L’errore di Aristotele (doppiozero.com)

di Melania Villa

Libri

Siamo in una classe di seconda di una scuola secondaria di primo grado in occasione di un laboratorio dedicato all’affettività. Ragazzi e ragazze di dodici anni si interrogano sul funzionamento e sul fallimento delle relazioni, sul loro valore, sul modo in cui i social intervengono nei rapporti fra sé e gli altri e fra la propria immagine e il proprio essere. Procedendo passo passo il gruppo arriva a elaborare una domanda: cosa rende un uomo (inteso come essere umano di sesso maschile) tale?

Vi riporto due risposte (il corsivo è mio):

“Spesso i maschi sono obbligati a essere forti e ignoranti perché se no vengono classificati come femminili e secchioni. Devono sempre giocare a uno sport chiamato dalla popolazione “maschile” (per esempio calcio basket e se invece fanno danza vengono impregnati col cartellino “femminile”). Secondo me i maschi non fanno mai quello che vogliono loro ma quello che vuole l’altra gente. La femmina, invece, secondo me è meno giudicata dalla gente, può essere in molti modi. Ma ovviamente le ragazze hanno altri problemi come l’essere giudicate delle poco di buono per aver messo un vestito attillato”

“Secondo me l’uomo è una persona che è in una specie di gabbia e l’unica chiave è il coraggio. Io, che sono un ragazzo emotivo, sono contrario a chi dice che un ragazzo non può emozionarsi”

Questi due brevi scritti risultano, ai miei occhi, degni di nota poiché fanno emergere il rovesciamento di una logica discorsiva: si parte da ciò che si considera essere il maschile – nella fattispecie, la necessità sociale e individuale di una certa adesività all’immagine – per rovesciarlo e far affiorare la dimensione del coraggio. Il coraggio diventa così l’antonimo del maschile. Mi viene in mente Lo squalificato, di Osamu Dazai: “Avevo inventato un altro giuoco, di tipo analogo consistente nell’indovinare gli antonimi. L’antonimo di nero è bianco. Ma l’antonimo di bianco è rosso. L’antonimo di rosso è nero. E adesso domandai: qual è l’antonimo di fiore? […] continuai: Delitto. Qual è l’antonimo di delitto? Qui ti ci voglio”.

Si potrebbe dunque considerare il coraggio come l’antonimo, il rovescio del maschile invece che un suo tratto identificativo?

Nell’antica Grecia, scrive Ryan Balot, storico del pensiero politico, il coraggio è “la migliore approssimazione dell’ideale greco di andreia, ossia la virilità e il maschilismo”. Andreia, continua lo storico, deriva da aner ovvero uomo – da intendersi come essere umano di sesso maschile in opposizione alla donna. Tale concetto gioca un ruolo decisivo nel delineare il profilo del cittadino della polis ed è su tale ideale che si costruisce l’inclusione di un individuo all’interno della comunità governante.

Nel suo lavoro, L’errore di Aristotele (Carocci editore, 2023, p. 376), l’autrice Giulia Sissa sottolinea a più riprese lo strettissimo legame che intercorre fra governo democratico e andreia. Se infatti al centro del pensiero politico ateniese risiedono la necessità di difesa del territorio e il desiderio di espansione della polis, la guerra, gli armamenti e la capacità di combattere diventano forzatamente le priorità del governo.

Aristotele, nelle sue dissertazioni, tratteggia così le virtù di cui deve far mostra il cittadino ateniese affinché possa essere considerato degno di partecipazione alla vita del governo della città. Il tratto che viene in tal modo isolato è quello del thumos, l’ardore dato dal calore del sangue; tratto che appartiene ai corpi maschili, ardimentosi e impetuosi, capaci di lanciarsi in imprese pericolose, di prendere decisioni rischiose e scegliere la direzione da percorrere.

Tale componente costituisce l’essenza dell’andreia, della virilità, e l’essenza del cittadino della polis. È un tratto che caratterizza esclusivamente i corpi maschili; ne consegue che le donne, non essendone dotate per natura, non possono possedere le capacità che ne derivano e dunque la facoltà di deliberare e di prendere una decisione.

Questa concezione della donna – ed è questo il punto centrale della ricerca di Sissa – è alla base della costitituzione della demokratia; costituzione che, senza remore, esclude le donne dalla gestione del potere pubblico. Questo allora il tripode su cui poggiare il nostro ragionamento: i modi di potere, la collettività e le donne.

Scrive Sissa nell’introduzione del suo lavoro: “Ad Atene si assiste al primo incontro mancato fra il popolo e le donne”. Si tratta, infatti, di una cultura politica che si basa su un concetto di uguaglianza legata a “un’identità qualitativa soggiacente, che sia corporea, morale o sociale” che riduce l’uguaglianza “all’omogeneità di un gruppo chiuso”.

Aggiungerei: si tratta di qualità supposte non reali. Il reale che era ed è in gioco, infatti, è quello del sesso. Reale che si può tradurre, ad esempio, nel fatto che, nel nostro Paese, le donne – esseri umani di sesso femminile – acquisiscono il diritto di voto nel 1946. Sono dunque passati dei secoli affinché vi potesse essere il riconoscimento di un soggetto di diritto nel corpo di una donna. Tuttavia non è certo il passare del tempo che rende conto del risultato ottenuto, quanto piuttosto le battaglie combattute dalle donne culminate nella partecipazione alla Resistenza italiana.

Nei documentari dedicati alla Resistenza delle donne – si pensi al documentario di Liliana Cavani Le donne nella Resistenza, o il più recente, Non c’è stato regalato niente del regista Eric Esser – emerge con chiarezza l’eccezionalità che tale presenza riveste: così come nell’Antica Grecia, anche nell’epoca moderna solitamente non sono le donne a combattere la guerra. Così non accade, però, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ascoltando con attenzione le parole delle donne intervistate, si coglie come tale passaggio sia un esito delle lotte sociali portate avanti negli anni antecedenti alla guerra.

Il punto di svolta è l’entrata nel mondo del lavoro, lì qualcosa cambia. Al fianco, infatti, della figura della madre o della donna d’eccezione, compaiono le lavoratrici, le operaie. Accade qualcosa che fino a quel momento non era mai avvenuto, le donne trovano un punto di identificazione comune nel significante “essere una lavoratrice”.

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Questa identificazione sembra essere ciò che consente di costruire una classe. Classe da intendersi qui in senso matematico ovvero un insieme di oggetti che possono essere individuati in maniera univoca per il tramite di un tratto comune. L’appartenenza a un gruppo diventa allora la possibilità di essere riconosciute – forse da loro stesse in primis – come soggetti pubblici aventi diritto.

Le donne diventano cioè una forza collettiva; è questo uno dei fattori che permette la partecipazione alla lotta per la liberazione. Resta una domanda: è la dimensione collettiva, quella che destituisce – almeno in parte – la manifestazione dell’andreia, dell’atto di eroismo individuale a favore del pubblico, del bene comune e condiviso al netto di dolorose perdite individuali, a permettere un cambiamento epocale quale il passaggio dalla monarchia alla repubblica e al suffragio universale?

Un nome collettivo, ci insegna la grammatica, è quel sostantivo che al singolare indica una molteplicità; potremmo dire che il collettivo, accettando di perdere l’individuo, ritrova la singolarità nella forma del molteplice.

Nelle ultime pagine del libro, Sissa utilizza un’espressione interessante: il fantasma del consenso. La riprendo, utilizzandola in maniera differente da quanto fatto dall’autrice nel testo, e usando dunque il consenso come antonimo del collettivo. Il consenso è un fantasma politico che abita le istituzioni democratiche ed è tenuto in grande conto come parametro decisionale del gruppo. Questo vale in numerosi ambiti, faccio riferimento a quello che frequento maggiormente, ovvero il mondo del disagio psichico.

Se, ad esempio, si sfoglia il documento ufficiale alla base della revisione del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) troviamo che uno dei criteri decisionali per decretare l’esistenza di un disturbo psichico è proprio il consenso fra gli esperti del campo. Vediamo bene dunque come utilizzandolo come fattore decisionale, il consenso si trasforma da elemento politico-sociale in criterio oggettivo di inclusione o esclusione a opera di coloro che detengono il potere di scelta. È la stessa operazione che ritroviamo nel processo di esclusione delle donne dal diritto di voto nella nascente demokratia.

C’è, inoltre, una seconda dimensione del consenso di cui tenere conto in questa dissertazione. Il ragionamento aristotelico per cui la capacità di governarsi risponde alla capacità di comandare se stessi poggia su un’asserzione: la coincidenza del soggetto con se stesso, la sua propria coerenza, l’adesività alla propria immagine. Sono tutti assunti che, in modo puntuale e non collettivo, vengono messi in discussione fin dall’antica Grecia. Come? Per il tramite della finzione, ovvero attraverso il teatro.

Sissa, nel suo libro, ci mostra alcuni dei personaggi femminili più importanti nella storia della tragedia greca (Giocasta, Antigone, Etra…). Qui non si tratta tanto della grandiosità di tali figure, quanto piuttosto del valore dell’atto della finzione in sé, atto che raccoglie e trasmette l’inascoltato di un’epoca e rende manifesta la natura equivoca di ogni esistenza.

Proprio dai Greci ereditiamo la figura dell’oracolo e, con essa, la dimensione della divinazione: un’altra forma di sapere che gioca sul fraintendimento, sull’equivoco, sul dire fra le righe. Dimensioni del dire che frequentemente vengono attribuite a una forma di sapere qualificata come femminile. È una forma di sapere che non coincide con se stessa ma che, al contrario, attraverso l’equivoco, apre al molteplice.

Di questa dimensione del sapere, conosciuta dai poeti e dalle poetesse fin dall’antichità, si cerca di fare a meno quando si persegue la strada del consenso, della coincidenza con se stessi. È Freud colui che, per primo, tenta di dare una forma trasmissibile a questo tipo di sapere affermando a chiare lettere che ciò che rivela la scoperta dell’inconscio è che l’io non è più padrone a casa sua. C’è qualcosa che sfugge al soggetto, sfugge alla coscienza e alla conoscenza saputa e ripetibile, manifestandosi per il tramite dell’inconscio; c’è qualcosa, insomma, di ingovernabile.

Ingovernabile non è sinonimo di irrazionale, qualifica di cui venivano tacciate le donne da Aristotele. Ingovernabile è ciò che sfugge al controllo della coscienza, del sapere costituito, che non rientra in ciò che è già dato. Ingovernabile non coincide neppure con inconoscibile seppur sia vero che per conoscere l’ingovernabile bisogna trovare il modo di allentare quel controllo che la coscienza esercita – o cerca di esercitare – sul soggetto.

Sappiamo che la psicoanalisi nasce proprio da un dissenso che i corpi delle isteriche portano di fronte al sapere costituito della medicina: qualcosa non va ma non può essere spiegato attraverso il sapere medico. È un atto di insubordinazione del corpo che rivela l’impossibilità di un sapere tutto pieno, di un sapere completo, totale. Avere dunque a che fare con l’ingovernabile che risiede al cuore di ogni sapere, di ogni conoscenza, potrebbe voler dire fare i conti con la possibilità di esercitare un’impotenza. Un paradosso, dunque, che gioca fra potere e possibile, e fra impotenza e impossibile. Quale sapere possibile da questa impossibilità?

La cura e l’attenzione rivolta al collettivo diventano allora uno dei modi possibili per mantenere vivo lo iato fra il sapere costituito – la conoscenza dei predecessori, gli studi, il linguaggio – e il sapere non-saputo – l’invenzione, l’inconoscibile, il disturbante. Questo delicato andirivieni fra universale e singolare è la posta in gioco di una democrazia. Le condizioni di nascita di questa forma di governo ci obbligano a prestare attenzione al rischio che il consenso operi in termini di esclusione del femminile – inteso come forma di dissenso interna al legame. È il nome che potremmo dare a ciò che in ogni soggetto, indipendentemente dal sesso biologico, chiama a una certa libertà di movimento, a un poter essere anche altro da ciò che si è o che si è chiamati a essere.

Tornando infine alle parole del ragazzo di seconda media riportate in apertura, si può forse dire che il coraggio indica oggi una qualità propria del femminile laddove esso sia indicativo di un certo saperci fare con l’alterità che abita ognuno di noi.

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La profezia di Milan Kundera e l’Occidente prigioniero dell’insostenibile egoismo russo (linkiesta.it)

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Tra Roma e Bisanzio

Un saggio di quarant’anni fa dello scrittore ceco, scomparso l’11 luglio a 94 anni, conteneva già tutte le chiavi per capire l’attuale guerra in Ucraina, spiega Paul Berman. E fa venir voglia di rileggere un testo del 1919 di Paul Valéry sul significato della civiltà europea

L’editore americano HarperCollins ha avuto l’ottima idea di riproporre nel volume intitolato A Kidnapped West. The Tragedy of Central Europe, la traduzione inglese dell’omonimo saggio scritto quarant’anni fa da Milan Kundera (morto a Parigi l’11 luglio 2023. Lo stesso saggio è pubblicato in italiano da Adelphi, nella traduzione di Giorgio Pinotti, all’interno della miniraccolta kunderiana intitolata Un Occidente prigioniero).

Questo testo si rivela essere la chiave perfetta per comprendere il significato dell’attuale conflitto russo-ucraino. O, quantomeno, a me pare che lo sia. Kundera, che a quel punto della sua vita aveva abbandonato casa sua, nella Cecoslovacchia comunista, per cercare un’esistenza migliore in Francia, aveva intitolato quel suo saggio Un Occident kidnappé ou la tragédie de l’Europe centrale e l’aveva pubblicato sulla raffinata rivista parigina Le Débat, ora purtroppo defunta.

Quel saggio divenne famoso. Ne uscirono della traduzioni sulla New York Review of Books e su altri periodici di quello stesso tipo in giro per il mondo. Poi, dopo le rivoluzioni del 1989, quando la Guerra fredda stava diventando un ricordo sempre più sbiadito del passato, si sbiadì allo stesso modo anche il ricordo di quel celebre saggio. E fu un peccato.

Kundera, in quel lontano 1983, voleva convincere i suoi lettori ad accantonare il pensiero politico convenzionale, che descriveva la Guerra fredda come un gigantesco conflitto fra due sistemi imperiali o “blocchi” – l’Europa occidentale contro l’Europa orientale – oppure come un conflitto fra principi politici – la democrazia liberale contro il comunismo. Questa visione presupponeva una divisione antropologica di fondo tra l’Occidente e l’Est e riteneva che il blocco sovietico fosse pervaso da un’“anima slava” che difficilmente avrebbe potuto essere compresa dai più razionali cittadini occidentali. Ma Kundera rifiutava tutte queste analisi.

Nella sua interpretazione, il confine che durante la Guerra fredda separava i due blocchi era semplicemente un accidente della guerra, una linea tracciata artificialmente e superficialmente attraverso il Vecchio continente alla conclusione della Seconda guerra mondiale nel punto in cui erano arrivati l’esercito degli Alleati e quello dei sovietici alla fine della loro avanzata, l’uno da Ovest e l’altro da Est, contro i tedeschi.

Ma, più in profondità, l’Europa era attraversata da un’altra divisione, questa sì antica e autentica. Si trattava, in questo caso, di un’eredità del tardo Impero romano e della fatidica separazione tra le due capitali, Bisanzio e Roma. In conseguenza di questa divisione, in una delle parti dell’Impero sorse la Chiesa ortodossa orientale, con le sue tradizioni culturali che si mescolarono poi con quelle dell’Impero russo e con l’insaziabile desiderio di quest’ultimo di inghiottire le nazioni vicine.

Nell’altra parte dell’Impero romano, invece, quell’antica divisione generò la Chiesa cattolica e le tradizioni a essa legate, che diedero poi vita al Rinascimento, allo spirito della civiltà occidentale e all’età moderna – «l’epoca fondata sull’ego che pensa e dubita, e caratterizzata da una produzione culturale che di tale ego unico e inimitabile era l’espressione» – nelle parole di Kundera. E l’“anima slava” con tutto ciò non ha niente a che fare.

Durante la Guerra fredda, secondo l’analisi di Kundera, non c’erano due Europe, ma tre. L’Europa dell’Est era la Russia. Le piccole nazioni a Ovest della Russia costituivano l’Europa centrale e non si identificavano con la tradizione russa. Si identificavano invece con la civiltà occidentale e con le sue aspirazioni universali, anche se erano rimaste intrappolate dietro le linee sovietiche. Queste piccole nazioni, però, avevano dei tratti propri che le distinguevano dall’Europa occidentale.

L’Europa occidentale aveva, a suo modo, una pulsione verso il dominio, dettata dalla convinzione che a fare da garante del suo potere e del suo successo ci fosse la Storia con la “s” maiuscola. Le nazioni dell’Europa centrale, invece, nutrivano una sensazione di fragilità – la fragilità delle loro lingue e delle loro culture, talvolta sull’orlo dell’estinzione. Questo generava un “tono” ironico, beffardo, stravagante, come si può vedere nei loro principali scrittori, che, secondo Kundera, erano Hermann Broch, Robert Musil, Jaroslav Hašek e Franz Kafka (ma doveva avere in mente anche se stesso).

La vera storia della Guerra fredda, secondo il punto di vista di Kundera, non era, in sostanza, la storia della Nato e della sua contrapposizione con il blocco sovietico. Era, invece, la storia di quelle nazioni fragili e della loro lotta per preservare le proprie lingue e le proprie culture: si trattava di una storia di sollevazioni e di ribellioni contro i sovietici – in Ungheria e in Polonia nel 1956, in Polonia e in Cecoslovacchia nel 1968, poi di nuovo in Polonia e poi così via negli anni a seguire. Erano sollevazioni e ribellioni per difendere la propria identità culturale e finirono per essere, come divenne poi chiaro, la rampa di lancio che consentì alla rivoluzione che avvenne in quella regione nel 1989 di ascendere fino al trionfo.

A Kundera sembrava poi che gli ebrei dell’Europa centrale fossero un’altra di quelle nazioni – «la piccola nazione per eccellenza» – e che avessero giocato un ruolo particolare nel creare l’«unità spirituale» dell’intera Europa centrale. E anche il sionismo gli sembrava essere l’espressione della decisione di esistere da parte di un’altra piccola nazione.

E gli ucraini? Nel 1983 Kundera dedicò loro solo una singola, scandalizzata nota a piè di pagina [che compare nell’edizione americana, derivata dalla traduzione apparsa a suo tempo sulla New York Review of Books, ma non in quella italiana – N.d.T]: «Una delle più grandi nazioni europee (gli ucraini sono quasi quaranta milioni) sta lentamente scomparendo. E questa cosa, enorme e quasi incredibile, sta avvenendo senza che il mondo se ne avveda». Ma quella nota a piè di pagina fu profetica.

Nessuno che legga oggi il saggio di Kundera potrà non accorgersi del fatto che l’Ucraina ha dato prova di essere a sua volta un’altra delle nazioni ribelli dell’Europa centrale. Certo, l’identità ucraina attinge al Cristianesimo ortodosso e non al Cattolicesimo. Kundera ha forse un po’ sottovalutato le risorse dell’Ortodossia. Ma il modo di fare impetuoso del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che come tutti sanno è ebreo, si adatta perfettamente alla descrizione da parte di Kundera della resistenza dell’Europa centrale nel suo complesso e del ruolo giocato dagli ebrei in quel contesto.

Per poter pubblicare questo saggio di Kundera, che è molto breve, in un volume autonomo, HarperCollins [così come hanno fatto Gallimard in Francia e Adelphi in Italia – N.d.T.] ha scelto di proporlo in combinato con un altro suo scritto del 1967, La letteratura e le piccole nazioni, e con due introduzioni ben informate scritte dallo storico Pierre Nora, che fu tra i fondatori della rivista Le Débat, e dall’intellettuale franco-ceco Jacques Rupnik. Ma questo è un libro che chiede a gran voce di essere letto alla luce della guerra in Ucraina.

Se fosse mai possibile fare un’altra edizione di questo testo di Kundera, spero che venga invece accoppiato con un saggio del 1919 di Paul Valéry, La crisi dello spirito, sulla necessità, per gli europei, di riflettere sul significato della loro civiltà e sulle sue antiche radici [una traduzione italiana di questo testo di Valéry si trova nel volume intitolato In morte di una civiltà. Saggi quasi politici, una raccolta di scritti del poeta francese pubblicata da Aragno a cura di Massimo Carloni – N.d.T.]. Fu proprio Valéry a infondere questi temi nella letteratura moderna. E Kundera è il suo erede.

Il saggio di Valéry, per certi aspetti, potrebbe essere addirittura migliore di quello di Kundera, perché è più disposto a riconoscere che anche la civiltà occidentale è capace di orrori. In ogni caso, però, trovo che questi due saggi, La crisi dello spirito di Valéry e Un Occidente prigioniero di Kundera, siano le grandi articolazioni letterarie di una identità spirituale occidentale attraente e variegata e che siano scritti con un tono che soltanto i più grandi autori possono avere: profondo, umano, naturale e moralmente avvertito. Sono due grandi testi, degni dell’eroismo a cui stiamo assistendo, proprio ora, in Ucraina.

Questo articolo è stato pubblicato su Air Mail.

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare già adesso, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 15 luglio.