Quando Dino Buzzati faceva il giornalista (kobo.com)

di EUGENIA DURANTE

Il «mondo-verità», noi l’abbiamo abolito: 
quale mondo ci resta? 

Il mondo delle apparenze forse?… Ma no! con il mondo-verità noi abbiamo abolito anche il mondo delle apparenze!

F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli

Il primo libro di Dino Buzzati che ho preso in mano nella mia vita è stato Il segreto del bosco vecchio: una fiaba moderna ricca di suggestioni fantastiche, segreti, metamorfosi e atmosfere sospese. Devo ammettere che all’epoca non mi aveva colpita particolarmente. Solo svariati anni più tardi, dopo essermi imbattuta per caso in un articolo dello scrittore riguardante l’omicidio di via San Gregorio a Milano, mi è tornato in mente il mio primo incontro con Buzzati. Più mi sono documentata sulla sua carriera giornalistica, più sono rimasta intrigata da quanto le due personalità – quella dello scrittore e quella del cronista – fossero profondamente intrecciate tra di loro.

Gli studiosi dello scrittore non se ne stupiranno. Per loro, il legame tra il Buzzati giornalista e il Buzzati autore non è cosa nuova; è, anzi, un elemento imprescindibile della sua opera. Come diceva Guido Vergani nel suo Buzzati inviato speciale, “la cifra di Buzzati sta nell’intarsio tra il giornalista e lo scrittore, nell’oscillazione tra la cosa vista e il mondo di Buzzati narratore.” Al di fuori della cerchia degli esperti, però, la produzione giornalistica dello scrittore non è altrettanto nota, anzi, per molti rimane tutt’oggi sconosciuta. Ma andiamo con ordine.

Dino Buzzati arriva alla redazione del Corriere il 10 luglio del 1928. Si è appena laureato in giurisprudenza e pensa che da quella redazione lo sbatteranno fuori in un battibaleno. Si sbaglia: tra libri mastri, critica musicale, cronaca bianca e nera, elzeviri e fumetti, ci rimarrà quasi fino alla morte. È all’interno delle mura del Corriere che, tra il 1933 e il 1938, nascerà quello che da tutti è considerato il suo capolavoro, quel Deserto dei Tartari che tanto deve alla sua esperienza in redazione e che tanto influenzerà alcuni suoi pezzi di cronaca. Come fa notare Lorenzo Viganò nella prefazione dell’ultima edizione dell’antologia La nera, edita da Mondadori, l’emozionato Buzzati che saluta la mamma prima di recarsi in Via Solferino non può fare a meno di ricordare il giovane Giovanni Drogo in partenza per la Fortezza Bastiani.

Il giornalista Dino Buzzati difficilmente occuperebbe le prime pagine dei giornali di oggi. Nei suoi pezzi c’è ben poco di quello che insegnano nelle scuole e nelle redazioni: nelle prime righe non ci sono le 5 W (WhoWhatWhereWhenWhy); l’autore non è invisibile, ma visibilissimo, perché è il tramite tra la scena e le nostre emozioni condivise. I suoi racconti di cronaca partono dal presupposto nietzschiano (più o meno consapevole) che i fatti in sé non bastano, anzi, a volte confondono la realtà.

La cronaca nuda e cruda non riesce a descrivere l’orrore non tanto perché la tragedia debba essere spettacolarizzata; non si tratta, per dirla in termini contemporanei, di una barbaradursizzazione del dolore, ma del suo esatto contrario. La realtà è fantasia e viceversa: la logica non basta per guardare in faccia la tragedia. Solo trasformandola in favola, e di fatto superandola, è possibile raccontarla senza rimanerne folgorati … leggi tutto

(Florian Klauer)

Il furto delle ossa di Dante (doppiozero.com)

di Marco Martinelli

Verso Paradiso

Chi la conosce la storia delle ossa di Dante? Di come furono abilmente trafugate e nascoste dai frati della basilica ravennate di San Francesco, in una notte del 1519, per non consegnarle alla delegazione del papa Leone X e dei fiorentini che volevano riportarle in patria? La vicenda ha il sapore di un thriller politico-religioso, con risvolti burleschi: i francescani contro il Vaticano! I francescani ladri delle ossa! Delle “brave persone”, così li definiva sogghignando mio padre, divertendosi e divertendomi nel raccontarmene la storia, quando ero poco più che un bambino.

Storia che cominciava così: a metà del Trecento, Firenze e Ravenna nutrono verso il poeta sentimenti opposti, per la prima Dante rimane un fuorilegge, la seconda lo venera come lo scrittore che ha onorato la città con la sua presenza. Le copie della Commedia circolano ormai in tutta Italia, e sono diverse le famiglie fiorentine che apprendono di avere un amico o un parente relegato “all’inferno” da quel nemico della patria. Come perdonarlo? Si tenta di cancellare la memoria del “traditore”, ma invano.

La fama di Dante cresce: a 40 anni dalla morte, Boccaccio scrive il Trattatello in laude di Dante, in cui rimprovera aspramente Firenze: ma come, dopo tutti questi anni, ancora non hai richiesto a Ravenna le ossa del tuo più grande figlio? Di lui che, nonostante le sofferenze che gli hai inflitto, si è sempre chiamato “fiorentino”? Dante è il segno tangibile della tua gloria: dimmi, di quale altra gloria disponi? I tuoi mercanti? Le tue ricchezze? E d’altronde, anche se lo richiedessi indietro, Ravenna non te lo darebbe. Ravenna, “molto più per età veneranda di te”, sarà la “perpetua guardiana di così fatto tesoro”.

Ma qualcosa comincia a cambiare, col passare delle generazioni, e quel rimprovero comincia ad avere effetto: Boccaccio viene chiamato dal Comune di Firenze a tenere una pubblica lettura dell’Inferno. È il segno ufficiale che il condannato a morte può essere riabilitato, e il suo capolavoro diventa un vanto per l’intera città.

È arrivato il momento di fare quel che suggeriva Boccaccio: richiedere a Ravenna il corpo del poeta. La prima richiesta fiorentina è del 1377. La risposta? Picche. Non se ne parla. I ravennati sono inflessibili: Dante è nostro … leggi tutto

(Folco Masi)

IL LUNGO INVERNO CALABRESE RISCALDATO DALLA CAPITALE DEL LIBRO (rivistailmulino.it)

di Nicola Fiorita

Accade che Vibo Valentia – provincia tra le più 
arretrate del Paese – venga proclamata «capitale 
del libro 2021» e che questa notizia faccia 
irrompere nel dibattito pubblico un’altra 
visione della Calabria

Il lungo inverno politico, amministrativo e sociale della Calabria sembra ormai aver addomesticato anche gli ultimi aneliti di quel ribellismo che, in un modo o nell’altro, ha attraversato la storia di quella terra. Da quasi sette mesi – e per almeno altri cinque ancora – la Calabria, orfana del suo presidente di Regione, è guidata da un vicepresidente facente funzioni, non eletto, che si è distinto soltanto per improvvide dichiarazioni sui «froci» e per una lunga crociata contro l’apertura delle scuole; la sanità, pur in tempo di pandemia, è commissariata in tutti i suoi livelli e ha subito clamorosi avvicendamenti al vertice, a seguito di inefficienze conclamate e sbandierate in diretta televisiva; la Regione, infine, continua lentamente a spopolarsi e anche in questo anno così speciale ha perso – come accade da anni – qualche migliaio di abitanti, per lo più giovani e laureati.

In questo contesto, per l’appunto, sembra prevalere la rassegnazione e la tacita accettazione di quella rappresentazione scenica che rende la Calabria al tempo stesso un enorme stereotipo e un set cinematografico utile per raccontare l’infinita storia dei buoni e dei cattivi.

Prevale di norma la rassegnazione e la tacita accettazione di quella rappresentazione scenica che rende la Calabria un set cinematografico utile per raccontare l’infinita storia dei buoni e dei cattivi

L’immagine della Calabria intesa come luogo sospeso tra barbarie e modernità, tutta sole, mare, maschilismo, ’ndrangheta, non finito, familismo amorale e tarantella, terra bellissima e irredimibile, si solidifica anche grazie al concorso dei calabresi stessi, se è vero, come è vero, che la giunta regionale ha commissionato e pagato a Gabriele Muccino un cortometraggio che eleva a opera d’arte quella rappresentazione.

Ma soprattutto i media locali concorrono spontaneamente, e non senza alcune macroscopiche contraddizioni, alla spettacolarizzazione del processo e alla sua configurazione come il nuovo grande maxi-processo del Paese, il sequel calabrese di quella stagione palermitana invero irrepetibile nel bene e nel male.

Nella retorica che ha preceduto la celebrazione delle prime udienze, che vanno svolgendosi nella nuova aula bunker appositamente costruita a Lamezia Terme nell’ex area votata a uno sviluppo industriale mai arrivato, è palese l’intenzione di rappresentare la Calabria, e in particolare la provincia di Vibo Valentia, come il teatro di una vera e propria guerra civile dove le forze del male, i clan mafiosi supportati da magistrati, politici e giornalisti corrotti e da una borghesia delle professioni connivente e pavida, devono essere sconfitte con ogni mezzo necessario dal popolo e dai suoi condottieri senza macchia e senza paura … leggi tutto

(Tom Hermans)

Isaac B. Singer e l’arte di creare grandi storie (kobo.com)

di MATTEO MOCA

Quando lo scrittore polacco, poi naturalizzato 
statunitense,

Isaac Bashevis Singer vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1978, alcuni giornalisti e critici si chiesero come mai Singer, scappato dall’Europa quando la violenza nazista stava già mostrando tutto il suo furore, non si fosse mai occupato nei suoi libri della Shoah.

Certo, Singer non se ne occupò mai direttamente scrivendo storie ambientate in quell’atmosfera, ma ogni sua pagina e ogni sua riga sono attraversate da un’analisi profonda della cultura ebraica e dal tentativo di dare a questa una rappresentazione che si muove geograficamente tra molti luoghi del mondo, in particolare quelli della sua esistenza, l’Est europeo e gli Stati Uniti d’America, la patria della sua famiglia e quella che molti ebrei come lui saranno costretti a scegliere nel ventesimo secolo.

D’altronde Singer era figlio di un rabbino (oltre che fratello dell’altrettanto straordinario scrittore Israel Joshua Singer) e non deve sorprendere dunque la presenza così pervasiva del tema ebraico nella sua opera. Si può recuperare in rete una vecchia intervista al premio Nobel fatta da Enzo Biagi e incentrata proprio sul rapporto tra lo scrittore e la cultura ebraica. Singer nel breve dialogo si muove con grande libertà tra i suoi ricordi, con un occhio anziano che pare essersi lasciato alle spalle le sofferenze e torna con piacere e nostalgia a momenti che gli dovevano sembrare appartenere a un passato molto remoto, e si concentra proprio sul significato che aveva nella famiglia il ruolo di rabbino del padre: da un rifiuto temporaneo dell’atmosfera religiosa che si respirava in casa, dettato anche da pose anticonformiste e da uno spirito da «libero pensatore», il passare degli anni e la maturità raggiunta con lo scorrere dell’età, lo hanno portato a riflettere su come ciò che è presente nel mondo non possa essere nato da un accidente, ma come ci debba essere qualcuno responsabile dell’origine di tutto.

A partire dal 2017, con il romanzo Keyla la rossa, la casa editrice Adelphi sta portando avanti la pubblicazione dell’opera dello scrittore con la cura di Elisabetta Zevi e i volumi che sono stati fino a oggi pubblicati sono già una testimonianza importante per conoscere il lavoro di uno tra i maggiori scrittori del Novecento.

Come si diceva, Singer visse sulla sua pelle l’evento più violento di tutto il secolo e in ognuno di questi libri la cultura e il mondo ebraico sono protagonisti assoluti e hanno a che fare tanto con il mondo polacco e le origini dell’ebraismo in quella regione, quanto con la posizione della cultura ebraica negli Stati Uniti … leggi tutto