I primi passi della comunità europea sulle ceneri delle tragedie globali (linkiesta.it)

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Mondo aperto

In “La grande incertezza” (Mondadori), Nathalie Tocci racconta l’importanza del percorso d’integrazione intrapreso dal nostro Continente a partire dal Secondo dopoguerra.

Un progetto che ha permesso di voltare pagina dopo decenni di violenze e catastrofi

La maggior parte dei cittadini italiani ed europei è nata e vissuta in un mondo aperto. L’Italia e l’Europa occidentale del dopoguerra voltarono le spalle a secoli di violenze, ingiustizie e atrocità. Si chiuse la tragica pagina della prima fase del secolo breve, «l’età della catastrofe», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, che vide due guerre mondiali, carestie, genocidi, la Grande Depressione, totalitarismi e rivoluzioni.

Avendo toccato il fondo, l’Europa si risollevò, dando vita al progetto di pace più longevo, innovativo e trasformativo mai sperimentato, per certi versi il più rivoluzionario nella storia delle relazioni internazionali. È facile dimenticarlo o darlo per scontato, ma siamo le prime generazioni di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno vissuto direttamente una guerra. La osserviamo, sempre più spesso, in televisione, alla radio e sui nostri cellulari. Ma non sappiamo realmente cosa sia.

L’integrazione europea nacque dalle ceneri di queste tragedie concatenate. Come scrisse saggiamente nelle sue memorie uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet: «L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni a queste crisi».

La previsione di Monnet si rivelò non solo acuta, ma anche sorprendentemente accurata, soprattutto negli ultimi decenni. Era innestata nel seme che diede vita alla Comunità economica europea: essere stata la soluzione che aveva permesso agli europei di voltare pagina dopo la seconda guerra mondiale, la più grande catastrofe che siamo stati capaci di infliggere a noi stessi.

Il progetto di integrazione fu certamente il frutto di idealismo, di valori e di progresso: consolidare la democrazia e rendere la guerra materialmente impossibile tra i paesi europei; un obiettivo fortemente voluto e avallato anche dagli Stati Uniti, che nel frattempo si erano legati a doppio filo all’Europa attraverso il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, il cui Trattato fondativo fu firmato nel 1949 a Washington.

Ma fu anche (e questa è la storia più scomoda, spesso ignorata dagli studiosi europei così come dalla politica di quegli anni) un modo per gestire la decolonizzazione dando vita a qualcosa di più grande dello Stato-nazione, che avrebbe permesso agli ex imperi europei di continuare a proiettare la loro «grandezza» al di là dei confini nazionali, o perlomeno a sperare di farlo.

Inizialmente si era tentata la via diretta. Lo stesso Monnet, all’epoca commissario generale per il piano di modernizzazione della Francia, propose nel 1950 una difesa europea al suo primo ministro, René Pleven, che a sua volta presentò quello che divenne noto come il Piano Pleven al Parlamento francese e successivamente alle democrazie dell’Europa occidentale. Il concetto di fondo ruotava attorno all’obiettivo strategico, anzi esistenziale, di assicurare che il riarmo tedesco venisse blindato in una cornice europea.

Il piano prevedeva, infatti, la creazione di un esercito comune di centomila uomini, costituito da battaglioni di sei paesi europei, inclusa la Germania occidentale, posti sotto il comando supremo della Nato. Integrando gli eserciti europei, questi non sarebbero stati più in grado di scendere in guerra gli uni contro gli altri. Il Piano Pleven diede vita al Trattato sulla Comunità

di difesa europea, che però, nonostante la ratifica degli altri Stati europei, si infranse sul rigetto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Il risultato fu paradossale, data la genesi francese dell’iniziativa, ma, a ben vedere, non lo era. La seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista erano finite da meno di un decennio.

Basti pensare al risentimento ancora a fior di pelle tra i paesi europei generato dalla crisi del debito sovrano per rendersi conto che la memoria e il terrore dei conflitti erano ancora troppo vivi, e la sovranità riconquistata troppo giovane per cederla proprio nell’ambito più strategico ed esistenziale di uno Stato: la difesa.

Tuttavia, i padri fondatori non demorsero, trovando una via indiretta per raggiungere lo stesso scopo. Mettendo a fattor comune le industrie del carbone e dell’acciaio, alla base dell’industria della difesa, i sei paesi fondatori diedero vita a un processo di integrazione, apparentemente «solo» economico, ma in realtà profondamente politico e strategico. Se gli Stati membri della nuova comunità avessero fuso le loro industrie dell’acciaio e del carbone, questo non avrebbe solamente generato un’interdipendenza economica fra loro, ma anche intrecciato indirettamente le rispettive industrie della difesa, alimentate da quelle stesse materie prime.

Come avevano previsto e auspicato i padri dell’Europa unita, tra cui Robert Schuman, Jean Monnet e Altiero Spinelli, all’emergere di ogni nuova sfida si rivelava una diversa sfaccettatura dell’insufficienza dello Stato-nazione a fornire risposte ottimali.

Conseguentemente, si poneva un ulteriore mattoncino della casa comune europea, aggiungendo e talvolta trasferendo competenze (nel senso sia giuridico sia professionale del termine) al livello sovranazionale europeo. Così nel corso dei decenni si è andata costruendo una Comunità e poi un’Unione europea (Ue), con le sue istituzioni, i suoi processi decisionali e democratici, e il suo mercato unico, in cui vennero sancite le quattro libertà di movimento dei beni, dei servizi, del capitale e delle persone.

Fiore all’occhiello dell’integrazione economica europea fu la moneta unica – l’euro –, introdotta formalmente nel 1999 dopo un decennio di preparativi, e utilizzata come contante tra un gruppo leggermente più ristretto di Stati membri – noto come Eurogruppo – dal 2002.

Negli anni dell’Europa aperta fu creata anche l’area Schengen, con l’abolizione delle frontiere interne tra gli Stati europei e la creazione di una frontiera esterna comune. Importante ricordare, però, che all’inizio l’apertura dei confini interni non fu accompagnata dal tentativo parallelo di chiudere la frontiera esterna, certamente non della sua securitizzazione avvenuta successivamente.

Negli anni Ottanta quando fu firmato il Trattato Schengen, e nei Novanta quando venne attuato e si ampliò l’area Schengen in concomitanza con l’allargamento Ue ai paesi scandinavi, vigeva infatti un equilibrio sostanzialmente precario ma apparentemente stabile ai nostri confini esterni.

Nell’Europa meridionale, fatta eccezione per l’Italia, che già iniziava a zoppicare dalla metà degli anni Novanta, le economie erano in forte miglioramento. Soprattutto la Spagna, ma anche le più piccole Grecia e Portogallo, voltata la pagina della dittatura e abbracciata la democrazia, vissero anni di crescita economica e quindi di capacità di assorbimento socio-politico dei flussi moderati di immigrazione dal Nord Africa.

Sull’altra sponda del Mediterraneo apparivano invece stabili le autocrazie, da Hosni Mubarak in Egitto a Muammar Gheddafi in Libia e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Era una stabilità solo apparente, che non faceva perno su una forte legittimazione interna, bensì sul controllo esercitato da quei dittatori sui propri cittadini e su una loro legittimazione esterna assicurata proprio dai rapporti cooperativi con i paesi europei. Il do ut des risiedeva in una cooperazione tra i regimi nordafricani e il Vecchio Continente, che colmava parzialmente la mancanza di legittimità interna dei primi.

Tratto da “La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale” (Mondadori), di Nathalie Tocci, pp. 192, 18.00 €

La parola della settimana. Sangue (napolimonitor.it)

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Sono passati quindici anni da quando ho scritto 
il primo articolo per Monitor, un’inchiesta sulle 
case popolari e l’impero di Alfredo Romeo per 
il mensile cartaceo che stampavamo all’epoca.

Incontrai un ex compagno di classe a via San Biagio dei Librai (era pomeriggio, brutto tempo, strada deserta come non sa essere più).

Mi invitò a mandare qualche pezzo a questo giornale con cui collaborava. Era “un giornale diverso”, c’erano reportage, approfondimenti, persino dei suoi racconti un po’ strambi. Non so nemmeno io perché – credo di averlo fatto al massimo tre-quattro volte in vita mia – ma avevo con me una copia di Repubblica. Mi disse che Il Venerdì (chissà se esiste ancora) aveva pubblicato un’inchiesta di due redattori di Monitor sulla strage di Castel Volturno, che i giornali avevano soprannominato “strage di San Gennaro”.

Conclusa l’inchiesta sulle vittime dell’eccidio, i cui colpevoli erano stati arrestati e poi condannati all’ergastolo per “strage aggravata dall’odio razziale”, continuai a frequentare Castel Volturno. A volte girovagavo da solo […] oppure andavo a trovare le donne che avevo conosciuto, a casa delle quali trascorrevo ore bevendo e chiacchierando con gli altri ospiti. Altre volte seguivo Peter nelle sue giornate piene di impegni. Di lui apprezzavo l’allegria, la leggerezza, la capacità di stare in quei luoghi pieni di contraddizioni dialogando con tutti, italiani e africani, mostrando di conoscere le regole non scritte che ne governavano le relazioni. Più avanti decisi di andare a vivere a Pescopagano, località al confine tra Castel Volturno e Mondragone nota per essere abitata prevalentemente e in modo stabile da ghanesi e nigeriani. (salvatore porcaro, sedici anni dopo. ritorno a castelvolturno nell’anniversario della strage)

Quando incontrai il mio amico scrivevo, buttando il sangue, per Cronache di Napoli. Ma avevo vent’anni, grandi piani, e in mente le tappe che avrei raggiunto con pervicacia: il giornale locale, il tesserino di giornalista, il giornale locale più importante, la scuola di giornalismo a Perugia o a Milano, il giornale nazionale, e così via. Tempo, incontri, letture ed esperienze mi hanno fatto capire che volevo fare le cose diversamente, o comunque il modo in cui non volevo farle.

Vinsi un concorso per la scuola di giornalismo di Milano ma non mi iscrissi, provocando un certo disappunto nei miei. Due o tre dei venti ragazzi che furono presi, oggi sono giornalisti famosi. In un pezzo che abbiamo pubblicato qualche anno fa si diceva qualcosa del tipo: “Avrei potuto prendere il posto dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho scelto di essere infelice a modo mio”.

L’installazione dei tutor è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano. Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una ragazza paziente e professionale che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila battute divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al rappresentante delle associazioni di consumatori, “magari ai casellanti”. (palanza&pazzaglia, è la stampa: munnezza)

L’uccisione degli africani a Castel Volturno mi colpì molto, anche se venivamo dagli anni della guerra tra famiglie a Scampia, che avevo seguito leggendo e ascoltando quanto di decente riuscivo a trovare: settanta morti in un anno e mezzo, alcuni dei quali colpevoli solo di essere parenti di, o addirittura vittime di uno scambio di persona.

Forse è che al sangue uno non ci fa l’abitudine, lo dicono pure alcuni medici, e per di più il litorale domizio rappresentava una parte significativa della mia vita (da lì a qualche anno, come i cerchi provocati da un sasso gettato in un – regio – lagno, le connessioni si sarebbero allargate all’hinterland industriale adiacente).

Fatto sta che, da quell’anno, più che al sangue che si scioglie nella chiesa di via Duomo, il 19 di settembre mi viene sempre da pensare a quella storia, cancellata dalla memoria collettiva come accade quasi sempre quando le tragedie riguardano i poveri e i disperati.

Qualche giorno fa mi sono messo a sistemare la libreria, perché mi sono accorto che alcuni volumi erano finiti in un settore sbagliato (cosa estremamente grave dal mio punto di vista). Mentre decidevo se i libri dello stesso autore devono andare in ordine di grandezza – dal più alto al più basso – o alfabetico, mi sono messo a pensare che Lennie, il gigante buono protagonista di Uomini e topi, uccide involontariamente, per colpa della sua forza, gli animali che vorrebbe accarezzare, ma lo fa senza spargere sangue.

Quando il suo amico George lo uccide, sul finire del libro, in quattro pagine che commuovono anche i lettori più cinici, lo fa invece con una pistola. Lo fa per evitargli il linciaggio della gente del posto che vorrebbe vendicarsi della morte di una donna, ancora una volta provocata da Lennie senza quasi accorgersene. Anche in quelle pagine finali, Steinbeck non utilizza mai la parola “sangue”.

“Dì ancora”, disse Lennie. “Come sarà un giorno. Avremo un pezzetto di terra…”.
“Avremo una mucca”, riprese George. “Forse avremo il maiale e le galline. E in fondo alla piana un pezzetto con l’erba medica”.
“Per i conigli!”, urlò Lennie.
“Per i conigli”, ripeté George.
“E io potrò accudirli”.
“Tu potrai accudirli”.
Lennie gongolò dalla felicità.
[…] Vennero schianti di passi dalla macchia. George si volse e fissò gli occhi da quella parte.
“Dì ancora, George. Quando l’avremo?”.
“L’avremo presto”.
“Io e te”.
“Tu e io. Tutti ti tratteranno bene. Non ci saranno più guai”. […]
Disse Lennie: “Credevo ce l’avessi con me, George”.
“No Lennie, non ce l’ho con te. Non ce l’ho mai avuta e non ce l’ho ora. Voglio che tu lo sappia”.
Le voci si accostavano sempre più. George sollevò la pistola.
(john steinbeck, uomini e topi)

Post scriptum. Alla fine martedì ci sono andato al concerto dei Co’Sang. Oltre al già detto fastidio di dover sborsare soldi per stare in una piazza, il fatto che uno spazio del genere non sia fatto per concerti a pagamento si è palesato in tutte le maniere possibili, dalla gestione delle file e degli ingressi, all’acustica imbarazzante. Nonostante il diluvio c’erano ventimila persone, è stato bello emozionarsi e vedere Antonio e Luca emozionati ripercorrere anni della loro vita che avevano dovuto cancellare in poche settimane, dodici anni fa.

Brillo come una dinamo
dribblo il colpo fatidico.
Questa pace ottenuta
col sangue alla Toni e Luca
va mantenuta.
Ma è Risiko,
anticipo i loro piani
Minimo, Loro Piana,
Lirico, Kurosawa.
(co’sang ft. marracash, carnicero)

(disegno di ottoeffe)

La voce della Storia di Elsa Morante (doppiozero.com)

di Elena Porciani

Una storia romanzesca

La Storia offre una peculiare variante della formazione di compromesso fra realistico e romanzesco che sostiene la narrativa maggiore di Morante.

In questa direzione, si deve in primo luogo registrare l’alta frequenza in chiave di paragone e similitudine di termini come “impresa”, “eroe”, “favola”, “fantastico”, oltre al consueto “avventura”. Sono tuttavia principalmente due le aree della Storia in cui agisce l’azione dell’immaginario romanzesco dell’autrice: l’elevato numero di sogni e visioni dei personaggi e il ricorso al cronotopo della strada.

Circa quaranta sono le sequenze oniriche vere e proprie, dettagliate o solo menzionate come i «tòppi sogni» di Useppe, alcune delle quali costituite da gruppi di sogni consecutivi, altre relative persino ad animali, come nel caso del «sogno d’amore» di Blitz.

Non meno cospicuo e variegato è il corpus dei sogni a occhi aperti, nelle varie declinazioni di «sogni bovaristici» come quelli di Nora, di ideali politici come la rivoluzione «sognata» da Giuseppe Ramundo, ma anche le follie distorte di «Mussolini e Hitler [che], a loro modo, erano dei sognatori», di allucinazioni come quelle di Davide sotto gli effetti della droga.

Nel romanzo, tuttavia, i sogni non esauriscono il loro ruolo nelle più svariate forme di contenitori psichici. Morante recupera la sua antica fascinazione romanzesca per l’onirico conferendole un nuovo spessore antropologico-trascendente, tale da creare una formazione di compromesso con la più immediata dimensione realistica del romanzo storico.

Siamo di fronte, detto altrimenti, a una nuova manifestazione dell’ipergenere romanzo della scrittrice, al cui interno i modi narrativi del realistico e del romanzesco sono posti in dialogo tra di loro in una maniera che è ancora diversa rispetto a Menzogna e sortilegio L’isola di Arturo. Di qui la circostanza che il personaggio che sogna più di tutti, anche se rari sono i sogni lieti, sia Ida. Ciò potrebbe sembrare a prima vista in contraddizione con il fatto che Ida appaia la figura più miserevole del romanzo, ma in realtà in tal modo si corrobora lo speciale rapporto che essa intrattiene con la sfera del sacro.

L’ipertrofica vita onirica di Ida, legata alle sue deboli difese cognitive ancora prima che culturali, rende il suo inconscio più esposto all’invasione della Storia, ma proprio per questo lo carica di una maggiore responsabilità narrativa, in grado di dischiudere il significato più profondo del romanzo. Lo sconfinato teatro onirico di Ida ha la capacità di rappresentare le sorti dell’intera umanità, una funzione che raggiunge il suo picco nei sogni che adombrano la tragedia della Shoah: «Altro non c’era che delle scarpe ammucchiate, malridotte e polverose, che parevano smesse da anni.

E lei, là sola, andava cercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima, quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di un verdetto definitivo».

Si tratta di un sogno che segue una delle sequenze nelle quali la funzione sacrale di Ida meglio si esplica, ossia la peregrinazione, come in trance, che essa compie il 1° giugno 1944 nel Ghetto ebraico ormai deserto dopo la deportazione di massa del 16 ottobre 1943 e gli ulteriori rastrellamenti dei nazifascisti nei mesi successivi.

Ida non formula pensieri compiuti e coerenti, ma sente dentro di sé tutta l’enormità dell’esperienza, nei termini di un’«allucinazione auditiva» che le fa percepire le voci della vita quotidiana degli abitanti scomparsi, in una versione tumultuosa e sconclusionata: «Senza sapere quel che diceva, né perché, Ida si trovò a mormorare da sola, col mento che le tremava come ai bambinelli sul punto di piangere: “Sono tutti morti”».

Siamo di fronte a un fenomeno di fantasticizzazione, ossia di una connotazione perturbante, evidente nel gioco reciproco di «esotico» e «familiare», dell’ambientazione realistica di fondo. Al contempo, il fatto che, resa semicosciente dalla fatica della lotta quotidiana per la sopravvivenza sua e di Useppe, Ida sia arrivata nel Ghetto durante le sue peregrinazioni per le strade di Roma, ci conduce all’altra principale strategia di riuso del romance nella Storia: la caratterizzazione della città non solo come scenario principale delle vicende raccontate, ma proprio come cronotopo urbano che consente di sviluppare l’intreccio grazie agli incontri casuali che avvengono per le sue strade.

Ed è qui che si tocca il cuore della dimensione romanzesca della città, come è evidente sin dall’incipit, in cui vediamo Gunther «girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma», dopo esservi capitato, nella sua solitudine, «senza nessuna scelta».

Dopodiché, «fece ancora qualche passo sui marciapiedi, poi svoltò a caso e al primo portone che trovò si fermò sulla soglia» e qui si imbatte in una «donnetta d’apparenza dimessa ma civile, che in quel punto rincasava, carica di borse e di sporte», che altri non è se Ida, dando avvio a quella successione di eventi – lo stupro, la gravidanza, la nascita di Useppe – che dà avvio all’intreccio della Storia.

La casualità dell’incontro, peraltro, contribuisce a rappresentare sin da subito anche gli effetti negativi delle Potenze e Poteri del «gran mondo» sulle piccole storie periferiche della quotidianità: i due personaggi che si incontrano, anziché solidarizzare in nome della comune inermità rispetto a eventi tanto più grandi di loro, interagiscono attraverso i ruoli di carnefice e vittima assegnati dall’indifferenza irriguardosa della Storia, che non esita, nella circostanza, a metterli l’uno contro l’altra.

La vicenda si sposta poi sul nucleo familiare dei Ramundo-Mancuso, che seguiamo nei vari alloggi di Ida e Useppe, all’interno dei quali l’avventuroso Nino, prima fascista, poi partigiano, poi contrabbandiere, compie sporadicamente le sue incursioni. Anche i traslochi, come quello in via Mastro Giorgio al Testaccio, derivano da una successione casuale di eventi: Erano giorni, evidentemente, che una fortuna la assisteva.

Alla Cassa Stipendi, dove si recò, secondo il solito, a ritirare il mensile, s’incontrò stavolta con una sua collega anziana. La quale, al vederla così spersa, le propose un trasloco pronto e conveniente». Si tratta di un incontro dichiaratamente fortunato: le circostanze si ricompongono in una trama in nome della solidarietà.

Lo stesso accade in occasione dei furti che permettono a Ida di sopravvivere nel momento più duro dell’occupazione tedesca: «Fu intorno al venti maggio, di mattina presto. Era appena uscita di casa […]. A quell’ora, in istrada passava solo qualche operaio. Sbucando da una via trasversale sul lungotevere, essa scorse un camioncino fermo, davanti a un deposito di alimentari».

Approfittando della distrazione dei guardiani, Ida riesce a rubare una lattina di carne in conserva, vista – ma non denunciata – dallo scaricatore e da «due tipi di pezzenti allupati, sbucati sul lungotevere in quell’istante medesimo».

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La funzione cronotopica della città si mantiene anche nei capitoli che seguono la liberazione di Roma, solo che il movimento nello spazio urbano è adesso affidato a Useppe e alla cagna Bella, ai quali, si legge, nella «primavera-estate del ’47», l’ultima da loro vissuta, «non mancarono incontri e avventure». Innanzitutto, nei loro «vagabondaggi» scoprono, grazie all’olfatto di Bella, il locus amoenus tiberino cui si è già accennato: «una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio».

È qui che Useppe, con una naïveté francescana da F.P., riconosce «la canzonetta» degli uccelli che cinguettano «È uno scherzo / uno scherzo / tutto uno scherzo!», e fa la conoscenza dell’evaso Scimò. Non dimentichiamo poi che, nelle loro varie peregrinazioni, Useppe e Bella si imbattono anche in personaggi che sembrano tornare fuori dal nulla, come lo stesso Davide Segre o Patrizia, una delle amanti di Nino, che presenta a Useppe quella che lui non sa essere la sua nipotina: «un altro incontro inaspettato. Evidentemente, questa era l’epoca degli incontri per loro».

Il seme dell’umanità

Il riuso del romanzesco nella Storia non è un mero accessorio finzionale, ma nutre dal suo interno il sincretismo dell’opera e il suo messaggio umanistico. Più specificamente, Morante incarica la figura di Davide, coscienza intellettuale del romanzo, di mostrare in che modo la dimensione romanzesca di Roma sia collegata alla visione della Storia che regge l’opera.

Un giorno, nel corso delle loro peregrinazioni, Useppe e Bella si recano a far visita a “Vvavide”, ma, anziché trovarlo nel suo terraneo presso ponte Sublicio, lo scovano in una vicina osteria mentre sta tenendo un discorso al quale gli avventori, impegnati ad ascoltare i risultati di calcio alla radio o a giocare a carte, prestano ben poca attenzione.

Per quanto reso loquace dalla droga, Davide riesce a svolgere un’argomentazione coerente, che riprende la “filosofia della Storia” di Morante. Storia, Potere e fascismo formano una catena destinata per sua natura a schiacciare i deboli e verso la quale l’unica rivoluzione possibile sarebbe, letteralmente, quella anarchica, che conduce al non-potere e al rispetto di tutte le creature, senza distinzione di «popolo o classi o individui» o razze.

In quest’ottica la Shoah appare quale uno degli ultimi e più orribili esempi di sopraffazione umana, come Davide ben sa: «si aggrottò, stringendo le mascelle; e all’improvviso, levandosi in piedi, gridò in aria di sfida: “Io sono ebreo!”».

Egli si sente in colpa per aver rivelato un fatto così personale, ma poco dopo trova il modo per legare la sua vicenda a una più ampia interpretazione della Storia: «“[…] il Potere! È lui, la pestilensia che stravolge il mondo nel delirio… Si nasce ebrei per caso, e negri e bianchi per caso…” […] “ma non si nasce creature umane per caso!” annunciò, con un sorrisetto ispirato, quasi di gratitudine».

È questo, in realtà, «l’esordio di una poesia, composta da lui stesso parecchi anni prima, sotto il titolo La coscienza totale», la cui parola chiave è evidentemente “caso”. Il «movimento multiplo e continuo della natura» si contrappone alla fissità del «sistema sociale di decrepitudine preistorica» della Storia, così come la Causalità aberrante di quest’ultima, dovuta alle trame delle Potenze e dei Poteri, si contrappone alla casualità festosa della «creatura umana».

La dignità degli esseri umani, cioè, è di per sé così significativa e dotata di senso – «non si nasce creature umane per caso!» – che può ignorare quelle circostanze che la Storia invece considera demarcanti: l’essere nato, appunto, ebreo o nero, anzi “negro”, o bianco… Si può allora supporre che tra l’insistenza sul caso da parte di Davide – e, con lui, dell’autrice – e il motivo romanzesco dell’incontro casuale ci sia una qualche corrispondenza, non solo tematica, ma anche strutturale.

L’opposizione tra la Storia, che trasforma il caso della nascita nella Causalità violenta del fascismo, e la «volontà universale» che weilianamente afferma, al di là delle contingenze della nascita, il valore della persona, sarebbe compresa anch’essa nella dicotomia del titolo La Storia. Romanzo: perché il piccolo mondo del romanzo può narrativamente redimere le aberrazioni del «gran mondo» della Storia.

Gli incontri che in continuazione avvengono nello spazio cittadino sono frutto indiretto della sofferenza determinata dalla Storia, che spinge i personaggi, se non vogliono soccombere, verso peripezie definibili come avventure della sopravvivenza.

D’altra parte, però, tali incontri sono anche il modo in cui la dignità delle persone si ricompone a dispetto della Storia: i personaggi, con il loro semplice entrare in reciproco contatto, finiscono per costruire trame molteplici rispetto al plot univoco imposto dai Poteri e dalle Potenze superiori, dando vita a un movimento polifonico di storie personali e collettive che è, per usare le parole di Davide Segre, anch’esso «multiplo e continuo», alternativo e caotico, ma non per questo immotivato o senza senso, rispetto alla mostruosa linearità della Storia.

Questo è tanto più evidente quando i personaggi simpatizzano tra di loro e si offrono solidarietà e aiuto, come si nota dalla stessa vicenda di Ida, che sopravvive nella Roma occupata grazie agli episodi di generosità di conoscenti e sconosciuti; tuttavia, a ben vedere, anche gli incontri da cui scaturiscono episodi violenti e tragici possono contribuire a intessere una progressione narrativa centrifuga rispetto al corso della Storia, primo fra tutti lo stupro di Gunther, “perdonato” dalla procreazione di Useppe.

A questo residuo di umanità sembra alludere la finale citazione gramsciana. La circostanza che «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno», che non si sa come evolverà, «ma probabilmente è un fiore e non un’erbaccia» non casualmente richiama, con ricorrenza autointertestuale, la definizione poetica degli F.P. nel Mondo salvato dai ragazzini: «accidenti fatali dei Moti Perpetui / semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal capriccio dei venti, / e germogliano in ogni terreno».

Ciò non significa che la plurivocità delle storie dei personaggi sia in grado di fermare la Storia, la cui violenza vince sempre, inesorabilmente, e infatti i protagonisti, a uno a uno, soccombono all’«infezione dell’irrealtà», come ancora si legge nella Nota introduttiva all’edizione del 1971 del Mondo.

Piuttosto, similmente all’utopia poetica delle Canzoni popolari, il romanzo offre una redenzione della Storia non più che squisitamente narrativa, affidata alle risorse dell’affabulazione romanzesca, ma in questo consiste del resto «la funzione dei poeti, […] oggi più che mai difficile (fino all’impossibile) eppure più che mai urgente e necessaria»: nello scrivere per «aprire la propria e l’altrui coscienza alla realtà» rispondendo a una «disperata domanda, anche inconscia, degli altri viventi».

(Estratto adattato da: Elena Porciani, Elsa Morante, la vita nella scrittura, Carocci editore, Roma, in uscita nelle librerie il 26 ottobre 2024).

Leggi anche: Graziella Bernabò | Elsa Morante: come leggere “La Storia”
Massimo Schilirò | “La Storia”: Morante narratrice senza anagrafe

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Speciale Alfabeto Morante

Non tirate Prezzolini per la giacca (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Citato o deplorato, non fu “nazionalista”. Impressioni a partire dalla citazione che ne ha fatto Meloni a New York, e dai commenti della storica Ponzani a “Otto e mezzo”

Un mio premuroso amico mi manda un link e mi raccomanda di guardare la puntata di martedì scorso di “Otto e mezzo”. Lui sa della mia insofferenza per la conversazione fra Travaglio e Gruber, simile a quella fra il cognato di un petroliere in vacanza in Engadina e la cameriera del piano.

Guarda, mi dice: lei stavolta ha perso la pazienza. Guardo, vedo il fastidio di lei, che fu a cavalcioni su un muro diroccato di Berlino e ospita da anni i comizi che farebbero invidia a Sahra Wagenknecht, vedo il dispetto viziato di lui – ci vuol altro, certo. Però è altro che mi colpisce della puntata.

Gruber interpella la storica Michela Ponzani sul Prezzolini citato da Meloni a New York – per una sentenza banalissima, chi vuole conservare non ha paura del futuro se ha imparato dal passato, contava più il nome che il concetto. Ponzani, sorprendentemente (ho letto di lei solo il libro sulla “Guerra alle donne”, 1940-45), deplora Prezzolini nazionalista e interventista e poi, nella foga, lo definisce “sanguinario”.

Travaglio ne approfitta per dire che Prezzolini “non ha mai ucciso nessuno”, che non so se sia vero – Prezzolini fu al fronte come ufficiale degli Arditi, poteva succedere – e comunque non c’entra niente. Il fatto è che Prezzolini non fu sanguinario ma nemmeno “nazionalista”. E quanto a Benedetto Croce, che secondo Ponzani avrebbe piuttosto dovuto essere citato da Meloni, Prezzolini ne era allora un filiale discepolo, e lui un paterno maestro, pur contrario al tasso di ubriacatura che ne aveva progressivamente segnato l’impegno interventista.

Prezzolini si distinse fino alla rottura sia dal nazionalismo dei Corradini Marinetti e simili (“il nazionalismo è una mutilazione dello spirito”), sia dall’esaltazione dei Papini e Soffici, e ancor più dal dannunzianesimo. Dichiarò un proprio “internazionalismo”, che metteva l’uomo prima dell’italiano, nemico delle motivazioni imperialiste, espansioniste e anche irredentiste.

Posizione che si tradusse nella assai impopolare perorazione per le autonomie dei popoli slavi, per la Dalmazia slava, e addirittura nella pubblicazione, assieme a un F. Skarlovnik, di un “Manualetto italo-sloveno ad uso di ufficiali, soldati, commercianti, funzionari e di ogni persona che voglia rapidamente imparare la lingua slovena” (Firenze, 1915), ristampato ancora nel 1923. Se quelle terre fossero state occupate dall’Italia, arrivò a dire, lui sarebbe accorso alla loro difesa. E ai triestini raccomandava di imparare lo sloveno.

A Ponzani interesserà che Prezzolini argomentò, nella sua idea (presto disillusa) di un popolo spiritualmente rigenerato dalla partecipazione alla guerra, il diritto al voto alle donne. La sua posizione fu più simile, anche nello strenuo antigiolittismo, a quelle di Salvemini e dello stesso Sturzo, e soprattutto, nel sentimento di una vocazione generazionale, a quella di Renato Serra.

Fra il novembre 1914 e l’aprile 1915 – quando decise di andare volontario, benché esonerato e fuori età – Prezzolini fu il corrispondente romano del “Popolo d’Italia” di Mussolini, il cui salto interventista fu apprezzato inizialmente dallo stesso Salvemini. (E poi c’era quel titolo di Gramsci, sulla “neutralità attiva e operante”).

Molti anni dopo, Prezzolini scrisse: “C’ero andato  / al Popolo /… per sostener l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale: una cosa di cui mi pento. Ma allora mi pareva d’obbedire a una missione”. Nel diario dell’esperienza militare, in caserma e al fronte, Emilio Gentile segnala perfino un’affinità col più giovane Gadda.

Non ho letto il povero Sangiuliano su Prezzolini. Ho letto a suo tempo, che non è mai scaduto, Mario Isnenghi, e poi Emilio Gentile, di cui almeno si può vedere la voce per il Dizionario biografico degli Italiani, e ascoltare l’efficace lezione all’Accademia delle Scienze torinese, 2015, in rete. Sempre in rete si può leggere il saggio recente (2022) di Maria De Paulis, “Giuseppe Prezzolini e ‘La Voce’: dall’idealismo militante all’interventismo antitedesco”.

Nel rimpianto per la sorte di Cesare Battisti, pesa il suo mancato giudizio sulla guerra come si era rivelata. Vorrei ricordare, degli appunti amari di Prezzolini (“il crollo finale alla resistenza morale del soldato, fu dato dalla riduzione del vitto”) il passaggio in cui denunciava l’errore “di inviare sul fronte, e pare sul settore dove i tedeschi poi attaccarono, gli operai di Torino, ai quali per fatti quivi avvenuti, era stato tolto l’esonero: agirono da propagandisti e divennero centri di panico”. Gli operai di Torino li aveva conosciuti bene, insieme a Gramsci e a Gobetti.

Nei cent’anni che è durata la vita di Prezzolini ciascuna e ciascuno può pescare le citazioni che servono alla sua propaganda. E’ certo che “l’interventismo” (lasciamo stare la sciocchezza sfuggita sul “sanguinario”) non è un’imputazione adeguata al bagaglio culturale di Giorgia Meloni, non più dei cinquant’anni di Michael Jackson.

Quella volta in cui ho acciuffato il mio primo (neo)nazista (linkiesta.it)

di

Goodbye, Hitler

In “Eravamo come fratelli”, Daniel Shulz ripercorre la trasformazione dei giovani nati nella Ddr e cresciuti durante gli anni Novanta, esplorando la metamorfosi degli ideali socialisti in odio e violenza.

Una riflessione potente sull’origine della xenofobia e dell’estremismo di destra nella Germania post-comunista

Ho acciuffato il mio primo nazista. Era solo un piccoletto, un Wessi non uno di quei giganti che girano da noi in Brandeburgo. E dire che in realtà volevo solamente andare a prendere dell’erba, per Marik, che fa il servizio civile con me, e dice che gli sbirri non mi controllano spesso quanto lui.

È soltanto uno sfaticato, ma a me piace andare in treno a Berlino, quindi fa lo stesso. Esco dalla stazione, attraverso un incrocio, giro a sinistra in una via tutta villette unifamiliari e con un cimitero.

Lì mi viene incontro una testa rasata, sul metro e settanta, a occhio non sono bravo a fare stime. Sopra il tizio sembra grosso, a causa della giacca pesante, nera e tutta di pelle sulle spalle. Sotto spuntano due gambette sottili come stecchi. Quando siamo alla stessa altezza, sento: «Checca».

Gli è scattato il sensore per gli hippie – i miei capelli lunghi, gli occhiali, la stoffa morbida della mia giacca inca. Sono due teste più alto di questo omino stecco. Nello stomaco mi si accumula una sensazione di calore che risale l’esofago fino in testa.

Per un secondo il cervello mi sbalza in un mondo parallelo, quando faccio ritorno cammino come un robot, passi rigidi, sconnessi. Mi giro e corro dietro al tizio. Al semaforo successivo lo acchiappo, per il braccio destro, lo afferro e con uno strattone lo faccio voltare verso di me.

«Ehi!». I suoi occhi sono verde scuro. Vorrei che anche i miei fossero così.
«Ciao». Spero di dirlo in tono molto tranquillo, come in un film. Forse perfino sorrido.
«Che vuoi?». Cerca di liberarsi, alza la voce, urla che sono uno stronzo finocchio.

Io continuo a tenerlo fermo. Poi all’improvviso grida aiuto. Sono così sorpreso che lo lascio andare, insomma, non avevo mai sentito prima un nazista gridare aiuto, neanche quella volta durante la rissa al parcheggio, quando a Torsten hanno spappolato la testa come un pomodoro.

Un secondo, due secondi, tre. La testa rasata potrebbe correre via con le sue gambe sottili, ma è stato colto troppo alla sprovvista. Lo afferro di nuovo, sul davanti della giacca, con entrambe le mani.

«Forza, ariano!». Lo scuoto come farebbe un naufrago con una palma. «Una barzelletta sugli ebrei, raccontami una barzelletta sugli ebrei».

Mi guarda con gli occhi verdi sbarrati. Un cervo nel cono di luce dei fari di un’auto.
Conto: «Tre, due…».
Una mano si avvinghia al mio braccio destro. «Ehi, ma che sta facendo?».

Un tizio giovane, capelli arruffati, indossa un cappuccio variopinto che sembra fatto a mano all’uncinetto. «Lasci andare quell’uomo, per favore» dice il tizio, e io lo lascio andare.

Lo lascio andare e pianto il palmo della mano sinistra sul naso dell’Uomo Uncinetto, o almeno questo è il piano, ma lui si scansa, abbassandosi con una mossa stranissima, e io lo colpisco in mezzo alla fronte. Lui cade di culo all’indietro.

«Ahia, ma sei scemo?». Lo dice a bassa voce, e con una faccia confusa come se si svegliasse in questo istante nel suo letto, chiedendosi se sta ancora sognando. Penso a cosa dire, deve andare a farsi fottere, è questo che voglio dirgli, quando dietro di me si sentono dei passi pesanti. Bum. Bum. Bum. Il mio nazista sta tagliando la corda.

Quando entrambi attraversiamo di corsa col rosso, per poco non vengo investito da un pick-up, un coso grosso con le gomme gigantesche, quasi un monster truck. Il tizio al volante si sbraccia, io grido: «Scusa!», e continuo a correre.

Di nuovo dentro la stazione, su per le scale che portano ai binari. Lì ci sono due treni. Sceglie quello a sinistra, il penultimo vagone. Io faccio uno scatto dietro di lui e mi infilo appena in tempo nelle porte che si stanno chiudendo.

Lui mi vede e sgrana gli occhi, forse finora uno zelo tale l’aveva visto solo nei suoi simili. Corre in fondo alla vettura, lì è finita, e il treno parte. Qualcuno grida qualcosa, di smetterla, una voce di donna alle mie spalle, ma io ho occhi soltanto per la mia testa rasata. Alza le braccia saltellando come un pugile, io gli assesto un pugno alle reni, o comunque lì da quelle parti. Lui urla e si contorce.

Poi la cosa si fa davvero strana. Il nazista non cerca più di colpire, mi afferra i capelli con la mano sinistra e si lascia cadere trascinando giù con sé anche la mia testa. L’altra mano mi strizza le palle, o almeno ci prova, ma io sto in piedi a gambe larghe, e i jeans formano un triangolo protettivo tra le mie cosce, duro come un’armatura.

Lo prendo a calci nei fianchi, nella schiena, nello stomaco, ma a quello non riesco veramente ad arrivarci. In faccia non voglio colpire, denti, occhi, è troppo rischioso per me.

Non picchiare come una marionetta, così mi ha detto Sandro una volta, allarghi troppo il braccio per caricare, sferra colpi brevi e forti. Probabilmente sto sbagliando di nuovo.

Il nazista urla, continua a urlare la stessa cosa: «Che vuoi? Che vuoi?». A un certo punto scoppia a piangere.

I miei capelli però non li molla, e anche se non può pesare molto, sento come se mi strappasse via il cuoio capelluto. Do uno strattone all’indietro col busto. La testa mi brucia, e nella sua mano vedo lunghi capelli biondi.

Quando sbatto la fronte contro la sua, schiocca come una noce, rimbombandomi in testa. Lui finisce barcollando sulla parete del vagone, le sue mani non trovano un appiglio, scivola giù. Smetti quando uno è a terra, questo non me l’ha detto Sandro, ma mio padre. Sferro ancora due calci.

Gli sbirri arrivano due stazioni più avanti. Il commissario capo strepitando mi ordina di togliere le mani dalle tasche, molto lentamente. Chiede se ho un coltello.

Mi caricano sul loro furgone e mi spediscono a Potsdam, alla polizia ferroviaria. Il nazista non viene. In un ufficio un tizio batte su una vera macchina da scrivere la mia deposizione. In realtà non posso dire un bel niente, devo tenere la bocca chiusa. Gli racconto tutto.

Qualche settimana più tardi sono seduto nello studio di un’avvocata vicino al Ku’damm, il mio nazista mi ha denunciato. Naturalmente ho un’assicurazione che copre le spese giudiziarie, in fondo mio padre ci lavora, nelle assicurazioni.

L’avvocata mi guarda come una gatta che ha appena mangiato, ma nel tunnel dietro le sue pupille la fame è in agguato. «La deposizione che ha reso a Potsdam era subottimale» dice. «In tribunale ce la caveremo». In fin dei conti mi sono difeso da un estremista di destra, perciò sono un eroe.

Lo sguardo da gatta pasciuta si smorza quando le dico che non voglio andare in tribunale, ho troppo da fare, non ho tempo, mi dispiace. Non le dico che ho paura che la giudice mi possa chiedere perché ho menato quel tizio.

Se apro bocca una volta, potrei non smetterla più di parlare. Le racconterei tutto: di come Volker mi ha salvato dai due tizi con le tette alla Rambo. Dell’aggressione al parcheggio, quando sono corso via, e della sera in cui hanno preso Mariam e io per la paura non ho neanche pensato di mollare un pugno al piccolo Nowak.

Alla fine, e riesco a vedermi la scena in tutti i dettagli, mi inginocchierei davanti alla giudice chiedendole perdono come a un prete cattolico.

Mi costerà quattrocento bigliettoni, così dice l’avvocata, se non voglio chiarire la faccenda con il nazista in tribunale. Quattrocento bigliettoni per non dover parlare di tutta la merda successa prima, di che razza di codardo sono stato. Quattrocento bigliettoni per poter continuare a tenere la bocca chiusa. È uno scambio equo, direi.

Da “Eravamo come fratelli” di Daniel Schulz, Bottega errante edizioni, 296 pagine, 20 euro