Salute mentale, depressione e media: le voci assenti di chi è direttamente coinvolto (valigiablu.it)

di Giusi Palomba

A volte ho avuto pensieri suicidi/ E non ne vado 
fiero: 

questi versi tradotti dal francese fanno parte del nuovo singolo di Stromae, artista belga noto per l’intensità dei suoi temi, spesso scomodi e complessi. “Enfer” è la parola scelta per il titolo, di sicuro appropriata a descrivere l’ambiente mentale di chi soffre di depressione: è un inferno, esattamente come la considerazione che normalmente si ha della salute mentale. Qualcosa che brucia, qualcosa di inavvicinabile.

È indicativo che questo inferno sia finito in una canzone. Sembra quasi che negli ultimi anni il racconto della salute mentale abbia perso un po’ dello stigma che le aleggiava intorno.

È un buon segno, ma fino a che punto? E in cosa si sta trasformando questo racconto? È lecito dire che per quanto la consapevolezza culturale o la rappresentazione nei media della sofferenza psichica sia più alta di qualche anno fa, questo non corrisponda sempre a migliori condizioni per le persone che soffrono?

La difficoltà di dare risposte è evidente, oltre che costellata di ostacoli. C’è una considerevole assenza delle voci delle persone direttamente coinvolte nelle questioni di salute mentale, quelle di persone sofferenti, portatrici di una idea di malattia come sintomo di qualcosa di più grande e collettivo di un problema individuale.

Questa è un’idea continuamente rigettata, conviene di più dare spazio a soluzioni immediate, che curano il singolo e annullano il sintomo, che non coinvolgono l’ambiente sociale in cui le persone soffrono, che dipingono queste come meno adatte e più deboli rispetto al resto.

Prendiamo la depressione e il modo in cui è comunemente percepita, ovvero come mal funzionamento di un individuo che non riesce più a svolgere le attività tipiche della buona cittadinanza: lavorare, socializzare, rispettare le regole, raggiungere il successo, fare carriera (spesso per la classe media), o anche solo sopportare senza fiatare quelle che vengono percepite socialmente come le normali difficoltà della vita a cui si è destinati (spesso per la classe lavoratrice).

Questa visione non interroga le disuguaglianze sociali, né alcuna struttura di potere, e dunque le condizioni non solo biologiche e chimiche, ma anche sociali in cui il disagio e poi la malattia si sviluppano. Se iniziassimo a considerare i sintomi depressivi come un rifiuto a tollerare l’intollerabile, a continuare a performare una finzione insensata su un pianeta che sta diventando oggettivamente invivibile, un rifiuto a conformarsi, una denuncia dell’inaccessibilità di un progetto di vita felice, la percezione delle persone depresse sarebbe di sicuro differente: l’anomalia diventerebbe chi il malessere non lo prova.

Ciò non aiuta a risolvere la sofferenza, è chiaro, e di sicuro nessuno desidera che di colpo si ammalino tutti, ma può servire a cambiare la considerazione delle persone malate come delle creature deboli e incapaci di funzionare in un sistema considerato perfetto … leggi tutto