Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Travaglio
L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Travaglio
UN VOLUME TASCHEN RACCONTA,
AMMONTICCHIANDO LA CONSUETA MINIERA SFAVILLANTE D’IMMAGINI, UN PEZZO DI STORIA DELLA PUBBLICITÀ CHE È ANCHE STORIA DELL’IMMAGINE, DEL DESIGN, DEL COSTUME.
La storia della pubblicità dei giocattoli negli Stati Uniti, documentata lungo tutto il Novecento, diventa inevitabilmente una cavalcata densa di suggestioni e ricordi, e qualcosa in più di una semplice storia del giocattolo, per le sue implicazioni col linguaggio della comunicazione sociale (e commerciale, dove, non dimentichiamo, è ovvia la mancanza di intenti pedagogici: la finalità è vendere).
Il Novecento si inaugura col passaggio tra i giocattoli di realizzazione artigianale e i primi di produzione industriale, con gli USA che entrano prepotentemente in concorrenza con il Vecchio Continente. È un fenomeno che si sviluppa nel passaggio dalla vita rurale a quella cittadina, di cui i primi segnali sono i trenini, alcuni già elettrici, e il fortunato gioco di costruzioni Meccano.
Tra gli imitatori di quest’ultimo primeggiava Erector (poi assorbito dallo stesso Meccano), che nel 1913 si era specializzato nella costruzione di grattacieli in miniatura, esemplificando lo stretto legame dei nuovi giochi con i progressi tecnologici. Così era per i cosiddetti compositi Tinker Toys, diffusisi in coda alla Seconda Rivoluzione Industriale, o anche per le biglie (di marmo, terracotta, vetro), altri prodotti del sentimento innovativo del tempo.
E naturalmente, in una nazione dove si è sempre girato armati, per i maschietti imperavano anche i fucili in miniatura, normalmente ad aria compressa ma pure con proiettili veri e perfino uno provvisto di baionetta … leggi tutto
di
«Pioveva ancora. L’orologio sul cruscotto faceva le cinque e venti. La macchina partì al quinto tentativo. Lynette imboccò la Prescott e si diresse a nord sulla 60th».
Ho incrociato il Vlautin scrittore qualche tempo fa leggendo Motel Life, il suo primo romanzo, e ne sono rimasto incantato. Ha un modo unico, quasi dolce, di raccontare i disperati. Tratteggia le difficoltà di uomini e donne come se li guardasse dall’interno, come se le sentisse sorelle, come se li ricordasse fratelli. Quella dolcezza accompagna il lettore, di storia in storia, nel naufragio del sogno americano (una costante nel racconto di molti scrittori), ne svela gli inganni, i punti deboli, l’impossibilità che si realizzi, tranne che per un numero molto esiguo di privilegiati.
La maggior parte degli abitanti degli Usa lotta ogni giorno per sopravvivere, si attacca con le unghie dove può, fa due o tre lavori sottopagati, vive in stamberghe, case umide e tenute male, in periferie colossali che si fondono con l’orizzonte fino a che il centro non si espanda e le risucchi. Le trasformi. Dove vanno i poveri, le famiglie, quando il luogo che hanno chiamato casa diventa qualcos’altro? Quando il sobborgo muta in quartiere residenziale? Quando l’affitto da ragionevole diventa insostenibile? Sono queste alcune delle domande che solleva lo scrittore e musicista (ricordiamolo nei Richmond Fontaine e The Delines), nato in Nevada, nel suo nuovo romanzo La notte arriva sempre (Jimenez, 2021, traduzione di Gianluca Testani).
Se i due fratelli protagonisti di Motel Life navigavano trascinati dal loro stesso destino disperato (e commovente), Lynette, l’attrice principale di questo nuovo romanzo, si muove in un presente in cui la gentrificazione di Portland – la città dell’Oregon in cui vive – trasforma il tessuto urbano e sconvolge le vite di chi, come lei, è nata ed è sempre rimasta in periferia, lottando con tutte le proprie forze per difendere ogni metro quadro, per garantirsi un po’ di cibo, il riscaldamento, una sicurezza minima. Un posto che si chiama casa.
«Vedi, il fatto è che tu non hai mai mollato e hai un cuore d’oro, un cuore ferito, ma buono, e vuoi essere buona. A tanta gente non interessa fare qualcosa di buono. Tanta gente vuole solo spingerti da parte e prendersi quello che vuole».
Lynette ha trent’anni, vive con sua madre e suo fratello in una zona di Portland che sta cambiando rapidamente, i condomini nuovi, fatti per benestanti si stanno mangiando le case vecchie e chi le abita. Sua madre è una donna stanca, provata dalla vita complicata, sembra che più niente la tocchi, nemmeno i figli. Divide le giornate tra il lavoro e lo stravaccarsi sul divano con bicchieri di latte al cioccolato e sigarette.
Se dorme lo fa davanti alla tv. Il suo adorato fratello ha problemi di salute mentale, è Lynette che si occupa di lui sia in casa che fuori casa, è costretta a portarlo con sé quando fa i turni nel laboratorio di pasticceria. In trent’anni Lynette ha già visto e subito di tutto, a cominciare dall’abbandono della famiglia da parte del padre. Ha dovuto lottare e lotta … leggi tutto
di redacta
Il 30 marzo 2021 la casa editrice il Saggiatore si è vista recapitare una lettera inaspettata.
Il gruppo di redattrici e redattori esterni che aveva realizzato la stragrande maggioranza dei libri dell’editore nel 2020 ha chiesto, con una sola voce, perché si è deciso di fare a meno di tutti loro. Così, nel mondo del lavoro autonomo ha fatto capolino lo spettro dell’azione collettiva. Ma questa non è la storia di un lampo improvviso, di un’alzata di capo estemporanea fondata sull’indignazione. Per comprenderla occorre fare qualche passo indietro.
Due anni fa, un campione più o meno casuale di lavoratori e lavoratrici dell’editoria libraria si è riunito in uno dei tanti coworking milanesi. C’erano finte partite iva, freelance per scelta e per necessità e chi svolgendo prestazioni occasionali riusciva, in qualche modo, a lavorare tutto l’anno. Redattrici, traduttrici, grafiche, consulenti editoriali, stagisti e professionisti con trenta anni di esperienza.
Oltre ad aver deciso di impegnare un martedì sera in un incontro che in certi momenti ha ricordato le dinamiche degli alcolisti anonimi, tutte queste persone avevano in comune il fatto di lavorare troppo, male e per compensi bassi, oltre alla certezza di non avere mai provato seriamente a creare una coalizione tra professioniste dell’editoria. È stata la prima riunione di Redacta.
Da allora ne è stata fatta di strada: è iniziato un lavoro d’inchiesta col quale — tra riunioni, interviste, sondaggi online — è stato prima di tutto censito chi lavora in editoria oggi e come (dati che nessuno si preoccupa di raccogliere), per poi ricostruire l’intero sistema produttivo analizzando i vari oligopoli del settore, l’impatto di Amazon e le modalità con cui negli ultimi decenni si è abbattuto il costo del lavoro portando le redazioni (e non solo) sempre più all’esterno delle case editrici.
Gli editori hanno spinto progressivamente verso:
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