Tutti pazzi per Alessandro Barbero. Il talento del luogo comune (ilfoglio.it)

di Andrea Minuz

Bastano i social e la fascinazione per il 
Medioevo a spiegarne il successo? 

Forse no: c’entra l’archetipo del professore comunista. E allora ecco le dirette con Dibba e l’invettiva sul “capitalismo dilagante”

Guarda che Barbero è bravo, un talento precoce, uno studioso di Medioevo come pochi”, mi dicono alcuni colleghi allarmati, saputo che stavo per fare questo pezzo. E allora diciamolo subito: Barbero è bravo.

Bravo come storico del Medioevo, bravo come divulgatore. Barbero diverte, intrattiene, incanta platee diversissime su e giù per la penisola: da Floris al Petruzzelli, da Sarzana al San Carlo, dal Salone di Torino al Leoncavallo. Barbero è un format (“In viaggio con Barbero”), Barbero è un podcast (“Chiedilo a Barbero”), Barbero è un canale YouTube (“La storia siamo noi”).

Barbero è una diretta social con Dibba per lanciare “Scomode verità. Dalla guerra in Ucraina al massacro di Gaza”, Barbero è una rockstar medievista, tipo Jethro Tull, polistrumentista, eclettico, carismatico, l’occhietto spiritato, come Ian Anderson. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi come altri prima di noi sul fenomeno Barbero. Sul perché e per come si è generato.

Quali corde ha saputo toccare. Su cosa insomma spinge a farsi settanta metri di fila a Torino per il firmacopie di Barbero come uno Zerocalcare qualsiasi, o a dannarsi per trovare posto a un suo spettacolo (che i suoi fan non chiamerebbero mai “spettacolo”, semmai conferenza, intervento, lectio).

Ho capito l’entità del fenomeno Barbero un po’ di tempo fa, quando persone davvero molto estranee a libri e festival culturali hanno cominciato a dirmi “ma tu che conosci questo e quello non è che puoi rimediare un biglietto per Barbero che è tutto esaurito”.

Ed erano disposte a farsi parecchi chilometri, a pagarlo anche il doppio, a intrufolarsi magari di nascosto, qualsiasi cosa insomma pur di godersi Alessandro Barbero in “Cosa pensava la donna nel Medioevo: Caterina da Siena”.

A Napoli, invece, orde di ragazzini in coda per sentire Barbero su Federico II, “tra storia e leggenda”. A quel punto non si poteva più restare indifferenti. Bisognava capire.

Diciamolo subito: Barbero è bravo. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi sul fenomeno che spinge a farsi 70 metri di fila per il firmacopie

Prima ipotesi, la più ovvia: il barberismo è figlio dei social e d’una frettolosa smania di sapere modellata su podcast e tutorial. Caricarsi a pallettoni con Barbero per poi spuntarla su Facebook in una furibonda disputa con @Eraclito75 sulla battaglia di Lepanto e le sue conseguenze sul nostro assetto geopolitico (Lepanto: un primo allargamento della Nato?).

Qui Barbero si gioca anche una lunga militanza da “wargamer”, in gergo un “grognard”, cioè un veterano dei giochi di simulazione di strategia militare, con l’aria vagamente ossessivo-maniacale di chi da giovane è stato un piccolo Mozart del “Risiko!”. Questo dei social è un punto decisivo per due motivi.  

Primo perché soprattutto su Facebook, il social dei vecchi, la storia con la S maiuscola è rinata come eterna contesa e miniera di dispute, controversie, dibattimenti tra falangi di nerd che si danno battaglia cercando su Google una citazione a effetto da Marc Bloch per fare il pieno di like e vincere la Palma d’Oro del “saperla lunghissima”, apice di un pomeriggio solitario davanti a uno schermo con la schiuma alla bocca.

Poi perché a differenza di altri grandi divulgatori (Sgarbi, Daverio, Piero e Alberto Angela), Barbero non viene dalla tv. Barbero è una web-star. Sì, d’accordo, non ha i social e nasce come costola di “Superquark”, ospite fisso di Piero Angela con pillole di “microstoria” in cui volendo, retrospettivamente, si può anche vedere un passaggio del testimone tra torinesi colti e raffinati.

Ma non è sulla tv che si è costruito il fenomeno. Il barberismo nasce col passaparola, rimbalzandosi tra gruppi whatsapp e pagine Facebook video di lezioni e conferenze tenute in giro per l’Italia. Video registrati dai fan, quindi bassa qualità, inquadratura fissa rubacchiata col cellulare, audio così-così.

Una low-definition che restituiva il fascino di una comunità catacombale per pochi adepti. Nel frattempo, diventavano milioni di visualizzazioni. Però poche settimane fa, a una lezione-conferenza sul delitto Matteotti era vietato riprendere Barbero col telefonino. Al Teatro Sociale di Rovigo c’era una troupe, regista, telecamere, tutto (costo del biglietto: 42 euro). Forse è il momento di un film, una docufiction, una serie. Chissà.

Citazioni che servono a vincere la Palma d’oro del “saperla lunga”, apice di un pomeriggio solitario davanti a uno schermo con la schiuma alla bocca

Altra ipotesi: la fascinazione per il Medioevo, che acchiappa sempre. Perché podcast e tutorial li fanno tutti, ma il Medioevo solletica fantasie sfrenate, accende l’immaginazione, vira sempre un po’ sul fantasy, e da Carlo Magno a Tolkien e Atreju c’è, volendo, tutta un’immaginifica continuità.

Miscelato nel modo giusto, il Medioevo si vende sempre bene, come aveva capito meglio di tutti Umberto Eco. Qui Barbero può contare su solidissime e poderose ricerche, ma anche su cose minori e svolazzanti, tipo “La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali”, raccolta di poemetti erotici curata da Barbero contro i soliti cliché sul medioevo buio e tetro, quando invece si trombava alla grande, come sa bene chi si è formato non su Le Goff e Braudel ma su “Quel gran pezzo dell’Ubalda”, “Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno”, “Le notti peccaminose di Pietro l’Aretino” o l’immortale “I Racconti di Viterbury”.

“Gli italiani pagano il biglietto per visitare il tempio greco o la galleria dei busti dei filosofi”, diceva sempre Eco, “ma nel duomo di Milano, o nella chiesetta del Mille vanno ancora ad ascoltare la messa, eleggono il nuovo sindaco nel palazzo comunale del XII secolo”.

Questo eterno Medioevo italiano del palio, dei borghi, delle contrade, dei chiostri, dei monasteri, delle abbazie, il Medioevo di San Francesco e Frate Indovino, di Guido D’Arezzo e Brancaleone da Norcia, delle feste medievali, del carnevale medievale, delle rievocazioni in costume, dei prodotti trappisti e di armature, alabarde, balestre in vendita all’Autogrill, insomma tutto questo magma sorvegliato dal sommo Poeta è un altro punto a favore per Barbero. Medievista è del resto il suo fandom più idolatrante.

Pagine, tributi, gruppi di ascolto, “Primo Vassallo”, “I vassalli di Barbero”, la community “Feudalesimo e Libertà”, il gruppo musicale BardoMagno, una specie di versione gothic-metal dei Modena City Ramblers, che raduna “sotto lo spirito del Sacro Romano Impero” il meglio dei talenti musicali italiani (brano di culto “Magister Barbero”: “scaglia la sua temibile spranga / contro chi la historia infanga / Barbero Barbero / illuminaci il sentiero”). Social più Medioevo suona bene. Solo che Barbero non si limita al Medioevo.

Barbero spiega cose, eventi, personaggi, epoche, andando ormai a spasso nel tempo: la disfatta di Caporetto, la parabola delle Br, Plutarco, Lenin, il crack di Wall Street, Garibaldi, i vichinghi, Nilde Iotti, Matteotti, Cavour, il sacco di Roma, il 25 aprile.

Un barberiano della prima ora (“quando ancora non lo conosceva nessuno”) mi dice che il segreto di Barbero è che parla un linguaggio accessibile a tutti, senza tecnicismi, “e poi fa continui collegamenti col presente”.

E anche qui, d’accordo. Va bene. Ma non può essere solo questo. In tanti parlano un linguaggio accessibile a tutti, pure troppo. I collegamenti col presente sarebbero poi i ferri del mestiere di qualsiasi professore di storia minimamente non votato a martoriare la classe.

Certo, Barbero qui sa essere davvero molto televisivo. In una conferenza a Milano parla di San Francesco come di “un uomo straordinario ma anche molto scomodo”. Discorrendo magari dei longobardi, se ne esce con cose come “e a un certo punto che si fa? Signori, siamo in Italia, si mette su una commissione d’inchiesta!”, e tutti giù a ridere. “Mai invadere la Russia” è un altro suo refrain che strappa sempre qualche sghignazzata al pubblico. Cose così.

C’è un talento, per carità. Il primo ad accorgersene fu Aldo Busi. Letto il manoscritto che altri avevano respinto o ignorato (tra cui Gesualdo Bufalino), Busi pubblicò il primo romanzo di Barbero con Mondadori, “Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo” (il titolo era di Busi). Seicentocinquanta pagine fitte di un finto diario di un ambasciatore in viaggio nella Prussia di Federico Guglielmo, tra incontri con Goethe e Fichte, abbordaggi di marchesine, principesse, contadine, pomeriggi piovosi a Friburgo.

“Scritto con una pignoleria maniacale”, disse l’editor di Mondadori.

Con quel primo romanzo Barbero vince lo Strega. Era il 1996. Aveva trentasette anni. Nelle recensioni si scomodava “Barry Lyndon”, si parlava di “scene di battaglia che sembravano uscite da un quadro”, di una scrittura “allegra con brio che ha poco di storico”. Nelle foto di rito, un giovanissimo Barbero ricordava un po’ Andy Warhol, versione sabauda, con capigliatura da ragioniere.

Però nessuno degli altri suoi romanzi (nove sin qui) ebbe poi il successo di “Mr. Pyle”. Il “barberismo” non è un fatto di libri, ma di video. E’ presenza scenica, performance, equilibrismi, giocolerie da palcoscenico. Guardo e riguardo le conferenze su YouTube. C’è in effetti un pathos. Barbero non spiega, ma rivive, interpreta, va in trance. E’ letteralmente posseduto dal passato.

E poi un senso dello show ma senza strafare, il corpo che si agita, un po’ di storytelling ma ben dosato, senza effetti speciali, stregonerie, video, power-point, ma con piglio professorale, austero, sabaudo. Il fatto è che in un paese abbarbicato a un’idea sepolcrale di cultura, con pochissimi laureati, e la comprensibile convinzione che la lezione universitaria vada modellata sulla messa, il primo che mette due battute in fila e soffia un po’ di alito vitale sui morti del passato diventa Robin Williams in “L’attimo fuggente”.

E il nostro Robin Williams, c’è poco da fare, dev’essere comunista. Perché il talento affabulatorio, il pathos, il coinvolgimento, il Medioevo va bene tutto. Ma in Barbero c’è il format italiano più vecchio e rassicurante di sempre, come una prima serata su Rai 1 con Carlo Conti: il professore di storia comunista. Un archetipo. Una maschera.

Un personaggio fisso della nostra eterna commedia. Vedo Barbero e mi si apre così uno squarcio fantasy e distopico su come sarebbe stata una Leopolda marxista-medievista, radicata nella base del partito, con Gramsci al posto di Baricco, il cappotto di Togliatti invece dell’iPhone, la scrivania di Berlinguer sul palco, ma senza quei laptop messi in bella vista sopra, il mito della “sezione” e non del “garage”, l’attrazione ancora forte e struggente per la Grande Madre Russia al posto d’una Silicon Valley vista col binocolo da Firenze.

C’è in Barbero la fierezza di aver avuto la tessera del Pci “firmata da Berlinguer”. C’è la certezza di essere appartenuto alla “gente migliore del paese”, ma sfiorato dal dubbio di aver tifato per la parte sbagliata, e vabbè. Ma cos’è il comunismo per Barbero? Il trionfo del proletariato? L’abolizione della proprietà privata? Il comunismo come vago sentimento professorale e borghese di “insoddisfazione per le cose come stanno”?

In un paese abbarbicato a un’idea sepolcrale di cultura, il primo che mette due battute in fila diventa Robin Williams in “L’attimo fuggente”

Quel bisogno emotivo di credere in un’alternativa allo status quo, anche quando l’alternativa si è rivelata sempre, sistematicamente, di gran lunga peggiore dello status quo? Non si sa. Nel frattempo Barbero fa le dirette Anpi per separare il comunismo buono da quello cattivo, spiega che Stalin andando al potere si è “dimenticato di cosa vuol dire essere comunista” (che è la versione Barbero del refrain da bar “ma quello non era vero comunismo!”).

Barbero con Angelo D’Orsi, Barbero a braccio sul “capitalismo dilagante” e a braccetto con Montanari sulle Foibe; Barbero che celebra il 25 aprile con Marco Rizzo, festa dell’antifascismo e dell’“anticapitalismo”, e Barbero fianco a fianco con Dibba che lo guarda sbattendo le ciglia mentre dice “nessuno storico ricorderà le vittime palestinesi perché non sono morti occidentali”, quando tanto per cominciare, a una settimana dal 7 ottobre, erano semmai spariti morti e ostaggi israeliani, ma questi son dettagli, lasciamo perdere.

Barbero è un usato sicuro, garantito, chiavi in mano.

Radicato nel territorio. Cauto e diffidente verso le giocolerie harvardiane, le nebulose foucaultiane, le supercazzole dei pischelli ProPal, “decostruire-il-soggetto-coloniale-bianco-binario-occidentale”, eccetera. Troppo svelto per sprofondare in queste supercazzole. Siamo semmai a Togliatti. Siamo a Frattocchie. All’egemonia che si costruisce e difende con lo studio severo della Storia, la disciplina più importante, l’occhio puntato sulla comprensione del mondo.

E al posto del partito, di “Rinascita” e Botteghe Oscure a mettergli la medaglia ci sono oggi i social, i Festival del libro e della mente, le professoresse democratiche. Più che l’ideologia contano i segni: capigliatura, giacche, cravatte, occhiali, tutto quanto in Barbero celebra e conferma cliché e luoghi comuni sui professori di Lettere che da noi non possono che essere fatti così. Barbero ci mette più brio, talento, eclettismo. Parte dal Medioevo e arriva agli studenti di Pisa caricati dalla polizia e ci infila anche un po’ di Assange perché le democrazie zittiscono il dissenso. Siamo peggio dell’Iran.

“In una società complessa come la nostra”, dice, “sarebbe triste il giorno in cui gli studenti non protestassero più”. Chi non può dirsi d’accordo con una frase del genere? E sarebbe noioso, pedante, fuori luogo aggiungere che la cosa più critica e protestataria che può fare oggi uno studente è forse sfoderare, tra mille bandiere palestinesi che sventolano in Ateneo, un timido striscione che invochi la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas. Ma del resto, chi da giovane voleva ritrovarsi parte di una minoranza infima e isolata?

Cauto e diffidente verso le supercazzole decostruzioniste, è usato sicuro, radicato nel territorio. Più che l’ideologia contano i segni

Conte non vuole scegliere tra Trump e i democratici, ma non è una novità (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Movimento 5 Stelle

Da tempo il leader del Movimento 5 Stelle non si espone su chi preferisce come prossimo presidente degli Stati Uniti, a detta sua per «tutelare l’interesse nazionale»

Nelle scorse ore vari politici, tra cui il presidente del Partito Democratico Stefano Bonaccini e il leader di Italia Viva Matteo Renzi, hanno criticato alcune dichiarazioni fatte dal presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte in un’intervista con la Repubblica del 26 agosto.

In breve, Conte non vuole dire chi preferisce come prossimo presidente degli Stati Uniti tra la democratica Kamala Harris e il repubblicano Donald Trump. Questo atteggiamento del presidente del Movimento 5 Stelle è stato criticato da più parti, ma non è una novità.

Conte tra Harris e Trump

Nell’intervista con la Repubblica, alla domanda se spera nella vittoria di Harris o di Trump, Conte non ha preso posizione. «Giudicheremo la prossima presidenza sui fatti. Alla convention democratica sono emersi temi interessanti e in linea con una forza progressista, come il progetto di eliminare i debiti legati a spese mediche, la volontà di mettere un tetto ai prezzi dei generi alimentari e la previsione di sussidi per l’acquisto della prima casa», ha detto il presidente del Movimento 5 Stelle.

Ma a una seconda richiesta di prendere posizione, Conte ha replicato: «Noi, come forza alternativa a Giorgia Meloni per il governo del Paese, dovremo dialogare con qualunque presidente sarà eletto dai cittadini americani».

Secondo Conte, poi, una vittoria di Trump non rappresenterebbe un «rischio per la democrazia». «La libera scelta dei cittadini non è mai una minaccia per la democrazia», ha aggiunto l’ex presidente del Consiglio, che ha ribadito comunque di condannare l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, per cui è stato incriminato lo stesso Trump.

Non è la prima volta che il presidente del Movimento 5 Stelle decide di non dire quale preferisce tra i due candidati alle presidenziali statunitensi. Poche settimane fa, per esempio,  è accaduta la stessa cosa. Il 3 agosto, in un’intervista con il Corriere della Sera, alla domanda se si schiera con Harris o Trump, Conte ha risposto: «Io penso che sia se vince Trump sia se vince Harris l’Italia dovrà portare avanti il suo tradizionale dialogo con gli Stati Uniti».

Lo stesso giorno, in un’intervista con il Fatto Quotidiano, il presidente del Movimento 5 Stelle ha ribadito la stessa posizione alla domanda se «tifa» per Trump: «Ho già risposto più volte su questo: ripeto che, con qualunque candidato vinca, l’Italia dovrà avere buoni rapporti, perché parliamo di nostri tradizionali alleati».

I precedenti con Biden

L’ex presidente del Consiglio ha fatto dichiarazioni simili anche nei mesi precedenti, quando il candidato democratico alle elezioni presidenziali sembrava sarebbe dovuto essere il presidente uscente Joe Biden, che successivamente ha ritirato la propria candidatura.

«Io non mi permetto di fare nessun endorsement nella campagna elettorale americana, primo perché non è nel mio costume fare endorsement nelle elezioni altrui», ha dichiarato Conte il 3 giugno, ospite a Piazzapulita su La7. «Io dico soltanto questo, e lo ripeto, che chiunque sarà il presidente degli Stati Uniti, il presidente del Consiglio italiano dovrà averci a che fare e dovrà cercare di avere buoni rapporti con un tradizionale alleato per tutelare l’interesse nazionale».

Il 7 marzo, ospite a Otto e mezzo su La7, il presidente del Movimento 5 Stelle ha respinto (min. -10:00) le accuse di chi sostiene che il suo posizionamento politico verso Trump sia ambiguo. «Io non sono ambiguo – ha dichiarato Conte – io sono chiarissimo con la mia comunità e con i miei telespettatori».
«Tra Trump e Biden c’è una tifoseria. Per quanto riguarda Biden è chiaro che è di area progressista: per esempio sulle politiche del lavoro e sulle politiche interne è sicuramente vicino all’area progressista e alle nostre affinità», ha detto l’ex presidente del Movimento 5 Stelle. «Per quanto riguarda la politica estera io lo dico molto francamente: Biden non ci lascia assolutamente soddisfatti. Per esempio per quanto riguarda la strategia militare perseguita in Ucraina, e crediamo che abbia sbagliato anche a Gaza».
Conte ha aggiunto che «tra Biden e Trump ci predisponiamo a lavorare con un nostro tradizionale alleato e a tutelare l’interesse nazionale».
Il 29 gennaio, ospite a Che tempo che fa su Nove, alla domanda del conduttore Fabio Fazio: «Lei preferisce Trump o Biden?», il presidente del Movimento 5 Stelle ha risposto allo stesso modo: «L’uno o l’altro, se mai mi trovassi a una nuova responsabilità, cercherei di tutelare l’interesse nazionale».
Andando ancora più indietro nel tempo, in vista delle presidenziali statunitensi di novembre 2020, ospite a Otto e mezzo su La7 a gennaio di quell’anno, Conte aveva detto che avrebbe mandato un «in bocca al lupo» a Trump «dati i rapporti di amicizia che abbiamo». «Tra democratici e repubblicani non interferirò, non che io possa interferire e che abbia una qualche influenza», aveva aggiunto l’ex presidente del Consiglio.
Ricordiamo che Conte è stato due volte presidente del Consiglio, dal 1° giugno 2018 al 13 febbraio 2021, un periodo durante cui ha avuto vari incontri istituzionali con Trump, che ha ricoperto la carica di presidente degli Stati Uniti dal 20 gennaio 2017 al 20 gennaio 2021. Ad agosto 2019, durante la crisi di governo che ha poi portato la formazione del secondo governo Conte, Trump si era augurato su Twitter che il leader del Movimento 5 Stelle rimanesse presidente del Consiglio.

Le posizioni degli altri leader

A differenza di Conte, altri leader dei principali partiti italiani hanno detto se preferiscono una vittoria di Harris o di Trump, ma c’è almeno un’altra eccezione.

Il 7 agosto, in un’intervista con il settimanale Chi, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che tra i due candidati «le sue preferenze sono note», lasciando intendere che preferirà una vittoria di Trump. «Tutti sanno che sono presidente dei Conservatori europei [un partito europeo, che ha un gruppo nel Parlamento europeo, ndr], e che tra i partiti esterni all’Europa che aderiscono ai conservatori ci sono anche i repubblicani americani», ha sottolineato la leader di Fratelli d’Italia, aggiungendo che comunque «ha lavorato bene con l’amministrazione democratica di Biden».

Già dalle elezioni statunitensi del 2016 il segretario della Lega Matteo Salvini è stato tra i principali sostenitori di Trump. A sostegno della sua preferenza, in varie occasioni Salvini ha ripetuto che durante le presidenze repubblicane gli Stati Uniti hanno vissuto anni di pace. Questo è falso, come abbiamo spiegato in un altro fact-checking.

Tra i partiti all’opposizione, la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, il segretario di Azione Carlo Calenda e il presidente di Italia Viva  Renzi sostengono la candidatura di Harris contro Trump.

Come anticipato, tra le posizioni dei leader c’è un’eccezione. In varie interviste rilasciate quest’anno, il leader di Forza Italia Antonio Tajani ha preferito non schierarsi apertamente per un candidato alle prossime elezioni presidenziali statunitensi.

Il 23 luglio, in un’intervista con il Mattino, Tajani – che nel governo Meloni ricopre il ruolo di ministro degli Esteri – ha detto di seguire «con attenzione la campagna elettorale» negli Stati Uniti, ma di non voler «interferire in alcun modo con il voto». «Io ho lavorato bene con Biden, con Harris e così con Trump quando venne in visita in Europa ed io ero alla presidenza del Parlamento europeo», ha aggiunto Tajani.

A febbraio, in un’intervista con Il Foglio, il ministro degli Esteri aveva sottolineato comunque che Trump non è mai stato un «punto di riferimento» per Forza Italia, aggiungendo: «Noi siamo amici e alleati degli Stati Uniti indipendentemente da chi sarà domani il presidente».

Cieca obbedienza, negazionismo climatico e distruzione dello Stato di diritto: i video di indottrinamento della destra di Trump (valigiablu.it)

di

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali 
americane, cresce sempre di più il sentire comune 
che il 5 novembre 2024 segnerà il corso della 
politica non solo statunitense ma globale. 

Uno dei temi della campagna elettorale indica tra le poste in palio per quella data qualcosa di molto più grande della presidenza degli Stati Uniti: la concezione stessa di democrazia.

Lo stesso Trump lo ha lasciato intendere senza mezzi termini: “Se votate per me non avrete più bisogno di votare”.

In questo clima è arrivato lo scoop della testata investigativa ProPublica, che ha pubblicato in esclusiva sul proprio canale YouTube ventitré “video di formazione privati” (più di quattordici ore di girato in totale) di Project 2025 (Progetto 2025).  Dietro questo nome si cela il cosiddetto “piano per la transizione presidenziale” steso dalla Heritage Foundation, l’influente think-tank conservatore di matrice cristiana e nazionalista vicino a Trump.

Tra le proposte del Project 2025, troviamo provvedimenti come l’introduzione di molteplici flat-tax per aiutare ricchi e corporazioni, ma anche un incoraggiamento dell’home-schooling e della rimozione dei ragazzi dalla scuola, accusata di fare “propaganda di sinistra” su temi come il razzismo e le problematiche di genere. Troviamo anche proposte per un sistema sanitario che non prevede l’aborto, e che proibisce trattamenti per la transizione di genere riservato alle persone transgender.

Rispetto alle proposte consultabili sul sito di Project 2025, i video pubblicati da ProPublica sono una sorta di tutorial rivolto a giovani repubblicani che mirano a far carriera nel mondo della politica, per favorire “un futuro esecutivo politico conservatore”.

“Gli americani che votano per i conservatori” dice in uno dei video Alexei Woltornist, ex funzionario del Dipartimento della sicurezza interna degli Stati Uniti, “non leggono il New York Times o il Washington Post, anzi se qualcosa compare su quei giornali partono dal presupposto che sia falso. L’unico modo di raggiungere questi elettori consiste nel parlare con i media conservatori”.

Tra i relatori di questi video troviamo figure come Max Primorac, ex vice amministratore dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, o Matthew Spalding, vice presidente dell’Hillsdale College, prestigioso e potente college di orientamento politico conservatore e cristiano, vero e proprio epicentri della nuova cultura conservatrice statunitense dove insegnano molti degli ideologhi di Trump.

Ufficialmente sia Trump che la Heritage Foundation hanno più volte preso le distanze pubblicamente l’uno dall’altra, seppure in modi contraddittori o ambigui. John McEntee e Russell Vought, che hanno ricoperto incarichi alla Casa Bianca durante l’amministrazione Trump, hanno ruoli di alto profilo all’interno di Project 2025.

La CNN ha contato almeno 140 persone coinvolte nel progetto che hanno lavorato nell’amministrazione Trump. Karoline Leavitt, portavoce nazionale per la campagna 2024 di Trump, compare in un video di reclutamento della Heritage Foundation e in uno uno dei video pubblicati da ProPublica.

Il Centre for Climate Reporting, a metà agosto ha pubblicato una videoinchiesta sotto copertura in cui con Russel Vought, uno dei co-autori del documento organizzativo e politico intorno al Project 2025, spiega apertamente come abbia lavorato alle bozze di ordini esecutivi da attuare in caso di un secondo mandato Trump. Tra questi, spiega Vought, alcuni hanno l’obiettivo di prendere il controllo della macchina governativa: “L’80% del mio tempo è dedicato ai piani necessari per prendere il controllo degli apparati burocratici”.

Il contenuto e il tono dei video ottenuti da ProPublica aiutano a capire il perché di questa strategia di negazione. Su Esquire il giornalista Charles P. Pierce ha paragonato i video a “una simulazione ONU dove Scientology ha preso il controllo”. Vengono coperti vari argomenti: da come difendersi dal “linguaggio della sinistra” a come gestire la transizione presidenziale, da come essere “professionali sul luogo di lavoro” a come costruire le coalizioni politiche. Tutto per “favorire l’agenda politica del Presidente”.

Il linguaggio utilizzato è aggressivo e sprezzante: in uno dei video parla Bethany Kozma, ex vice capo di stato maggiore presso l’US Agency for International Development nell’amministrazione Trump, che minimizza la gravità del cambiamento climatico.

Cita Orwell, che i conservatori stanno cercando di reclamare come autore vicino alla propria ideologia, affermando come fatto oggettivo che il cambiamento climatico è parte di un movimento per “controllare il linguaggio e quindi controllare il popolo” orchestrato dai nemici dell’America.

“Se il popolo americano elegge un presidente conservatore, la sua amministrazione dovrà eliminare i riferimenti al cambiamento climatico da ogni parte del mondo”, dice Kozma.

In In un altro video Dan Huff, ex consulente legale dell’Ufficio del personale presidenziale della Casa Bianca sotto Trump, afferma che si dovrà essere pronti ad attuare cambiamenti significativi nel governo americano: “Se non siete d’accordo a contribuire all’attuazione di un drastico cambiamento di rotta perché temete che possa danneggiare le vostre future prospettive di lavoro, o che possa danneggiarvi socialmente, vi capisco”, dice Huff. “È un pericolo reale. Ma per favore: fate un favore a tutti noi e fatevi da parte”.

L’aggressività non è dunque rivolta solo al campo avversario, ma anche contro chi tra i conservatori stessi ha dubbi sulla bontà del progetto.  In diversi video si invitano i futuri giovani carrieristi a essere obbedienti e precisi coi propri capi e a fare riferimento solo ai loro voleri, ignorando per esempio i richiami dei “burocrati di professione”. L’implicazione è chiara: il piano di riforme politiche sarebbe così impopolare da incontrare resistenza persino presso molti legislatori repubblicani.

Un altro punto focale che emerge dai video è che il potere del presidente è incontestabile e sempre favorito. Non solo i ministri, ma anche il governo federale e i suoi lavoratori dovrebbero essere scelti direttamente da lui e dalla sua cerchia – in modo da poter così piazzare solo fedelissimi funzionari dello Stato che avrebbero come valore centrale l’obbedienza alla gerarchia, e non il rispondere all’opinione pubblica del proprio operato, o il mettere in pratica il dettato costituzionale statunitense attuale. Una vera e propria negazione dello Stato di diritto.

In un altro video Mike Howell, Tom Jones, e Michael Ding, dirigenti e membri di organizzazioni di orientamento conservatore allineate con Trump,  spiegano cosa comporta la supervisione governativa, i dettagli delle leggi sui registri pubblici e come gli incaricati politici dovrebbero pensare a cosa mettere o meno per iscritto, evitando le email e la tracciabilità delle comunicazioni in favore di meeting e incontri ravvicinati nei quali poter parlare “senza essere ascoltati”.

Non ci sono ancora commenti da parte di portavoce del Project 2025 su questi video o sul servizio di ProPublica. Mentre per la pubblicazione del video su Russel Vought, la risposta ufficiale data alla CNN dall’organizzazione diretta da quest’ultimo, il Center for Renewing America, è stata “Grazie per aver messo in onda la nostra conversazione perfetta, sottolineando che il nostro lavoro politico è totalmente separato dalla campagna di Trump”.

Un portavoce di quest’ultimo ha invece declinato l’invito a commentare i video, ribadendo che nessun’altra organizzazione è coinvolta nella stesura di provvedimenti per un secondo mandato. Karoline Leavitt, circa la sua presenza in uno dei video di Project 2025, ha dichiarato “l’Agenda 47 è l’unica agenda politica ufficiale della campagna di Donald Trump”.

Diffondendo i ventitré video, ProPublica ha messo ancora più in chiaro quale sia lo scenario politico che una certa cultura conservatrice, fanatica e reazionaria, sta attivamente promuovendo. Da questo punto di vista, i video sono uno sguardo nel futuro che potrebbe aspettarci.

Lo stesso Kevin Roberts, presidente della Heritage Foundation, ne ha dato un assaggio lo scorso luglio, commentando la decisione della Corte Suprema di concedere a Trump l’immunità parziale per le azioni compiute da presidente. “C’è una seconda Rivoluzione Americana in corso”, ha detto Roberts, specificando che “se la sinistra lo permetterà non ci saranno spargimenti di sangue”.

Germania: condannata all’età di 99 anni, era la segretaria di un campo nazista (euronews.com)

Nazismo

Furchern è stata condannata dopo che i giudici si sono detti convinti che fosse a conoscenza e che avesse “deliberatamente appoggiato” le uccisioni di 10.505 prigionieri nel campo di concentramento vicino a Danzica

Un tribunale tedesco ha respinto il ricorso di una donna di 99 anni, Irmgard Furchner, condannata per complicità in oltre 10.000 omicidi durante il periodo nazista.

La quasi centenaria è chiamata a rispondere del suo ruolo di segretaria del comandante delle SS del campo di concentramento di Stutthof, durante la Seconda Guerra Mondiale.

La Corte federale di giustizia ha confermato il verdetto per Furchner, che nel dicembre 2022 era stata condannata a due anni con la condizionale da un tribunale statale di Itzehoe, nel nord della Germania.

La donna è accusata di aver fatto parte dell’apparato che ha gestito il campo vicino a Danzica. La condanna per complicità in omicidio riguarda 10.505 casi e per complicità in tentato omicidio cinque casi.

Gli avvocati: “Era davvero consapevole di quello che accadeva?”

In un’udienza del tribunale federale di Lipsia, il mese scorso, gli avvocati di Furchner hanno messo in dubbio che fosse davvero complice dei crimini commessi dal comandante e da altri alti funzionari del campo e che fosse davvero a conoscenza di ciò che stava accadendo a Stutthof.

Secondo il tribunale, Furchner “sapeva e, attraverso il suo lavoro di stenografa nell’ufficio del comandante del campo di concentramento di Stutthof dal 1° giugno 1943 al 1° aprile 1945, ha deliberatamente sostenuto le uccisioni con le gassazioni e con le condizioni ostili del campo, con il trasporto al campo di sterminio di Auschwitz e con l’invio alle marce della morte alla fine della guerra”.

Durante il procedimento iniziale, i pubblici ministeri hanno affermato che il processo di Furchner potrebbe essere l’ultimo del suo genere.

Tuttavia, un ufficio speciale della procura federale di Ludwigsburg, incaricato di indagare sui crimini di guerra dell’era nazista, ha dichiarato che altri tre casi sono pendenti presso procuratori o tribunali in varie parti della Germania. Poiché tutti gli imputati sono ormai in età avanzata, si pone sempre più spesso il problema dell’idoneità a sostenere un processo.

Complicità nell’omicidio

Il caso Furchner è uno dei tanti che negli ultimi anni si sono basati su un precedente stabilito nel 2011, con la condanna dell’ex operaio dell’Ohio, John Demjanjuk, ritenuto complice di un omicidio in base alle accuse di aver prestato servizio come guardia nel campo di sterminio di Sobibor. Demjanjuk, che ha negato le accuse, è morto prima che il suo appello potesse essere ascoltato.

In precedenza i tribunali tedeschi richiedevano ai pubblici ministeri di giustificare le accuse presentando le prove della partecipazione di una ex guardia a un omicidio specifico, un compito spesso quasi impossibile.

Tuttavia, durante il processo a Demjanjuk a Monaco di Baviera, i pubblici ministeri hanno sostenuto con successo che aiutare un campo a funzionare era sufficiente per condannare una persona come complice di omicidi commessi lì. Un tribunale federale ha poi confermato la condanna del 2015 dell’ex guardia di Auschwitz, Oskar Gröning, sulla base dello stesso ragionamento.

Il campo di Stutthof

Inizialmente punto di raccolta per ebrei e polacchi non ebrei allontanati da Danzica, Stutthof fu in seguito utilizzato come “campo di addestramento al lavoro” dove i prigionieri, principalmente cittadini polacchi e sovietici, venivano mandati a scontare le pene e spesso morivano.

Dalla metà del 1944, decine di migliaia di ebrei provenienti dai ghetti dei Baltici e da Auschwitz riempirono il campo, insieme a migliaia di civili polacchi coinvolti nella brutale repressione nazista dell’insurrezione di Varsavia.

Vi furono rinchiusi anche prigionieri politici, criminali, persone sospettate di attività omosessuali e testimoni di Geova. Più di 60.000 persone furono uccise nel campo.