartina.
Tracciando, quasi incidendo, precise linee rosse con il pennarello, padre e figlio videro apparire sopra la cartina (che da poco ho potuto vedere con i miei occhi, oggetto dozzinale con i luoghi di interesse turistico segnalati da uno sgarbato rilievo di plastica) il disegno di una sorta di ragnatela sbilenca che al suo centro aveva, stranamente, un luogo a nord di Parigi immerso tra le nebbie (almeno così se lo immaginavano i due improvvisati cartografi cileni, non molto pratici della città).
Le telefonate cessarono di colpo il giorno della pubblicazione dei Detective selvaggi.Anni dopo, quando Bolaño decise di trarre dalla curiosa esperienza un racconto, o forse un romanzo-fiume di cento cartelle, come gli era già capitato, fu ormai troppo tardi.
Commedia dell’orrore in Francia rimase incompiuto perché lo scrittore dovette concentrare le sue esigue forze di uomo gravemente malato nella stesura di un altro romanzo, edito comunque dopo la sua morte e a sua volta non finito. La storia delle telefonate fu dimenticata da tutti e Montano non ha fatto altro che custodirla silenziosamente per decenni, insieme alla cartina, ormai ingiallita e cenciosa.
2.
Batignolles è tra i quartieri che in anni recenti hanno subìto la trasformazione più profonda, in una città già ipercinetica di suo (Patrick Modiano, lui sì indomito cartografo della capitale francese, in uno dei suoi ultimi romanzi fa dire al narratore che in certi luoghi di Parigi «si ha l’impressione ormai di camminare in una città straniera»).
A Batignolles sorge il complesso architettonico avveniristico attorno al parco Martin Luther King, che, non per il nome, sembra un giardino di Downtown Chicago, circondato da palazzi di vetro e acciaio. Un po’ più in là c’è il nuovo tribunale, un grattacielo scalare che fa ombra da lontano alla piccola square de Batignolles, frequentata e dipinta dagli impressionisti, e ora invasa da una mandria irrequieta di corridori folli, compressi in anguste tutine catarifrangenti. Il cimitero del quartiere è defilato, nascosto dal boulevard périphérique che abbraccia la città, in un groviglio di perenni lavori in corso e qualche – fatto raro – immobile diroccato.
Quasi nessuno degli abitanti del quartiere ha un parente sepolto lì, e se non fosse stato per una ricerca mirata, non lo avrei mai trovato passandoci accanto. Mi ero trasferito a Batignolles da poche settimane. Avevo appena letto certi racconti parigini di Julien Green portati a casa mia da un’amica e abbandonati con sdegno sul comodino: essi mi avevano condotto al minuscolo cimitero di Passy, un luogo sorprendente, mimetizzato in un angolino alle spalle del Trocadéro.
Mi chiesi se non ci fosse un cimiterino ben nascosto in ciascuno dei quartieri della città, e così mi misi a cercare nel mio. Il nuovo vicino, un milionario che viveva nel Midi e teneva un «pied-à-terre in città» (in realtà un appartamento di duecento metri quadri con tre balconi sulla strada, in fondo alla quale anni addietro doveva essere stata ricavata, separando la stanza degli ospiti dal resto del pied-à-terre, e includendo per mia fortuna una luminosa vetrata liberty, la casa dove vivevo da poco), mi disse di non averne mai sentito parlare.
Si espresse negli stessi termini la signora portoghese della pastelarìa, con cui ero entrato subito in cordiale confidenza, e che viveva nel quartiere, mi disse, da oltre trent’anni.
Trascorsi una intera domenica mattina a camminare nei paraggi, senza trovare il cimitero di Batignolles, che pure con questo nome compariva nell’elenco dei cimiteri cittadini che avevo consultato. Non ancora rassegnato a impiegare una mappa elettronica disponibile in rete, andai al mercato delle pulci, a Saint-Ouen, dove Breton incontrò una donna che gli chiese se voleva ascoltare una poesia da lei conosciuta a memoria.
Lì trovai incorniciata una antica cartina di Parigi, molto ampia e troppo preziosa. La consultazione andò a buon fine. Finsi di trattare sul prezzo, che non avrei accettato nemmeno se fosse stato la metà di quello che mi chiedeva il minaccioso rigattiere (la metà di assai è sempre assai, diceva mio padre in napoletano), poi me ne andai con l’informazione che finalmente avevo acquisito (ho buona memoria «fotografica» e senso dell’orientamento, soprattutto se ho potuto osservare una mappa prima di addentrarmi nel territorio).
Mi dedicai ad altro. Qualche settimana dopo, un pomeriggio di novembre, tornando da una lunga passeggiata lungo l’Oise, mi ritrovai nei sobborghi a nord della città, e mi venne in mente di rientrare dalla parte del tribunale, non lontano dal quale avrei trovato il cimitero. Era accanto a un campo di calcio dove si stava giocando una improbabile partita tra bambini di otto anni. All’ingresso vidi la vecchia insegna di un marmista funebre, sul muro di una piccola palazzina crollata.
Il cancello d’ingresso, verde speranza, cigolava e opponeva resistenza. Mi venne incontro quello che doveva essere il custode, un omone sulla cui pelle nera la camicia bianca produceva un effetto di grande eleganza. Mi diede il benvenuto e disse di chiamarsiBemba.
Poi, dopo una strana pausa, aggiunse con un sorriso, professeur Bemba. Pensando a uno scherzo, sorrisi. Accolgo sempre con entusiasmo lo sparuto gruppo dei parigini gioviali. Mi chiese se volessi per caso sapere chi erano gli uomini illustri sepolti lì. Credevo che non ce ne fossero, dissi. Mi disse che André Breton era lì. Mi sembrò che insistesse con lo sguardo in qualche modo.
Che ci fa qui Breton? Chiesi di condurmi alla sua tomba, dubitando che il professeur Bemba avesse ragione. Ci sarà magari un omonimo, o un parente. Breton è al Père Lachaise, mi dicevo, o a Montparnasse, con Baudelaire e Beckett. Di nuovo il custode si comportò in modo strano. Non posso, mi disse, deve andarci da solo (ma non mi aveva appena detto che mi ci avrebbe portato lui? Me lo ero immaginato, ingannato dalla sua gentilezza?). Se la accompagnassi, qui all’ingresso non resterebbe nessuno.
Posai lo sguardo sulla guardiola dipinta con la stessa pittura usata per il cancello. C’erano due o tre avvisi comunali, gli orari del cimitero, e un’altra targa sbiadita che diceva «C’est vivre et cesser de vivre qui sont des solutions imaginaires. L’existence est ailleurs». Una frase appropriata, in quel contesto, ricordo di aver pensato. Mi incamminai, benedetto da un cenno amichevole del professeur Bemba che mi fece tornare la mente a certi vecchi greci di paese, quando lasci casa loro dopo aver goduto della più perfetta e gratuita ospitalità, e quelli ti seguono fin sull’uscio, e poi alzano il braccio, e dicono con voce stentorea, come se fosse la battuta di un attore in teatro, kalò dròmo!, buona strada.
Il cimitero era completamente silenzioso. Come molti, subisco il fascino di questi luoghi, mi piace soffermarmi sulle vecchie tombe. Ci si raccoglie volentieri. Una epigrafe più recente delle altre chiedeva al defunto, senti i nostri baci? Avanzando lungo il vialetto principale notai che il cavalcavia del périphérique passava praticamente sopra il cimitero. Insolito. E d’altronde il viavai dei veicoli non interveniva a turbare la pace dei morti, e nemmeno quella dei vivi che gli rendevano visita.
Mi ci volle quasi un’ora prima di trovarla. Mi ero arreso quando per caso vi posai sopra lo sguardo: la tomba di Breton, e di Elisa, la donna cilena sepolta accanto a lui. Mi vennero in mente i suoi libri, quelli che avevo amato, libri fatti di apparizioni: Nadja, e L’amour fou, dove, districandosi in una foresta di segni, si può trovare scritto: «la bellezza è come un treno che incessantemente scalpita nella Gare de Lyon. E di cui so che non partirà mai, che non è partito».
E può forse lasciare indifferenti la grazia spericolata del Manifesto surrealista del 1924, quando proclama che «il linguaggio è stato dato all’uomo perché ne faccia un uso surrealista?»… Una strana associazione: dietro la tomba di Breton c’era una cappella il cui vetro laterale era stato sfondato (da un corvo?). Se ci si metteva esattamente tra essa e la tomba dello scrittore, dove stavo io, si vedeva oltre il vetro rotto un cristo dipinto in fondo alla cappella che saluta anche lui con il braccio, come il professeur Bemba o come il vecchio greco che dice kalò dròmo, come se qualcuno (un corvo?) avesse rotto il vetro di proposito per favorire l’incontro fra Breton e Gesù.
La temperatura era calata bruscamente, e non doveva mancare molto al tramonto. Era una di quelle giornate in cui Parigi può essere molto bella, come fu scritto, quando il cielo è limpido e fa freddo. Sentii una mano che si posava dolcemente sulla mia spalla. Era il professeur Bemba, che mi coglieva distratto, spaventandomi. Il cimitero chiude mi disse, dobbiamo andare. E ce ne andammo.
Ero rapito dai pensieri, un po’ malinconico ma allo stesso, nella pienezza di quel sentire, ero felice. Bemba fece tintinnare un gigantesco mazzo di chiavi. Arrivati al cancello cigolante mi allungò un foglietto di cui mi sembrò che tenesse una scorta nel taschino della camicia (non aveva freddo a girare vestito in quel modo?). Sorrise, e io ricambiai.
Mi disse di chiamarlo, se mi avesse fatto piacere, e io annuii senza capire, a malapena stavo ascoltando quello che mi diceva. Mi incamminai verso casa come in sogno, non ricordo la strada percorsa per arrivarci.
Fui bruscamente risvegliato solo dal rombo di una motocicletta che sfrecciò davanti al portone di casa, mentre faticosamente compivo il rituale dell’estrazione delle chiavi dalla tasca dell’impermeabile (gesto che a Parigi, se compiuto in strada, è del tutto inutile: i palazzi si aprono con codici alfanumerici che si devono digitare a memoria, le chiavi subentrano soltanto à l’etage: la forza dell’abitudine, oppure, appunto, un piccolo rituale del ritorno a casa, un sonaglio per scacciare gli spiriti cattivi che potrebbero averla occupata in nostra assenza).
A casa mi accorsi del foglietto, che intanto avevo completamente dimenticato. Per la prima volta lessi quello che c’era scritto sopra, stampato con quello che doveva essere un vecchio ciclostile. Diceva Professeur Bemba, poi sotto, più piccolo, aggiunto a mano, le magicien de Batignolles, il mago di Batignolles, voyant medium, grand maître de sciences occulte, e poi una serie infinita, o dovrei dire automatica, di corbellerie.
Mi lasciai andare a esclamazioni di divertito e grossolano stupore. Pensai subito di chiamare Margot per raccontarle della mia nuova conoscenza e dell’incontro inatteso con Breton. Pensai di andare a farmi leggere il futuro, la mano, o che so io. Ridevo. Cucinai un piatto di pasta, bevvi del vino. Che ci faceva Breton nel cimitero di Batignolles? Avrei dovuto indagare ma fui presto distolto da tutt’altro, già quella sera. Per quasi un anno smisi di chiedermelo, e mi dimenticai di tutta la storia.
3.
Una amnesia inconsueta, adesso devo riconoscerlo. Potrei dire che ho avuto da fare con un libro che non riuscivo a concludere, o che sono stato distolto da faccende personali. Ma sarebbe poi vero? Qualcosa mi ha fatto tornare in mente Breton: con la redazione del «manifesto» parliamo di un possibile omaggio in occasione del centenario della pubblicazione del Manifesto surrealista. Allora mi vengono alla memoria entrambe le cose: la storia che mi aveva raccontato Montano, e la bizzarra collocazione cimiteriale di Breton.
Mi ricordo che Montano mi ha scritto da poco per avvisarmi del fatto che sarebbe tornato a Parigi in autunno. Gli chiedo questa volta di portare con sé la cartina di Bolaño, o una riproduzione di essa. Intanto mi metto a cercare il foglietto del professeur Bemba, che dovevo aver conservato da qualche parte. E in effetti non mi è difficile farlo saltare fuori, sotto una pila di cartacce e vecchi giornali che giacciono in apparente disordine sopra un tavolino.
Quasi senza pensarci, chiamo. Mi parla una voce suadente, che non si presenta né mi chiede niente, come se si aspettasse una mia telefonata. Mi dice che ci sarà un rendez-vous al cimitero di Batignolles. È importante non parlare con nessuno di questa cosa, dice. Ha una voce allusiva. Suadente e allusiva. Uno scherzo. Allora sprofondo di nuovo in quella specie di trance, la stessa di quando uscii dal cimitero per tornare a casa.
Non racconto niente a nessuno. Non che prenda sul serio la cosa, ma è divertente assecondarla. E poi, io sono già a Parigi. Vado. Si gela, per strada non c’è nessuno. Dal lato della bottega dei marmisti c’è una figura immersa nel buio che mi fa un cenno. Passo di là, il cancello verde è chiuso. Dal rudere si accede al cimitero attraverso una breccia nel muro. Davanti a me c’è un gruppo di persone, parlano sottovoce.
Sono vestite con lunghi cappotti scuri. Mi avvicino, e noto che tutti portano delle maschere nere sul volto. Un incrocio tra un casco da schermidore e un manufatto veneziano, devo aver già visto qualcosa del genere ma non ricordo dove. È poco rassicurante.
Dalle movenze flessuose riconosco sotto la sua bardatura il professeur Bemba, che oltre alla maschera mi sembra indossi un vero e proprio passamontagna. Vengo accolto da un sottile mormorio, dal quale non si distinguono che poche confuse parole come nuages, tu ne pardonnes pas, vases… Taccio. Il corteo si dirige naturalmente verso la tomba.
Sento le gambe pesanti. Ho freddo. Vengono posate delle conchiglie sulla lapide. Ci rincantucciamo in un luogo del cimitero che non avevo visitato, in fondo, quasi sotto il cavalcavia dell’autostrada. Lì c’è soltanto una tomba, isolata, quasi sopraffatta da rigogliosa vegetazione che al buio si distingue a malapena da un drappeggio barocco. I passamontagna e le maschere mi fanno paura, ho paura. Mi giro e muovo verso l’uscita. Diciamo pure che scappo via. Nessuno si cura di me.
Di notte, sogno: quello che mi sembrava il professeur Bemba si dirige verso la lapide solitaria, e con mio sommo sgomento la abbatte in avanti come il sedile di un’automobile. Nella striscia di terreno adesso liberata dalla pietra si apre una fenditura di luce, una botola. Uno degli astanti emette un grido pauroso, stridulo, poi un guanto azzurro emerge dalla botola. Corro via con uno scatto repentino, nessuno mi segue. Poi mi sveglio.
Ci vogliono quattro o cinque giorni perché io esca nuovamente di casa. Montano mi ha scritto per dirmi che la sua visita a Parigi è rimandata, che non si sente abbastanza bene per affrontare il viaggio da Barcellona. La libreria dove avrebbe presentato il suo ultimo libro tradotto in Francia ha proposto una nuova data, in primavera, e lui ha accettato.
Acclude una foto alla letterina elettronica con la quale mi informa di questo (spesso acclude immagini alle sue letterine elettroniche: conservo ancora un memorabile fotogramma di Cary Grant con gli occhiali da sole lungo i binari del treno, in Intrigo internazionale). È la cartina di Bolaño, ripresa evidentemente dal suo cellulare (Montano, dall’alto dei suoi settanta sette anni, è esperto nell’uso del cellulare). La apro subito dopo aver letto il testo.
Quello che si disegna sullo schermo non mi raggela meno bruscamente della botola illuminata sotto l’erba, nel cimitero sognato. La ragnatela rossa tracciata sulla mappa individua un punto decentrato, a nord ovest di Parigi, che non esito con orrore a individuare nel quartiere di Batignolles.
Le surréalisme vous introduira dans la mort qui est une société secrète. (Breton)
“Se la città deve essere messa con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa assomiglia a un sogno”, così scrive Joseph Rykwert nella prefazione del suo libro più noto L’idea della città: antropologia della forma urbana nel mondo antico, tradotto in italiano nel 1976, da Einaudi (e ora ristampato da Adelphi), ma scritto negli anni Sessanta del Novecento e pubblicato negli Stati Uniti.
Senza i sogni, come ci raccontano i miti e le leggende, le città antiche non sarebbero sorte, e non avrebbero avuto ciascuna una propria specifica forma. Rykwert, nato in Polonia nel 1926 e morto ieri, ha studiato negli anni Quaranta in Gran Bretagna con i grandi ricercatori della prima generazione del Warburg Institute di Londra, in particolare con Rudolf Wittkower, per poi insegnare il resto della sua lunga vita anche negli Stati Uniti.
Dotato d’una capacità di scrittura saggistica che è racconto e fabulazione, lo studioso polacco ha messo in luce come le grandi innovazioni architettoniche e urbanistiche derivino dallo stretto rapporto tra questa disciplina, atta a costruire, e le espressioni religiose del mondo classico, quella greca e romana prima di tutto e, per quanto riguarda quest’ultima, le sue ascendenze etrusche che si compendiano in un “rito” assorbito e rielaborato dalla civiltà costruttiva di Roma, in cui la lettura dei movimenti celesti e delle pratiche religiose erano strettamente intrecciate con i principi giuridici: ordine divino e ordine umano.
Bellissime sono le pagine dedicate a mura, porte, templi, o agli spazi sociali come il foro: forme e simboli che organizzano lo spazio collettivo e quello privato. Senza mai cadere in nostalgie, Rykwert ci ha fatto capire come la morfologia del paesaggio urbano nasca in stretto rapporto con i miti che innervano le pulsioni più profonde delle antiche civiltà.
Capace di affrontare la lettura dell’architettura modernista, e al tempo stesso a suo agio con la filosofia di Hegel, come con il disegno di Piranesi o le idee di Leon Battista Alberti, con il pensiero antropologico come con quello sociologico, questo magnifico studioso, che parlava un italiano non solo corretto ma elaborato e colto, è stato un personaggio solitario nella cultura architettonica del Novecento, capace di dialogare con saperi e discipline di cui aveva appreso i primi rudimenti nella Polonia ebraica nell’ambito di quella scienza interpretativa che è il Talmud.
Dotato d’una forza immaginativa davvero unica, come mostra l’altro capolavoro della sua produzione, La casa di Adamo in Paradiso, tradotto da Adelphi nel 1972, si può dire che Rykwert sia stato un materialista religioso, in grado d’accostarsi alle immagini della sfera del sacro sapendovi leggere insieme le strutture più profonde.
Strutturalista senza strutturalismo, aveva una conoscenza profonda dell’architettura di ogni luogo e d’ogni epoca, da quella giapponese a quella australiana, superando le tradizionali divisioni accademiche. In quel libro scandagliava il mito della “prima casa” intesa come archetipo sempre presente e agente sia sul piano immaginativo che su quello simbolico.
Pochi forse sanno che proprio Rykwert è stato uno degli ispiratori delle Città invisibili di Italo Calvino, che non a caso fu tra coloro che vollero la traduzione einaudiana di L’idea di città.
Tra gli abbozzi e le note vergate dallo scrittore ligure nel corso dell’elaborazione del suo poema in prosa, che tanto ha ispirato il pensiero di architetti e urbanisti, il nome di Rykwert compare accanto all’elenco di temi e oggetti che gli interessavano.
Nel momento in cui si accingeva a scrivere il suo viaggio tra le città del passato e quelle del futuro, un’opera che ha ancora tanto da dirci riguardo al crogiolo di culture e immagini che sono oggi le città del mondo, Calvino pensava alla presenza degli dèi occulti e sconosciuti nelle nostre metropoli.
Ma se si vuole capire cosa sia stata l’architettura per l’umanità bisogna aprire un altro libro di Rykwert dal titolo invitante e insieme misterioso e ossimorico: La colonna danzante (Libri Scheiwiller), il cui emblematico sottotitolo non a caso è: Sull’ordine in architettura.
Un libro che stabilisce la corrispondenza tra gli edifici e il corpo umano, procedendo a una ricostruzione rigorosa e motivata delle successioni formali legate al tema architettonico della colonna, opera tradotta nel 2020 e ben presto scomparsa dagli scaffali delle librerie, che invece dovrebbe essere adottata da tutte le facoltà d’architettura del mondo.
In uno dei suoi ultimi lavori, La seduzione del luogo: storia e futuro della città (Einaudi 2008), lo studioso polacco ha fatto il punto in modo inequivocabile sulla perdita di quel valore religioso delle città, dove la questione centrale riguarda il legame che gli uomini e le donne stringono gli uni con gli altri, unione simbolica dissolta e trasformata oggi in un puro valore economico.
Nella prefazione al volume Rykwert spiega come l’architettura non possa essere guidata da ragioni solamente razionali o economiche, ma piuttosto da concetti, sentimenti e soprattutto da desideri. La città intrattiene un rapporto profondo con il conscio e l’inconscio degli esseri umani, e anche con quelli delle società, poiché esistono forme oniriche collettive che attraversano tutte le città.
Senza mai abbandonarsi a forme irrazionali, Rykwert ha dosato con cura i due poli della natura umana, quello della tendenza alla costruzione raziocinante, incarnata per forza di cose in architettura dalle tecniche costruttive, e quello del meraviglioso, che prescinde dagli interessi economici e politici che oggi invece vorrebbero dirigere dall’alto, mentre inevitabilmente emergono forze pullulanti e inafferrabili generate dal basso.
Nella parte del libro intitolata Interrogativi per il nuovo millennio, e nella nuova postfazione scritta per la edizione italiana, Rykwert sottolinea come il proliferare di grattacieli nelle maggiori capitali del mondo – il suo sguardo si appuntava in quel momento sulla città cinese di Shanghai, per lui la New York del nuovo millennio –, sia composto di edifici che aboliscono la forma tradizionale del grattacielo pensato e realizzato nel corso del XX secolo.
Ora all’inizio del XXI secolo queste costruzioni, che hanno racchiuso nel bene e nel male tutta l’energia e lo spirito d’iniziativa che alimentava il sogno americano, cancellano i grandi piani che un tempo contenevano spazi pubblici e commerciali, a vantaggio di forme che all’inizio degli anni Novanta sorgono bruscamente dal marciapiede e si stagliano contro il cielo – rampicanti “a punta di matita” li definisce – i cui ingressi sono sorvegliati da guardie armate.
La diagnosi di Rykwert, vecchio studioso per nulla incline all’estremismo politico, è che l’architettura non è più il frutto del sogno di un individuo, di un progettista o d’un architetto, ma il risultato di studi professionali guidati dagli interessi economici di chi ne ha finanziato la costruzione. Una mente collettiva e astratta che sembra prescindere dalla necessità di mediare tra le istanze degli individui singoli e quelle dell’intera società.
Salvo rare eccezioni, scrive lo studioso polacco, gli architetti non producono più grandi metafore del mondo e l’edificio oggi più riconoscibile non è né un palazzo governativo, né un parlamento o un ministero, oppure una chiesa, bensì un museo, come mostrano il Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry o il Museo ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, edifici che sembrano l’esposizione di sé stessi e non luoghi o spazi dove esporre opere d’arte.
L’impietosa e insieme ricca analisi di Rykwert evidenzia in modo acuto che esiste tra la forma della città e il problema della democrazia partecipativa, oggi così in crisi. Parla di Londra, città dove Rykwert ha deciso di stabilirsi da un certo punto in poi, e scrive: “la democrazia partecipativa sta passando di mano dagli elettori agli azionisti e utenti”.
Il mondo dei “custumers” ha soppiantato quello dei “cittadini” fossero quelli antichi della polis greca e della civitas romana o il mondo agglutinato di mattoni delle città medievali: senza sogni, senza dèi e senza leggi sacre condivise, le città implodono e divengono metropoli espanse senza forma, slabbrate e identiche le une alle altre, come narrano le pagine futuribili di Italo Calvino.
Il nostro è oggi un mondo uniforme, identico da un capo all’altro del globo, che non sogna più, che si divide e confligge, travolto da un elemento economico e commerciale che distrugge la forma stessa del nostro stare insieme in quell’agglomerato imprevedibile e organizzato che sono le nostre città.