Libri
Siamo in una classe di seconda di una scuola secondaria di primo grado in occasione di un laboratorio dedicato all’affettività. Ragazzi e ragazze di dodici anni si interrogano sul funzionamento e sul fallimento delle relazioni, sul loro valore, sul modo in cui i social intervengono nei rapporti fra sé e gli altri e fra la propria immagine e il proprio essere. Procedendo passo passo il gruppo arriva a elaborare una domanda: cosa rende un uomo (inteso come essere umano di sesso maschile) tale?
Vi riporto due risposte (il corsivo è mio):
“Spesso i maschi sono obbligati a essere forti e ignoranti perché se no vengono classificati come femminili e secchioni. Devono sempre giocare a uno sport chiamato dalla popolazione “maschile” (per esempio calcio basket e se invece fanno danza vengono impregnati col cartellino “femminile”). Secondo me i maschi non fanno mai quello che vogliono loro ma quello che vuole l’altra gente. La femmina, invece, secondo me è meno giudicata dalla gente, può essere in molti modi. Ma ovviamente le ragazze hanno altri problemi come l’essere giudicate delle poco di buono per aver messo un vestito attillato”
“Secondo me l’uomo è una persona che è in una specie di gabbia e l’unica chiave è il coraggio. Io, che sono un ragazzo emotivo, sono contrario a chi dice che un ragazzo non può emozionarsi”
Questi due brevi scritti risultano, ai miei occhi, degni di nota poiché fanno emergere il rovesciamento di una logica discorsiva: si parte da ciò che si considera essere il maschile – nella fattispecie, la necessità sociale e individuale di una certa adesività all’immagine – per rovesciarlo e far affiorare la dimensione del coraggio. Il coraggio diventa così l’antonimo del maschile. Mi viene in mente Lo squalificato, di Osamu Dazai: “Avevo inventato un altro giuoco, di tipo analogo consistente nell’indovinare gli antonimi. L’antonimo di nero è bianco. Ma l’antonimo di bianco è rosso. L’antonimo di rosso è nero. E adesso domandai: qual è l’antonimo di fiore? […] continuai: Delitto. Qual è l’antonimo di delitto? Qui ti ci voglio”.
Si potrebbe dunque considerare il coraggio come l’antonimo, il rovescio del maschile invece che un suo tratto identificativo?
Nell’antica Grecia, scrive Ryan Balot, storico del pensiero politico, il coraggio è “la migliore approssimazione dell’ideale greco di andreia, ossia la virilità e il maschilismo”. Andreia, continua lo storico, deriva da aner ovvero uomo – da intendersi come essere umano di sesso maschile in opposizione alla donna. Tale concetto gioca un ruolo decisivo nel delineare il profilo del cittadino della polis ed è su tale ideale che si costruisce l’inclusione di un individuo all’interno della comunità governante.
Nel suo lavoro, L’errore di Aristotele (Carocci editore, 2023, p. 376), l’autrice Giulia Sissa sottolinea a più riprese lo strettissimo legame che intercorre fra governo democratico e andreia. Se infatti al centro del pensiero politico ateniese risiedono la necessità di difesa del territorio e il desiderio di espansione della polis, la guerra, gli armamenti e la capacità di combattere diventano forzatamente le priorità del governo.
Aristotele, nelle sue dissertazioni, tratteggia così le virtù di cui deve far mostra il cittadino ateniese affinché possa essere considerato degno di partecipazione alla vita del governo della città. Il tratto che viene in tal modo isolato è quello del thumos, l’ardore dato dal calore del sangue; tratto che appartiene ai corpi maschili, ardimentosi e impetuosi, capaci di lanciarsi in imprese pericolose, di prendere decisioni rischiose e scegliere la direzione da percorrere.
Tale componente costituisce l’essenza dell’andreia, della virilità, e l’essenza del cittadino della polis. È un tratto che caratterizza esclusivamente i corpi maschili; ne consegue che le donne, non essendone dotate per natura, non possono possedere le capacità che ne derivano e dunque la facoltà di deliberare e di prendere una decisione.
Questa concezione della donna – ed è questo il punto centrale della ricerca di Sissa – è alla base della costitituzione della demokratia; costituzione che, senza remore, esclude le donne dalla gestione del potere pubblico. Questo allora il tripode su cui poggiare il nostro ragionamento: i modi di potere, la collettività e le donne.
Scrive Sissa nell’introduzione del suo lavoro: “Ad Atene si assiste al primo incontro mancato fra il popolo e le donne”. Si tratta, infatti, di una cultura politica che si basa su un concetto di uguaglianza legata a “un’identità qualitativa soggiacente, che sia corporea, morale o sociale” che riduce l’uguaglianza “all’omogeneità di un gruppo chiuso”.
Aggiungerei: si tratta di qualità supposte non reali. Il reale che era ed è in gioco, infatti, è quello del sesso. Reale che si può tradurre, ad esempio, nel fatto che, nel nostro Paese, le donne – esseri umani di sesso femminile – acquisiscono il diritto di voto nel 1946. Sono dunque passati dei secoli affinché vi potesse essere il riconoscimento di un soggetto di diritto nel corpo di una donna. Tuttavia non è certo il passare del tempo che rende conto del risultato ottenuto, quanto piuttosto le battaglie combattute dalle donne culminate nella partecipazione alla Resistenza italiana.
Nei documentari dedicati alla Resistenza delle donne – si pensi al documentario di Liliana Cavani Le donne nella Resistenza, o il più recente, Non c’è stato regalato niente del regista Eric Esser – emerge con chiarezza l’eccezionalità che tale presenza riveste: così come nell’Antica Grecia, anche nell’epoca moderna solitamente non sono le donne a combattere la guerra. Così non accade, però, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ascoltando con attenzione le parole delle donne intervistate, si coglie come tale passaggio sia un esito delle lotte sociali portate avanti negli anni antecedenti alla guerra.
Il punto di svolta è l’entrata nel mondo del lavoro, lì qualcosa cambia. Al fianco, infatti, della figura della madre o della donna d’eccezione, compaiono le lavoratrici, le operaie. Accade qualcosa che fino a quel momento non era mai avvenuto, le donne trovano un punto di identificazione comune nel significante “essere una lavoratrice”.
Questa identificazione sembra essere ciò che consente di costruire una classe. Classe da intendersi qui in senso matematico ovvero un insieme di oggetti che possono essere individuati in maniera univoca per il tramite di un tratto comune. L’appartenenza a un gruppo diventa allora la possibilità di essere riconosciute – forse da loro stesse in primis – come soggetti pubblici aventi diritto.
Le donne diventano cioè una forza collettiva; è questo uno dei fattori che permette la partecipazione alla lotta per la liberazione. Resta una domanda: è la dimensione collettiva, quella che destituisce – almeno in parte – la manifestazione dell’andreia, dell’atto di eroismo individuale a favore del pubblico, del bene comune e condiviso al netto di dolorose perdite individuali, a permettere un cambiamento epocale quale il passaggio dalla monarchia alla repubblica e al suffragio universale?
Un nome collettivo, ci insegna la grammatica, è quel sostantivo che al singolare indica una molteplicità; potremmo dire che il collettivo, accettando di perdere l’individuo, ritrova la singolarità nella forma del molteplice.
Nelle ultime pagine del libro, Sissa utilizza un’espressione interessante: il fantasma del consenso. La riprendo, utilizzandola in maniera differente da quanto fatto dall’autrice nel testo, e usando dunque il consenso come antonimo del collettivo. Il consenso è un fantasma politico che abita le istituzioni democratiche ed è tenuto in grande conto come parametro decisionale del gruppo. Questo vale in numerosi ambiti, faccio riferimento a quello che frequento maggiormente, ovvero il mondo del disagio psichico.
Se, ad esempio, si sfoglia il documento ufficiale alla base della revisione del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) troviamo che uno dei criteri decisionali per decretare l’esistenza di un disturbo psichico è proprio il consenso fra gli esperti del campo. Vediamo bene dunque come utilizzandolo come fattore decisionale, il consenso si trasforma da elemento politico-sociale in criterio oggettivo di inclusione o esclusione a opera di coloro che detengono il potere di scelta. È la stessa operazione che ritroviamo nel processo di esclusione delle donne dal diritto di voto nella nascente demokratia.
C’è, inoltre, una seconda dimensione del consenso di cui tenere conto in questa dissertazione. Il ragionamento aristotelico per cui la capacità di governarsi risponde alla capacità di comandare se stessi poggia su un’asserzione: la coincidenza del soggetto con se stesso, la sua propria coerenza, l’adesività alla propria immagine. Sono tutti assunti che, in modo puntuale e non collettivo, vengono messi in discussione fin dall’antica Grecia. Come? Per il tramite della finzione, ovvero attraverso il teatro.
Sissa, nel suo libro, ci mostra alcuni dei personaggi femminili più importanti nella storia della tragedia greca (Giocasta, Antigone, Etra…). Qui non si tratta tanto della grandiosità di tali figure, quanto piuttosto del valore dell’atto della finzione in sé, atto che raccoglie e trasmette l’inascoltato di un’epoca e rende manifesta la natura equivoca di ogni esistenza.
Proprio dai Greci ereditiamo la figura dell’oracolo e, con essa, la dimensione della divinazione: un’altra forma di sapere che gioca sul fraintendimento, sull’equivoco, sul dire fra le righe. Dimensioni del dire che frequentemente vengono attribuite a una forma di sapere qualificata come femminile. È una forma di sapere che non coincide con se stessa ma che, al contrario, attraverso l’equivoco, apre al molteplice.
Di questa dimensione del sapere, conosciuta dai poeti e dalle poetesse fin dall’antichità, si cerca di fare a meno quando si persegue la strada del consenso, della coincidenza con se stessi. È Freud colui che, per primo, tenta di dare una forma trasmissibile a questo tipo di sapere affermando a chiare lettere che ciò che rivela la scoperta dell’inconscio è che l’io non è più padrone a casa sua. C’è qualcosa che sfugge al soggetto, sfugge alla coscienza e alla conoscenza saputa e ripetibile, manifestandosi per il tramite dell’inconscio; c’è qualcosa, insomma, di ingovernabile.
Ingovernabile non è sinonimo di irrazionale, qualifica di cui venivano tacciate le donne da Aristotele. Ingovernabile è ciò che sfugge al controllo della coscienza, del sapere costituito, che non rientra in ciò che è già dato. Ingovernabile non coincide neppure con inconoscibile seppur sia vero che per conoscere l’ingovernabile bisogna trovare il modo di allentare quel controllo che la coscienza esercita – o cerca di esercitare – sul soggetto.
Sappiamo che la psicoanalisi nasce proprio da un dissenso che i corpi delle isteriche portano di fronte al sapere costituito della medicina: qualcosa non va ma non può essere spiegato attraverso il sapere medico. È un atto di insubordinazione del corpo che rivela l’impossibilità di un sapere tutto pieno, di un sapere completo, totale. Avere dunque a che fare con l’ingovernabile che risiede al cuore di ogni sapere, di ogni conoscenza, potrebbe voler dire fare i conti con la possibilità di esercitare un’impotenza. Un paradosso, dunque, che gioca fra potere e possibile, e fra impotenza e impossibile. Quale sapere possibile da questa impossibilità?
La cura e l’attenzione rivolta al collettivo diventano allora uno dei modi possibili per mantenere vivo lo iato fra il sapere costituito – la conoscenza dei predecessori, gli studi, il linguaggio – e il sapere non-saputo – l’invenzione, l’inconoscibile, il disturbante. Questo delicato andirivieni fra universale e singolare è la posta in gioco di una democrazia. Le condizioni di nascita di questa forma di governo ci obbligano a prestare attenzione al rischio che il consenso operi in termini di esclusione del femminile – inteso come forma di dissenso interna al legame. È il nome che potremmo dare a ciò che in ogni soggetto, indipendentemente dal sesso biologico, chiama a una certa libertà di movimento, a un poter essere anche altro da ciò che si è o che si è chiamati a essere.
Tornando infine alle parole del ragazzo di seconda media riportate in apertura, si può forse dire che il coraggio indica oggi una qualità propria del femminile laddove esso sia indicativo di un certo saperci fare con l’alterità che abita ognuno di noi.