A Cutro un surplus di umanità, parla il regista Mimmo Calopresti (laragione.eu)

di Raffaela Mercurio

Con il film documentario “Cutro Calabria Italia”, 
il regista Mimmo Calopresti ha voluto trovare un 
senso a quella tragedia facendo la sola cosa da 
fare: raccontare

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 il caicco “Summer Love”partito da Izmir (in Turchia) con oltre 180 persone a bordosi schiantò contro una secca durante una tempesta e naufragò davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro: persero la vita 94 migranti, tra cui 34 minori.

Imprecisato il numero dei dispersi. Con il film documentario “Cutro Calabria Italia”, il regista Mimmo Calopresti ha voluto trovare un senso a quella tragedia facendo la sola cosa da fare: raccontare. Finanziata dalla Fondazione Calabria Film Commission e prodotta da Silvia Innocenzi e Giovanni Saulini per Alfa Multimedia, l’opera sarà presentata domani alla IV edizione del Festival dell’Accoglienza di Torino.

«C’è solo un modo di gestire il fenomeno migratorio: l’umanità. C’è qualcosa che è più potente delle leggi e della politica ed è il rapporto fra le persone» ha detto il regista.

Già autore di documentari di successo come “La parola amore esiste” (vincitore del Nastro d’Argento come miglior soggetto originale), “L’abbuffata” o “Aspromonte, la terra degli ultimi”, Calopresti ci racconta com’è scattata la scintilla emotiva alla notizia di Cutro: «Come tutti, sono stato colpito dalla portata della tragedia. Mi sono soffermato sui numeri domandandomi però cosa ci fosse alle spalle, di umano, che meritava di non essere dimenticato. E così ho ascoltato tante testimonianze: dai parenti delle vittime che arrivavano raccontando i sogni di quelle povere persone scomparse in mare, all’incredibile solidarietà del popolo calabrese».

«Un surplus di umanità» come lo definisce Calopresti, che sembra insito nell’animo della popolazione calabrese di fronte a tragedie di questo tipo: «Ho notato un bisogno di esprimere umanità: parliamo di persone che vivono in uno dei luoghi più poveri d’Italia e che si sono riversati tutti su quella spiaggia per aiutare, sostenere, fare qualcosa. A testimonianza che, al di là di ogni espressione politica, è l’umanità che conta».

Un luogo santo e dannato, quello di Cutro, che come ricorda il regista era stato già scelto in passato per raccontare un altro tipo di storia: quella del “Vangelo secondo Matteo” diretto da Pier Paolo Pasolini. «Una parte del film è stata girata proprio in quei luoghi. Mi ha fatto ricordare una poesia: l’idea pasoliniana degli ultimi, sempre costretti a muoversi e sradicarsi per sopravvivere. Un po’ come i calabresi, grande popolo di migranti» sottolinea Calopresti.

Ed è quella poesia, “Profezia”, che forse può chiudere il cerchio: «Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane. Subito i Calabresi diranno, come malandrini a malandrini: “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!” Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita (…)».

 

Bibbiano, nemmeno Carletti era un “lupo”: assolto l’ex sindaco (ildubbio.news)

di Simona Musco

Angeli e Demoni

Dalle accuse (false) di elettroshock sui bambini all’uscita di scena: finito il calvario del politico messo in croce dalle destre

Per tutti era diventato uno dei “mostri” di Bibbiano, capace di rapire bambini a suon di un elettroshock mai praticato da nessuno. Eppure, a suo carico, c’era solo l’accusa di abuso d’ufficio, con l’ipotesi di aver messo a disposizione della “Hansel& Gretel”, la onlus dello psicoterapeuta Claudio Foti (assolto in via definitiva), locali pubblici senza alcuna gara.

L’incubo, oggi, è però finito: l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti è stato infatti assolto, a seguito della cancellazione dell’abuso d’ufficio, chiudendo finalmente uno dei capitoli più dolorosi della sua vita. Tanto doloroso da non trovare le parole per commentare, preferendo mantenere il silenzio che, per anni, ha indossato con dignità.

La Corte presieduta da Sarah Iusto ha letto ieri la sentenza, le cui motivazioni verranno depositate nel giro di 15 giorni. La pm Valentina Salvi aveva provato a tenere in vita il reato, sollevando la questione di legittimità costituzionale, bocciata poi dalle giudici.

Che le avevano lasciato una finestra aperta per poter depositare una memoria e portare la questione davanti alla Corte di Giustizia. Ma la procura ha deciso infine di desistere, perdendo il secondo degli uomini “immagine” di una vicenda controversa e politicizzata all’estrema potenza.

L’accusa di abuso d’ufficio era già stata smontata, in realtà, dalla Cassazione, nelle motivazioni della sentenza che ha scagionato la principale vittima mediatica di questa vicenda, ovvero Foti: l’incarico a “Hansel&Gretel” è seguito a un bando ed è stato confermato da una delibera.

Difficile, dunque, immaginare un illecito. In ogni caso, il fatto non costituisce più reato, come ricordato in aula da tutte le difese e, in particolare, da quelle di Carletti, rappresentato da Giovanni Tarquini e Vittorio Manes. Oltre a Carletti, escono dal processo anche l’ex sindaco di Montecchio ed ex presidente dell’Unione Val d’EnzaPaolo Colli, e Cinzia Prudente, affidataria.

L’assoluzione, ma solo con riferimento a questa accusa, riguarda anche altri: l’ex responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi, l’ex assistente sociale Francesco Monopoli, la psicoterapeuta Nadia Bolognini, le affidatarie Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni. Nell’ordinanza originale, il nome di Carletti compariva associato a quattro capi d’accusa, dal numero 85 al numero 88: tre episodi di abuso d’ufficio e un falso ideologico.

Oltre a quello per il quale era finito a processo, la procura gli contestava di aver partecipato alla falsificazione della causale delle somme versate agli affidatari, di aver abbassato il valore della soglia dei servizi, spacchettandoli, per prorogarli senza gara e, infine, per aver affidato il servizio legale all’avvocato Marco Scarpati, totalmente scagionato dalle accuse tanto da veder archiviata la propria posizione. Accuse che non hanno superato però la fase delle indagini.

Nonostante la marginalità dei fatti contestati, Carletti era precipitato in un vero e proprio tritacarne mediatico. Finito ai domiciliari a giugno 2019, l’allora sindaco era stato sbattuto su tutti i giornali come autore di affidi illeciti (con i quali non c’entrava nulla), manipolando la mente dei bambini addirittura con l’elettroshock, mai praticato da nessuno.

Furono sei i mesi trascorsi con il peso delle misure cautelari, scelta poi bocciata dalla Cassazione, secondo cui non c’era alcuna ragione per disporre prima i domiciliari e poi l’obbligo di dimora, con lo scopo di tenerlo lontano dai contatti politici che avrebbero potuto indurlo a reiterare i reati.

È stato proprio il nome di Carletti, però, a consentire al fatto di cronaca di trasformarsi in fatto politico: da sindaco del Pd, la responsabilità di quei fatti, per osmosi, sarebbe appartenuta a tutto il partito. E così l’equazione, elaborata dalla Lega di Matteo Salvini, è stata elementare: sistema Bibbiano uguale sistema Pd.

Un sistema la cui esistenza, oggi, scricchiola, udienza dopo udienza, smentita dalle testimonianze. Anche perché i casi finiti a processo sono solo otto, difficilmente definibili un “sistema”. Ma anche a volerlo ipotizzare come esistente, Carletti non c’entrava nulla con allontanamenti e affidatari e nulla aveva a che vedere con quella manipolazione sui bambini, ipotizzata dalla procura, messa in atto, secondo Salvi, per togliere quei ragazzi ai propri genitori per affidarli ad altri, per guadagnare soldi in cure private e corsi di formazione.

Carletti era stato letteralmente travolto da fango e minacce: i suoi social furono presi d’assalto e a finire nel mirino degli hater era stata anche la sua famiglia. Così, poco dopo, l’ex sindaco ha deciso di denunciare tutti, compreso l’ex vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio.

L’inchiesta su insulti e minacce è durata cinque anni – ovvero più del triplo di quanto servito per chiudere l’indagine sugli affidi, che conta oltre 100 capi d’accusa -, ma per Di Maio la pm Salvi (la stessa che ha fatto finire ai domiciliari Carletti) ha chiesto l’archiviazione, richiesta alla quale le difese dell’ex sindaco si sono opposte. Essendo all’epoca un leader politico, aveva scritto la pm, quella di Di Maio era un’opinione politica.

In un video, l’ex leader dei 5S lanciò pesanti strali contro l’allora sindaco, esponendo sui social una foto di Carletti in fascia tricolore e la scritta “Arrestato”, alla quale si aggiungeva la frase “Affari con i bimbi tolti ai genitori”. «Col Pd non voglio avere niente a che fare – scriveva Di Maio, che curiosamente un mese dopo invece stava al governo coi dem -. Col partito che fa parte dello scandalo di Bibbiano, con i bambini tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock e mandati a altre famiglie, con il sindaco Pd che è coinvolto in questo, non voglio avere niente a che fare».

Quel post – oggi sparito dai social assieme al vecchio profilo di Di Maio – fu condiviso da migliaia di persone e migliaia furono anche i commenti in cui si vomitava di tutto addosso al sindaco e alla sua famiglia.

La procura fu costretta a smentire la vicenda dell’elettroshock il giorno dopo il blitz, spiegando anche che a carico del politico non erano contestati reati relativi agli affidi. Troppo tardi, però, perché nel frattempo era già stato scelto come capro espiatorio da utilizzare durante tutta la campagna elettorale per le regionali in Emilia Romagna. E non è un caso, infatti, se a mettere in mostra in Parlamento la maglietta “Parlateci di Bibbiano” sia stata proprio l’allora candidata a governatore della Lega Lucia Borgonzoni.

«È stata una vicenda dall’impatto mediatico devastante – ha ricordato Manes -, con tutte le ricadute che ha sulla vita di una persona che ha sempre agito, e ora lo ha visto riconoscere, con correttezza e trasparenza. Ma la soddisfazione, oltre che sul piano professionale, è anche sul piano scientifico, perché la scelta dei giudici sull’abuso d’ufficio, con questa ordinanza così dotta, colta e approfondita, vuol dire che poi il dialogo, anche sui principi di diritto, a volte funziona. Si sono dimostrate giudici di notevole caratura professionale, rigore scientifico e di grande coerenza e coraggio. Questo, da avvocato, è un grande stimolo per credere che la giustizia alla fine trionfa. Ci tengo ad evidenziare che Carletti non è stato graziato dall’abolizione dell’abuso d’ufficio: tre delle quattro imputazioni formulate inizialmente dalla procura erano già cadute, perché insussistenti, e quella residua poi è stata cancellata dal legislatore. Ma eravamo convinti, e lo siamo ancora, che sarebbe emersa la sua innocenza anche rispetto all’ultimo capo di imputazione».

Soddisfatto anche Tarquini: «Finalmente si è conclusa questa agonia, che ha avuto conseguenze gravi sulle persone e sul loro ruolo istituzionale. Una vicenda lunga e sofferta che Carletti ha sempre affrontato a testa alta, negando ogni accusa. È veramente una liberazione, la fine di un vero e proprio incubo, dopo una violenta mostrificazione».

Addio a Massimo Battista, che lottò contro l’Ilva (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale.

La famiglia e le compagne e i compagni, e Taranto, oggi lo piangono

Massimo Battista è morto, a 51 anni, per il tumore, ultima eredità della vita e della lotta contro l’Ilva. Ha salutato. “Dopo aver lottato con tutte le mie forze, per me, per la mia fantastica moglie e per i miei magnifici figli, la mia battaglia termina qui. Ho lottato tanto per questa città, ho sempre cercato di dare un futuro migliore alla mia amata Taranto. Ho combattuto come solo un leone sa fare”.

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale. L’avevo conosciuto prima alla fabbrica, poi al Circolo Nautico dell’Ilva (!), dove era esiliato, visitato fedelmente da vecchi compagni di lavoro e di lotta, con qualche bravo cane. Qualche scemo aveva scritto sul cancelletto (ma piccolo…) : “M. Battista imboscato”. (Gli esilii dell’Ilva sono stati scoperchiati dal bellissimo film di Michele Riondino, “La palazzina Laf”).

Oggi non ho ritrovato i miei appunti con il racconto di Battista, sono troppo disordinato, sono passati molti anni. Avevo, allora, pubblicato questa piccola posta, che ripeto, salutando la famiglia e le compagne e i compagni di Massimo, e Taranto, che oggi lo piange.

“Massimo Battista, operaio dell’Ilva di Taranto e cittadino libero e pensante, ha messo sul suo facebook (da ieri abbrunato per la nuova morte di lavoro) questo raccontino esemplare: ‘Capitano tutte a me, stasera mentre camminavo in via Plateja si avvicina una nonnina mi chiede sint bell piccinn taghi vist in televisione ma l sol d l’imu quand m lann dà’ / ‘Senti bello mio ti ho visto in televisione, ma i soldi dell’Imu quando me li danno’ / trad. mia, / ‘io gli ho risposto signora vedete meno la televisione e facim a rivoluzion ma no quedd civil’ / ‘e facciamo la rivoluzione ma non quella civile’ (trad. mia)”.

Marco Rizzo, l’invettiva «scorretta»: «Vogliono imporci i gusti sessuali delle minoranze. Invece di occuparsi della famiglia Elly Schlein balla sul carro del Gay Pride» (corriere.it)

di Fabrizio Caccia

L'intervento dell'ex leader comunista e 
il boom sul web: 

«Quest’epoca insopportabile del politicamente corretto, per cui ormai non c’è un film o una pubblicità in cui non ci sia un gay o un nero»

«Va bene, parliamo, ma ho pochi minuti, sto andando a farmi raddrizzare la schiena, metodo Mézières, lo conoscete? Non ho fatto acrobazie erotiche, è che peso 110 chili…».

Marco Rizzo, che compirà 65 anni sabato 12 ottobre, un po’ se l’è cercata. L’altro giorno, intervenendo all’evento «L’Italia dei Conservatori», l’ex segretario del Partito comunista, già deputato ed europarlamentare, a un certo punto ha detto: «Mi piace la gnocca. Posso dirlo? E non mi dovete rompere le balle…».

La diretta su Tik Tok ha avuto all’istante, è il caso di dirlo, un’impennata di ascolti: 20 mila like, più di 2 mila commenti. Di che genere? «Per il 99% direi positivi, da parte di uomini e donne». E che ha detto la sua seconda moglie? «Non ha dato peso, Susanna poi è molto riservata (Susanna De Notti, bellissima, che molti scambiano per l’attrice Stefania Rocca, ndr) e oggi c’è solo una cosa che la preoccupa, la guerra in Medio Oriente…».

Comunque chi lo conosce bene assicura che quello che ha detto non è certo una novità. Torinese, ex alpino, anche pugile e tiratore con l’arco, specie ai tempi di Montecitorio Marco Rizzo passava per un discreto tombeur («Macché, sono un povero pensionato», si schermisce furbo).

«L’altro giorno io stavo ragionando di politica generale davanti a personalità del calibro di Gianfranco Fini, Luciano Violante e non mi pare siano rimasti scandalizzati», racconta l’attuale coordinatore nazionale di Democrazia Sovrana Popolare («Ormai ho chiuso col Pc, solo il sovranismo popolare oggi può difendere le classi più deboli, Lenin starebbe con noi»).

Spiega: «Quella cosa non l’ho detta per compiacermene, stavo solo criticando quest’epoca insopportabile del politicamente corretto, per cui ormai non c’è un film o una pubblicità in cui non ci sia un gay o un nero. Oggi un film come Amici miei di Monicelli non si potrebbe fare: “Endovenosa, sorella? Eccomi pronto, grazie…”, sai le proteste, i distinguo… Oggi i gusti sessuali di una minoranza finiscono per costituire un obbligo per la maggioranza. Ma i desideri non possono trasformarsi in diritti: dall’utero in affitto alle monoporzioni al supermercato. Che ne è della famiglia?».

Lui risponde così: «Friedrich Engels diceva che la famiglia è il primo nucleo della società borghese e io aggiungo che senza la famiglia, senza le pensioni dei nonni e delle vecchie zie, oggi in Italia avremmo 11 milioni di poveri in più. La famiglia è un presidio dello stato sociale e che fa Elly Schlein invece di occuparsene? Si mette a ballare sul carro del Gay Pride». Lo sfogo è finito: Rizzo ora pensa all’Umbria, dove a novembre si vota. Candidato governatore.

Viktor Orbán spacca il Parlamento europeo (euronews.com)

di Vincenzo Genovese

La presentazione delle priorità della presidenza 
ungherese da parte del primo ministro ungherese 
Viktor Orbán divide il Parlamento di Strasburgo, 
tra estimatori e critici delle sue politiche

Lo si capisce anche, e soprattutto, dalla reazione alla fine del dibattito: applausi di approvazione da una parte dell’emiciclo, sonori fischi dall’altra.

Uno dei gruppi politici più critici è il Partito popolare europeo, di cui il partito Fidesz di Viktor Orbán faceva parte fino a marzo 2021. “La corruzione sta uccidendo il futuro dell’Ungheria. Lei, signor Orbán, rappresenta il passato”, ha detto nel suo intervento il leader del Ppe, Manfred Weber.

Molto duro anche Peter Magyar, capo del principale partito di opposizione in Ungheria, Tisza, in un’intervista a Euronews.

Le accuse da sinistra

Diversi europarlamentari dei partiti di sinistra hanno contestato Orbán fuori dall’emiciclo, alcuni persino boicottando il suo discorso iniziale ed entrando solo per il dibattito. Altri, del gruppo della Sinistra, hanno intonato “Bella ciao” in risposta al primo ministro ungherese.

Li preoccupa soprattutto il rispetto di democrazia e Stato di diritto in Ungheria: molti di loro, durante il proprio intervento in aula, hanno definito Orbán “autocrate”. L’esponente tedesco dei Verdi/AleDaniel Freund lo ha chiamato “dittatore”.

“Orbán ha trasformato l’Ungheria nel Paese più corrotto dell’Unione europea, oggi in fondo a molte classifiche sulla democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto delle libertà civili”. Critiche anche sulla politica estera del primo ministro ungherese, che per sei mesi rappresenta l’Unione in quanto presidente di turno del Consiglio Ue.

“Abbiamo già visto Orbán andare a trovare Putin, Xi e Donald Trump. E temo che non abbiamo ancora visto tutto. Ci aspettano elezioni estremamente incerte negli Stati Uniti. Cosa succederebbe quindi se Orbán, a nome dell’Unione europea, cercasse di interferire?”.

L’eurodeputata francese del gruppo Renew EuropeFabienne Keller attacca invece la politica migratoria sostenuta dal primo ministro ungherese, che invoca maggiori controlli alle frontiere e la realizzazione di hotspot fuori dal territorio dell’Ue per verificare il diritto all’asilo delle persone migranti prima di farle entrare nei Paesi dell’Unione.

“La soluzione europea sarebbe l’implementazione del Patto migrazioni e asilo, su cui l’Ungheria ha votato contro. Orbán propone soluzioni impraticabili, ma devo ammettere che le idee dell’estrema destra si stanno diffondendo in Europa”.

Le reazioni da destra: ammirazione (con qualche riserva)

Proprio l’approccio sulla questione migratoria, oltre che la difesa della famiglia tradizionale, sono valsi al primo ministro ungherese il plauso del suo gruppo politico, i Patrioti per l’Europa, ma anche delle altre due compagini di destra radicale, i Conservatori e riformisti europei e Europa delle nazioni sovrane.

“È stato un intervento molto concreto e centrato sulle urgenze che una presidenza di turno dovrebbe affrontare: costi dell’energia, competitività delle imprese europee protezione dei confini”, dice a Euronews l’eurodeputato della Lega Paolo Borchia. Lo spagnolo di Vox Jorge Buxadé Villalba ha definito “un soffio di aria fresca” il discorso di Orbán, criticando il resto dei leader dei Paesi e delle istituzioni dell’Unione.

Dal gruppo dei Conservatori tanti attestati di stima ma anche qualche presa di distanza su uno dei temi più controversi: la guerra in Ucraina. Orbán non ne ha parlato nel suo discorso di apertura, ma aveva già chiarito in una conferenza stampa alla vigilia del suo intervento il proprio obiettivo: ottenere un cessate il fuoco tra Ucraina e Russia tramite il dialogo con Mosca.

Una posizione che non piace al co-presidente di Ecr Nicola Procaccini: “Oltre ai nemici interni, l’Ue ha un nemico esterno molto pericoloso: l’alleanza tra Russia, Cina, Iran e Corea del Nord”.

Il lungo cammino verso l’Oscar di Vermiglio è partito da Bologna (rivistastudio.com)

di Maria Luisa Tagariello

Cinema

Maura Delpero ci ha vissuto e studiato, e qui ha conosciuto Francesca Andreoli, che assieme a lei ha scommesso tutto su questo film.

Proprio con Andreoli abbiamo parlato della difficilissima produzione e del sorprendente successo di Vermiglio.

Il film è ambientato nel corso di quattro stagioni, tra la guerra e la pace, un momento cerniera che mi ha permesso di raccontare il passaggio tra l’antico e il moderno, il paese e la città, il comunitario e l’individuale. I personaggi sono in bilico tra questi due mondi, in particolare le ragazze: sono completamente dentro il loro tempo, con le leggi del patriarcato, e allo stesso tempo fremono, hanno già un’ansia di autodeterminazione».

A spiegarlo è Maura Delpero alla proiezione bolognese di Vermiglio, il film premiato a Venezia con il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria.

A Bologna la regista, originaria di Bolzano, ha studiato, cibandosi dei film della Cineteca, mentre bolognese doc è Francesca Andreoli, produttrice e socia fondatrice – insieme e Leonardo Guerra Seràgnoli, a Delpero stessa e a Santiago Fondevila Sancet – dell’esordiente Cinedora, che sul film ha scommesso. Nella sala è palpabile il calore di amici e parenti venuti a dare il proprio sostegno. Sarà di pochi giorni dopo la notizia che Vermiglio è stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar.

«Sono tutti personaggi in bilico. Le donne del resto lo sono sempre – mi chiedo se in futuro le nostre nipoti potranno dire di non esserlo. Noi lo siamo, le protagoniste di Vermiglio lo erano ancora di più», continua Delpero, anche lei, come tutte, in bilico tra lavoro e famiglia (non è passato inosservato, nel discorso della regista a Venezia, l’augurio per una società meno discriminatoria nei confronti delle donne), tra talento e giusto riconoscimento.

E se è vero, come è vero, che le registe sono ancora poche, e l’Italia si colloca persino sotto la media europea per numero di film diretti da donne, ecco allora che il risultato ottenuto da Vermiglio ha qualcosa di eccezionale.

Un’ eccezionalità a cui non è del tutto nuova Francesca Andreoli che con Tempesta, casa di produzione bolognese, si è occupata di altri esordi al femminile, tra cui Le meraviglie (2014) e Lazzaro felice (2018) della oggi celebratissima Alice Rohrwacher.

A Tempesta, fondata nel 2009 da Carlo Cresto-Dina con un focus particolare su esordi e nuovi talenti, Andreoli era approdata dopo undici anni alla Cineteca, tra i più importanti centri di conservazione e restauro cinematografico cui fanno capo quattro sale: la biblioteca di cinema Renzo Renzi, il Fondo Pier Paolo Pasolini, la Film Commission del capoluogo emiliano, oltre a festival e manifestazioni che attirano in città i nomi più importanti del cinema internazionale (basti pensare che Wes Anderson l’ha paragonata al Louvre e al Prado per la ricchezza di offerta).

«Ho conosciuto Maura da spettatrice», mi racconta Andreoli, che raggiungo al telefono mentre è in partenza per la Corea dove Vermiglio verrà presentato al Busan International Film Festival. «Lavoravo alla selezione per Visioni Italiane [concorso nazionale per corto, mediometraggi e documentari della Cineteca, ndr] quando ho visto i suoi primi documentari. Erano bellissimi. Già si potevano intuire uno sguardo poetico e una costruzione narrativa raffinata, capace di trasmettere emozioni.

Ci siamo conosciute, e nel corso degli anni siamo rimaste in contatto, ci sentivamo, ci aggiornavamo sui rispettivi percorsi e, quando riuscivamo, ci incontravamo. Con Vermiglio ci è venuta l’idea un po’ folle di aprire una società insieme, coinvolgendo anche Leonardo e il marito di Maura, Santiago. La nascita di Cinedora è strettamente legata a questo film e al progetto della sua realizzazione».

Follia è una parola che ricorre spesso anche nelle interviste di Delpero che, nel discorso di ringraziamento a Venezia, non ha dimenticato Cinedora, «nuova casa di produzione italiana che ha avuto la matta idea di iniziare con un film difficilissimo, con i bebé, i bambini, gli animali, la neve, il dialetto e chi più ne ha più ne metta».

Se a questo si aggiunge una regista donna (in un mondo, quello del cinema, ancora dominato dagli uomini), un’opera seconda, un cast di esordienti e attori non professionisti – con l’eccezione del superbo Tommaso Ragno nei panni del padre della numerosa famiglia Graziadei – si comprende ancora meglio la scelta della parola follia.

«Questo è forse il film a cui ho lavorato più intensamente, per via della costruzione produttiva complessa e ambiziosa», ammette Andreoli, «Io la definisco una lucida follia», una scommessa, certo, ma fatta su una valida sceneggiatura («bellissima già alla sua prima stesura, quasi un romanzo»), e su un’autrice che, con l’opera prima Maternal, aveva già ottenuto importanti riconoscimenti a Locarno e a Cannes.

«Maura Delpero era un talento che andava solo coltivato. Le servivano gli strumenti per esprimersi al meglio. Come tutti gli autori, aveva bisogno di un impianto produttivo che la sostenesse e la guidasse, di un budget che le permettesse di avere tutto ciò che le occorreva per la realizzazione del film in fase di riprese. E soprattutto bisognava darle tempo: per pensare, per scrivere, per costruire quel mondo che adesso vediamo sullo schermo. Questo tempo noi glielo abbiamo concesso».

Il tempo, quasi infinito, necessario alla ricerca delle location e degli attori, alla loro preparazione – un anno di prove con la coach Alessia Barela – «perché quei ragazzi incarnavano perfettamente i volti, i movimenti, la presenza che Maura ricercava, ma non erano preparati. Dovevano superare la timidezza ed entrare in confidenza tra di loro per interpretare con naturalezza una famiglia».

E poi il tempo meteorologico, che ha rappresentato una sfida ulteriore: «Il film è stato girato in due momenti: per avere tutte e quattro le stagioni della sceneggiatura abbiamo dovuto filmare la primavera e l’estate, fermarci, aspettare l’inverno, e riprendere. Volevamo la neve, per non dover ricorrere a costosissimi effetti speciali, e la neve è arrivata, talmente tanta che, a quel punto, abbiamo dovuto affrontare problemi logistici e organizzativi».

Follia, dunque. Sogno che si avvera. Andreoli parla anche di «miracolo» quando ripensa al Leone d’argento e alla possibile candidatura agli Oscar. Ma se il miracolo ha in sé la casualità e la fortuna, quest’opera collettiva che è Vermiglio è invece frutto della determinazione e dell’impegno di tanti. Lavorando sodo, insomma, si ottengono i risultati.

«Non è sempre così, purtroppo», commenta. «Con il cinema d’autore non è scontato intercettare il gusto e l’attenzione del pubblico», attenzione che al momento il pubblico sembra disposto a concedere: distribuito da Lucky Red in 100 sale italiane, Vermiglio è in cima al box office.

Dopo Venezia il film parteciperà, accompagnato dai suoi produttori, ad altri festival in giro per il mondo (dal già citato Busan Film Festival in Corea del Sud a Valladolid, da Montpellier a New York) dove testerà la risposta internazionale, e comincerà la road map verso gli Oscar: l’annuncio della shortlist da parte dell’Academy è previsto per il 17 dicembre 2024, mentre le nomination saranno comunicate il 17 gennaio 2025. Infine il 2 marzo 2025 avrà luogo la cerimonia degli Academy Awards a Los Angeles.

«La strada è ancora lunga. Abbiamo fatto un primo passo importante, e ora andiamo avanti. Come ha detto Maura in conferenza stampa, dobbiamo fare come gli alpinisti che, mentre scalano le montagne, guardano soltanto il chiodo che hanno piantato, non guardano né su né giù, per evitare lo shock dell’abisso. Quindi piantiamo il chiodo e concentriamo lo sguardo su quello, piantiamo il successivo e vediamo se ci porta un po’ più su».

Kris Kristofferson, ritratto breve di un attivista analogico (rollingstone.it)

di

L’alternativo è il tuo papà

 (Kris Kristofferson e Martin Sheen in una manifestazione del 1987 contro un test nucleare Foto: Steve Northup/Getty Images)

Ha pagato per le sue scelte, ma ha tirato dritto per la sua strada. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità». Elogio di uno spirito libero

Kris Kristofferson doveva sentirsi a casa in quel contesto. Era il 1995 e apriva un concerto di Johnny Cash sponsorizzato da una radio country in un posto fuori Philadelphia. È cambiato tutto quando ha dedicato un pezzo a Mumia Abu-Jamal, il giornalista e attivista ed ex membro delle Pantere Nere condannato a morte nel 1981 per l’omicidio di un poliziotto proprio a Philadelphia.

La gente ha iniziato a fischiare pungolata dai paragoni fatti da Kristofferson: Abu-Jamal come Martin Luther King Jr., come John F. Kennedy, come Malcolm X, come Gandhi. Il Philadelphia Daily News lo definì «un altro idiota hollywoodiano male informato» e la radio country che sponsorizzava il concerto smise di passare la sua musica (non che prima lo suonassero granché).

Non era né la prima, né l’ultima volta che Kristofferson esponeva con chiarezza le sue idee sulla politica o su altre questioni. Dopo la sua morte, avvenuta lo scorso 28 settembre a 88 anni d’età, è stato ricordato per lo più come autore di canzoni e come attore, ma è stato anche un attivista in prima linea e spesso coinvolto in cause controverse, e questo per oltre mezzo secolo. Questo lato lo rendeva diverso dai colleghi che bazzicavano e bazzicano ancora il country e il pop.

Cresciuto a Brownsville, Texas, aveva un legame diciamo così innato coi lavoratori ispanici per via della sua tata Juanita Cantu. «Parlavo spagnolo prima ancora di parlare inglese», ha detto nel 1982. «Sentivo vicini i lavoratori agricoli e i loro problemi».

Tutto questo ha portato anni dopo alle prime prese di posizione pubbliche, come quando ha sostenuto il sindacato United Farm Workers, il cui co-fondatore Cesar Chavez s’è battuto per migliorare le condizioni di lavoro e l’assistenza sanitaria dei lavoratori del settore agricolo. Per Kristofferson era «una delle persone più ispirate del pianeta».

Lavorare al suo fianco, ad esempio per spingere la Proposition 14 volta a garantire l’accesso dei sindacalisti ai lavoratori agricoli sul posto di lavoro, gli fece capire quant’era dura la lotta che c’era da affrontare. «I ragazzi del college di oggi mi riportano indietro agli anni ’50», diceva nel 1978. «Dicono: “Non permetterò che tolgano il cibo dalla bocca del mio bambino”. Ma sono loro che ti mettono quel cibo in tavola… Che delusione, non sapevo ci fossero così tanti piccoli repubblicani in circolazione».

Sono poi arrivate lotte ben più controverse. Ha appoggiato la causa di Leonard Peltier, il nativo americano condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI che cercavano l’autore di una rapina, che non era Peltier, il quale si è sempre detto innocente. Kristofferson c’era al concerto per Peltier del 1987 al fianco di Jackson Browne, Willie Nelson e Joni Mitchell. Salito sul palco, disse che l’uomo era stato preso di mira per il suo attivismo, beccandosi una ramanzina dal procuratore federale che seguiva il caso.

Due radio della California meridionale vietarono le canzoni sue e di Nelson. «Passare i suoi dischi significherebbe mettere in dubbio la reputazione degli agenti e non sarebbe giusto», disse il direttore di una delle stazioni. Secondo Kristofferson, la sua amicizia con Vanessa Redgrave e le controverse prese di posizione pro Palestina gli sono costate degli ingaggi negli anni ’70.

Tutto ciò non ha avuto alcun impatto su Kristofferson. Anzi, lo ha spinto a battersi per altre cause. A fine anni ’80 ha partecipato a una manifestazione pro Irlanda e anti Inghilterra a San Francisco. Nel 1987 ha protestato con Martin Sheen contro un test nucleare condotto dal governo degli Stati Uniti.

Nel 1990 ha pubblicato Third World Warrior, un album politico che ha tolto il sonno ai pr della casa discografica. Durante il concerto che aprì per Cash gli dissero che i poliziotti che erano tra il pubblico erano infuriati per via dei commenti su Abu-Jamal. Non fece una piega. Chiese a Cash che ne pensasse, ricevendo come risposta un «non devi scusarti di niente» e un invito a cantare con lui.

E chi può scordare le immagini di Kristofferson che consola Sinéad O’Connor, rischiando di diventare a sua volta oggetto dell’ira dei fan, quando la cantante venne fischiata al concerto per il 30esimo anniversario di Bob Dylan nel 1992? «Non farti abbattere da quei bastardi», le ha sussurrato all’orecchio. «Fischiare quella ragazza così coraggiosa m’è sembrato sbagliato», ha detto poi.

Negli anni ’10 è rimasto fedele alla linea, si è esibito a favore dell’United Farm Workers con Los Lobos e Ozomatli e per altre cause care ai lavoratori agricoli. «Sono stato un radicale per un sacco di tempo», ha detto a Esquire. «Venderei di più se fossi un redneck di destra, ma faccio questo mestiere per dire la verità».

Quanti sono oggi i musicisti country che si schierano fermamente e pubblicamente a sostegno di cause che potrebbero costare loro metà del pubblico che hanno? A Kristofferson battagliare per le sue convinzioni non dispiaceva, anzi, tutt’altro. “Combatterò e morirò per la libertà”, cantava in Third World Warrior, “contro un’aquila o un orso”.

Da Rolling Stone US.