Sérgio Mendes, lo spirito pop della bossa nova (ilmanifesto.it)

di Francesco Adinolfi

Lutti. 

Addio all’artista brasiliano, noto per la sua versione travolgente di «Mas que nada», il classico di Jorge Ben

Se ne è andato a 83 anni Sérgio Mendes, pianista, cantante, compositore e splendido divulgatore pop della bossa nova negli anni Sessanta; la sua salute era peggiorata per gli effetti a lungo termine del Covid.

È stato uno dei padri spirituali delle riscoperte lounge anni Novanta, apprezzato per quelle tante cover easy listening iniettate di suoni latin e jazz di classici di Beatles (The Fool on the Hill), Simon and Garfunkel (Scarborough Fair), Otis Redding, Stevie Wonder e molti altri; Herb Alpert Presents Sergio Mendes & Brasil ’66, primo album del 1966 dell’omonimo progetto, è il disco che lo impone a livello internazionale – in precedenza i lavori a suo nome e con i Brasil ’65 non avevano avuto successo; l’album è presentato da Alpert che lo produce con Jerry Moss, entrambi fondatori dell’etichetta A&M; è cantato anche in inglese e soprattutto è presente all’interno una versione travolgente di Mas que nada (che nel 2006 ri-registrerà con i Black Eyed Peas), il classico di Jorge Ben; quella cover gli aprirà tutte le porte.

Poi nel 1967 arriva il rifacimento di The Look of Love di Bacharach, altro pezzo che gli darà massima visibilità portandolo ai primi posti in classifica negli Usa.

Seguiranno dischi a nome Brasil ’77 e album a suo nome ma è il gruppo Brasil ’66 che resterà nel tempo al cuore della produzione dell’artista.

Sérgio Mendes, nato in Brasile e trasferitosi nel 1964 negli Stati Uniti, ha incarnato la quintessenza dell’easy listening; negli anni la sua bossa nova raffinatissima, ibridata con pop e jazz, ha innervato una sfilza di cover e di brani originali, rivelandosi spesso negli Usa un antidoto, veloce e lieve, alle turbolenze sociali e belliche anni Sessanta e inizio Settanta.

Anche i grandi del pop e del rock si stanno autocensurando (rollingstone.it)

di

The Times They Are A-Changin'

(Cher e Jagger nel 1970 Foto: CBS/Getty Images (1). Chris Walter/WireImage (2) via Rolling Stone US)

Chersta per pubblicare un’antologia che copre tutta la sua carriera. È curata personalmente da lei e uscirà prima dell’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame e dell’uscita del primo volume delle sue memorie.

Forever includerà i primi successi da sola (Gypsies, Tramps & ThievesDark Lady), le power ballad anni ’80 (If I Could Turn Back TimeI Found Someone), le inarrestabili hit da club (Take Me Home e Believe). La Forever Fan Edition conterrà anche i pezzi con Sonny Bono, un duetto col compianto marito Gregg Allman e altro ancora, per un totale di 40 brani.

Manca però una grande hit. Half-Breed del 1973 racconta la storia del figlio di un uomo bianco e di una donna Cherokee alle prese coi pregiudizi di entrambe le parti: “Gli indiani dicevano che per la legge ero bianca e l’uomo bianco mi chiamava squaw indiana”, recita un verso. Sotto il ritornello rimbomba un canto dei nativi americani.

Half-Breed è stata inserita in una retrospettiva di Cher negli anni ’90 e possiamo solo ipotizzare il motivo per cui è stata esclusa da Forever; il management di Cher ha rifiutato di rilasciare un commento. È possibile che si tratti del caso più recente di una tendenza in atto tra i grandi del pop e del rock di riconsiderare il proprio catalogo, le set list e le copertine degli album alla luce delle nuove sensabilità.

Star contemporanee come Kesha, Lizzo e Beyoncé hanno rimesso mano a testi problematici (di recente GloRilla ha modificato un verso di una canzone che deve ancora essere pubblicata ufficialmente per eliminare la parola “ritardato”), mentre gli artisti storici stanno iniziando a metterci mano solo ora.

Nel 2021 i Rolling Stones hanno eliminato dalle scalette dei concerti Brown Sugar, che parla di una “nave negriera” e di un mercante di schiavi che “sa di fare tutto bene, sentitelo come frusta le donne verso mezzanotte”. «Non hanno capito che si trattava di una canzone sugli orrori della schiavitù?», disse all’epoca Keith Richards, aggiungendo che sperava «di essere in grado di riprendere il pezzo prima o poi in futuro».

La canzone, tuttavia, non è ancora riapparsa nei concerti e, a quanto pare, non è l’unico caso di modifica apportata dagli Stones. Nel 1977, la band fece uno show per pochi all’El Mocambo di Toronto. Parti del concerto furono pubblicate nel disco Love You Live dello stesso anno dove si può sentire Mick Jagger presentare la band scherzando sulle preferenze sessuali: «Charlie Watts deve ancora scegliere», «Bill Wyman vuole solo fotografare le gambe delle ragazze», «Ronnie Wood è gay».

Nel 2022, quando è stata pubblicata ufficialmente la registrazione più estesa dei concerti, le osservazioni di Jagger erano sparite. Nello stesso anno, Patti Smith ha tolto Rock n Roll N****r da tutte le edizioni in streaming del suo album Easter del 1978.

Questa primavera Joni Mitchell ha pubblicato un cofanetto coi suoi album della fine degli anni ’70. Uno di essi è Don Juan’s Reckless Daughter. Quando il disco fu pubblicato nel 1977, pochi si offesero, almeno pubblicamente, per il fatto che in copertina Mitchell era ritratta con la blackface, ovvero con il volto truccato di nero, nei panni del personaggio che lei chiamava Art Nouveau.

Ora, a quanto pare, qualcuno ha pensato bene di farlo: la ristampa ha una copertina completamente diversa, con una foto della Mitchell che si nasconde dietro quello che sembra un lupo impagliato.

Non sorprende che nessuno degli artisti abbia commentato questi cambiamenti (tutti hanno rifiutato di parlare con Rolling Stone o non hanno risposto alle richieste di commento). La tendenza ha lasciato perplessi, sconcertati o entrambe le cose alcuni esponenti del mondo della musica.

«Nel caso di Joni, le avrei consigliato di fare quel che ha fatto», dice un importante consulente dello spettacolo ed esperto di gestione delle crisi, che ha scelto di rimanere anonimo. «Mi chiedo però se qualcuno creda davvero che Joni sia razzista».

Per quanto riguarda Brown Sugar e altre canzoni con testi che oggi potrebbero essere considerati offensivi, «si sa che sono state scritte in un’epoca diversa e che nessuno oggi le scriverebbe così. Nessuno pensa che Cher sia una persona orrenda perché mezzo secolo fa cantava quel pezzo. Bisogna stare attenti a non reagire in modo eccessivo».

(Le due copertine di ‘Don Juan’s Reckless Daughter’ di Joni Mitchell a confronto)

Al momento, i fan sembrano essere equamente divisi sull’argomento. Quando Mitchell ha rilanciato la copertina, ha semplicemente condiviso l’artwork sui social senza alcun commento. Alcuni fan hanno fatto notare di non aver nessun problema con l’originale, che per alcuni è migliore.

«Dirò una cosa impopolare, ma preferisco la copertina originale», ha scritto un utente. «A causa del politicamente corretto abbiamo rovinato il nostro senso dell’umorismo, ora è arrivato il momento dell’arte e presto accadrà con i testi. Qualcuno può davvero sentirsi offeso dall’immagine originale?».

Altri sono d’accordo con la decisione di Mitchell. «I tempi cambiano e con essi anche il modo in cui l’arte e la musica vengono percepite. Cambiare la copertina non significa cambiare la musica, la arricchisce… Sono contento che la copertina sia stata cambiata», ha scritto uno di loro. E un altro, più conciso: «La nuova copertina è decisamente migliore».

Per quanto riguarda Half-Breed, Cher ha un rapporto complicato con la canzone (che, a dire il vero, presenta una delle prestazioni vocali più appassionate e sofferte della sua carriera). Dopo averla pubblicata, non l’ha eseguita dal vivo fino al 1999, per poi reinserirla occasionalmente nel repertorio live.

L’ha ripresa nel 2014 eseguendola con tanto di nuovo copricapo adatto al testo ed è sparita di nuovo finendo sotto il fuoco dei social con l’accusa di appropriazione culturale. «È un pezzo di 50 anni fa, non voleva essere offensivo», ha scritto Cher nel 2017. «Ma ok, è una scusa un po’ del cazzo. Devo mettere da parte quel bellissimo costume e smettere di cantarla. Ha decisamente fatto il suo tempo» (Half-Breed rimane nell’attuale versione itinerante del musical The Cher Show).

Né l’editore di Half-Breed né Dawn Garrett, la figlia di Snuff Garrett che ha prodotto la registrazione originale, sono stati informati dell’omissione della hit da Forever. «Se dovessi fare un’ipotesi, direi che il motivo è quello», dice Garrett. «Non sono cresciuta con l’idea che la canzone fosse un insulto o qualcosa di simile. Ma questa è una generazione completamente diversa e credo sia importante che nessuno si senta insultato o turbato. Bisognerà vedere se i vecchi fan saranno contenti o se sarà troppo polarizzante».

Resta una domanda: fino a che punto questa tendenza si estenderà e quali altre canzoni o testi saranno cancellati? Il consulente musicale, per esempio, è scettico. «Si può arrivare al ridicolo quando si cerca di eliminare cose che già esistono. Non puoi cancellare le cose da Google. Se Michelangelo fosse vivo, coprirebbe le sue opere?».

Da Rolling Stone US.

David Gilmour: «Questo potrebbe essere il mio ultimo tour» (rollingstone.it)

Il passato è passato

Parla il chitarrista: i temi dell’album ‘Luck and Strange’, i vecchi Pink Floyd che oggi, a 78 anni d’età, gli sembrano irrilevanti, i concerti durante i quali suonerà qualcosa del repertorio anni ’70 (sì, ha cambiato idea), il conflitto con Roger Waters, la voglia di mettersi tutto alle spalle

Gennaio 2007, pochi mesi dopo la fine del tour di On an IslandDavid Gilmour convoca i suoi musicisti, tra cui Richard Wright dei Pink Floyd, nel fienile della sua proprietà nel Regno Unito. L’idea è mettere giù qualche spunto per nuove canzoni. «Non ci avevo riflettuto bene, là dentro si gelava», ricorda Gilmour. «Abbiamo comunque passato un quarto d’ora su questo riff che avevo scritto alla chitarra a cui si sono uniti tutti, uno alla volta».

Negli ultimi 17 anni Gilmour non ha dato grande peso a quell’abbozzo di canzone, anche se è una delle ultime occasioni in cui ha suonato con Wright, morto di cancro ai polmoni nel settembre 2008. Quel nastro gli è tornato in mente un paio d’anni fa quand’ha iniziato a mettere assieme nuove canzoni.

Con Polly Samson, moglie e autrice da tempo dei suoi testi, e col produttore Charlie Andrew ha trasformato quel pezzo nella title track del nuovo album Luck and Strange, che uscirà il 6 settembre.

«Avevo dimenticato quanto fosse profonda. Dentro ci senti lo stile di Richard. Era un tipo vero, adorabile, creativo. Persone così non nascono tutti i giorni».

La morte di Wright e il conflitto che lo separa da Roger Waters fanno sì che i Pink Floyd rimarranno un ricordo d’un passato sempre più remoto. Ma a differenza di Nick Mason, che va in giro coi Saucerful of Secrets suonando solo pezzi del gruppo pre-Dark Side of the Moon, Gilmour guarda al futuro.

Ce ne ha parlato in collegamento Zoom dal suo studio nella campagna inglese, circondato da tastiere e chitarre vintage dal valore inestimabile. Abbiamo discusso di tutto, dalla creazione di Luck and Strange alla session con la figlia Romany, dall’imminente tour in cui suonerà a malincuore anche pezzi dei Pink Floyd anni ’70 all’eterno conflitto con Waters, dalla possibilità di vendere il catalogo della band al motivo per cui non gli è mai passato per la testa che si possa fare un biopic sui Pink Floyd.

Negli ultimi anni non sei stato particolarmente attivo. Hai mai pensato di ritirarti, magari alla fine del tour del 2016?

Non mi è mai passato per la testa. È che ci vuole un po’ di tempo per rimettersi in forze. Non sono uno di quei musicisti che desidera stare sempre in tour. Ho una famiglia meravigliosa. Ho una bella proprietà. Ma sapevo che prima o poi sarei tornato a fare qualcosa, non sapevo cosa, né quando. A quel punto è arrivato il lockdown e in un certo senso mi ha aiutato a concentrarmi, perché eravamo come in gabbia.

Ti riferisci ai webcast per promuovere il romanzo di Polly A Theatre for Dreamers. È stato anche un bel modo per i fan di conoscere meglio la tua famiglia e di sentirvi cantare tutti assieme.

Ci ha aiutato a concentrarci, è ripartito tutto da lì. Eravamo come intrappolati, per questo l’abbiamo chiamata Von Trapped Experience, un gioco di parole col nome della famiglia di Tutti assieme appassionatamente. Ci ha fatto capire quant’è divertente far musica tutti insieme. Abbiamo iniziato suonando cover di Leonard Cohen ed era bello il modo in cui si fondevano la mia voce e quella di mia figlia Romany.

(Foto: Gavin Elder)

È stato quindi alla fine del lockdown che hai iniziato a pensare al disco nuovo?

In realtà ci siamo rinchiusi noi quasi completamente per due anni. L’idea di uscire e prenderci il Covid ci innervosiva. Non siamo riusciti a non prenderlo, ovviamente, ma le discussioni su questa spada di Damocle che pendeva sulle nostre teste sono finite nel disco. Un altro argomento di cui si parlava era l’invecchiamento. Polly è un’ottima scrittrice e pensatrice, ha la capacità di entrare nella testa della gente. Sono queste le cose che ci hanno spinti a lavorare di nuovo assieme.

Avevo frammenti musicali su cui avevo lavorato in passato e intanto stavo scrivendo nuovi brani. Per un po’ le cose sono andate piuttosto a rilento, poi siamo andati a stare in una piccola casa a nord di Londra, dove abbiamo lavorato tipo cinque giorni su sette.

Io avevo una stanza con un piccolo studio, Polly un suo posto per scrivere, e abbiamo lavorato tanto per far sì che questa cosa diventasse un demo a partire dal ’22, ’23. E alla fine siamo arrivati al punto in cui potevamo finalmente mettere assieme un team e prenotare gli studi di registrazione.

Molti testi parlano di invecchiamento e mortalità. È stato così fin da quando avete cominciato a lavorarci?

Sì, i temi erano quelli fin dal principio. Sono le cose e i problemi di cui si parlava io e Polly e qualche volta in famiglia. Durante il lockdown pensavamo che il virus avrebbe potuto spazzare via l’umanità, in buona sostanza. E questo ci ha spinti a pensare ad altre cose che in qualche modo pendevano sulle nostre teste.

A produrlo hai chiamato Charlie Andrew. In che modo ha contributo a cambiare il mondo in cui lavori?

Beh, è più giovane di me. Viene da un’altra epoca. Ha un altro background. E di sicuro non conosce le cose da baby boomer che sono accadute prima che nascesse. Ed è in mezzo a una scena che comprende gente come gli Alt-J, con cui ha lavorato, e Marika Hackman e un bel po’ d’altra musica che non conoscevo. E lui non conosceva la mia, diciamo.

Come l’hai trovato?

Mi scervellavo per trovare qualcuno con cui poter collaborare, ma nessuno di quelli che mi venivano in mente sembrava essere giusto. Poi Polly, che in queste cose è molto brava, ha fatto una ricerca su Internet e m’ha fatto ascoltare musica fatta da vari produttori.

Il lavoro di Charlie Andrew spiccava su tutti gli altri. Lo abbiamo chiamato e ci è sembrato parecchio interessato a fare il disco. È stato entusiasmante perché lui, sai, si comporta un po’ da tiranno. Ti spinge a fare cose. E se all’inizio non ci riesci, ti tocca riprovarci.

Però poi c’è anche Steve Gadd alla batteria, che è un musicista decisamente diverso.

Quando non avevo ancora un produttore gli avevo chiesto venire per una settimana prima di Natale, ma a Charlie è andato benone, Steve è una leggenda. Nel frattempo siamo entrati in studio con musicisti più giovani, Adam Betts alla batteria, Tom Herbert al basso e Rob Gentry alle tastiere. Loro e Charlie mi hanno spinto a testare i miei limiti, è stato fatto un bel lavoro.

Nel disco c’è una cover di Between Two Points dei Montgolfier Brothers, che un sacco di gente non conosce. Com’è che hai deciso di rifarla?
Era in un paio di playlist sul mio smartphone, saltava sempre fuori quando ascoltavamo musica in auto, m’è venuta voglia di provarla in studio per vedere cosa veniva fuori. Il testo esprimeva un senso di vulnerabilità giusta per un reduce come me.

Polly ed io abbiamo pensato più o meno nello stesso momento di farla fare a Romany. L’aveva sentita una o due volte nelle nostre playlist, ma non la conosceva. Le ho messo sotto al naso il testo e l’ho piazzata davanti a un microfono. In queste cose è una vera professionista, lo è da quando aveva 3 anni. La traccia vocale che sentite è in pratica la prima che ha inciso, salvo qualche piccola cosa che è stata sistemata.

In Luck and Strange Polly scrive dell’impatto della vostra generazione.

L’idea della canzone è che noi baby boomer, noi generazione del dopoguerra si pensava che tutte le guerre fossero finite. Pensavamo che avremmo vissuto una sorta di età dell’oro. Il nostro primo ministro di allora, Harold Macmillan, disse una farse celebre: «Non è mai andata così bene».

È stato bello vivere quel periodo e anche tutta la gente che faceva parte delle rock band, i tour, è stata una cosa bellissima, meravigliosa. Ma l’epoca che stavamo vivendo era la norma o è stato solo un momento che è passato o sta passando? Io e Polly tendiamo a guardare le cose in modo critico e quindi crediamo si stia tornando a un’epoca buia. Com’è che la chiamano, post verità?

The Piper’s Call richiama in qualche modo The Piper at the Gates of Dawn, il primo disco dei Pink Floyd?

No, è un pifferaio diverso, è più simile al pifferaio di Hamelin. È una canzone sul carpe diem e i vizi della fama, sulle tentazioni e i divertimenti tipici dello stile di vita rock’n’roll che abbiamo vissuto, cose in cui non bisogna farsi coinvolgere troppo. Credo che alla fine parli di me.

Sings sembra una conversazione intima tra te e Polly.

È proprio così. Un paio di canzoni sono un po’ strane, perché sembra che le abbia scritte io e che quelle cosa le stia dicendo a lei, quando in realtà le ha scritte lei e le sta dicendo a se stessa. C’è un passaggio nella canzone in cui si sente mio figlio quand’era piccolo, ora ha 29 anni, che dice “Canta, papà, canta”. Era registrato su un mini disc nel 1997. L’abbiamo inserito verso la fine. Adoro questa canzone.

Scattered è stato scritta da te, Polly e vostro figlio Charlie. Come è successo?

Ho scritto una parte di testo, ma era come dire un po’ vaga. Parlava di tre diversi argomenti e Polly ha suggerito di concentrarsi su uno solo. Abbiamo pensato di chiedere a Charlie di fare un tentativo. Ha proposto una specie di leggenda di re Canuto che ordina alla marea di fermarsi. Alla fine è arrivata Polly e con la sua genialità e competenza l’ha rifinita.

Nel comunicato stampa dici che questo è il miglior disco che hai fatto dai tempi di The Dark Side of the Moon. Che cosa te lo fa pensare?

È un’affermazione esagerata tanto più che The Dark Side the Moon non è nemmeno il mio album preferito, forse gli preferisco Wish You Were Here. In ogni caso, mi pare che questo disco sia la cosa migliore che ho fatto più o meno da quando ho memoria, perché alcuni di quei vecchi dischi mi sembra siano stati fatti da qualcuno altro, secoli fa. Avevo 30 e qualcosa anni quando Roger ha lasciato il nostro piccolo gruppo pop e ora ne ho 78.

Deve sembrare una vita fa.

È del tutto irrilevante oggi.

A che punto sono i preparativi del tour?

La band è pronta, dentro c’è la maggior parte dei musicisti che hanno suonato sul disco. Guy Pratt [il bassista] è nella band, ovviamente. E c’è anche il [tastierista] Greg Phillinganes, che ha fatto l’ultima metà del mio tour 2015/16. E c’è Louise Marshall, una delle cantanti dell’ultimo tour.

Ma le altre due cantanti che ho questa volta sono le Webb Sisters, Charley e Hattie, che sono state spesso in tour con Leonard Cohen. Sono inglesi, non vivono molto lontane da dove sto io. E sono riuscito a convincere Romany a venire a fare la voce solista in alcuni concerti. Non ho ancora deciso in quali e che cosa potrà fare. Studia all’università a Londra, non so se riuscirà a fare tutto.

(In studio con Guy Pratt. Foto: Gavin Elder)

A inizio anno hai detto di non essere «disposto a rivisitare i Pink Floyd degli anni ’70» nel tour. Lo pensi ancora? Niente Floyd dei ’70?

Ogni tanto bisogna arrendersi alla realtà delle cose e quindi penso che farò uno o due pezzi di quel periodo, ma è passato un sacco di tempo da allora. So che la gente li ama e io amo suonarli. Farò Wish You Were Here ovviamente e alcuni pezzi che sono nati da me.

Non hai mai fatto un concerto solista senza fare Comfortably Numb. Sarà in scaletta?

Sì, è molto probabile. Molto.

E pezzi come BreatheTime e Money?

Non credo che farò Money, se è questo il motivo per cui qualcuno vorrebbe venire al concerto…

Suonerai tutto il disco nuovo?

Non dall’inizio alla fine. Non ci ho ancora pensato. Non abbiamo ancora iniziato le prove. Ho iniziato a lavorare sulle scalette e su come voglio che sia lo show, ma non è ancora tutto definito.

All’inizio di quest’anno hai detto che ti sembrava che il tuo ultimo gruppo fosse un po’ una tribute band ai Pink Floyd. Perché?

Ho cambiato un paio di musicisti a metà dell’ultimo tour, perché sentivo tutto il peso sulle mie spalle e volevo che gli altri mi aiutassero. Volevo sentirmi più leggero lasciando ad altri il lavoro duro in modo da potermi concentrare sul canto e sul suonare. E poi non volevo ricalcare pedissequamente i vecchi dischi. Volevo che la gente sentisse un po’ più di libertà, che la musica fosse viva.

E non è facile perché il pubblico che viene a vederti vuole che le canzoni siano identiche a quelle dei dischi, ma i musicisti non lo vogliono, ovviamente. Io voglio tenermene lontano. È un piccolo gioco di prestigio cercare di mantenere inalterate le parti importanti delle canzoni, trovando però il modo di prendersi delle libertà per andare oltre.

Negli ultimi anni Nick Mason è andato in giro a suonare coi suoi Saucerful of Secrets. Li ha già visti?

No, ma piace il fatto che lo stia facendo. Non so cosa dire di preciso al riguardo. Tendo a pensare che i pezzi siano diversi da come li si faceva noi all’epoca. Sono dalla sua parte nella decisione di rifarli. È fantastico e credo si stia divertendo un sacco. È così che dovrebbe essere.

(Un ragazzo fortunato che non pensa più ai Pink Floyd. Foto press)

Ora però ti devo chiedere di quell’altro tizio. Nel 2010 il tuo rapporto con Roger era sufficientemente buono da spingervi a esibirvi assieme in un concerto di beneficenza. Tu poi sei stato ospite del suo concerto di The Wall a Londra. Com’è che si è passati da quella situazione a quella attuale in cui non vi parlate neanche più?

Un giorno ne parlerò, ma non voglio farlo adesso. È un argomento noioso. Ed è finita. Come ho detto prima, lui ha lasciato il nostro gruppo pop quando avevo meno di 40 anni. Ora sono un vecchietto e quel che è successo non è più rilevante. Non so neanche quel che ha fatto nel frattempo, quindi non ho nulla da dire sull’argomento.

Quando tu e Polly avere fatto quei tweet l’anno scorso (sull’antisemitismo, l’ipocrisia, la misoginia di Waters, ndr) sapevate che sarebbe venuto fuori un gran casino.

La gente la definisce una battaglia, ma per come la vedo io è una cosa a senso unico che va avanti a diversi livelli d’intensità da quando ha lasciato il gruppo. Polly sentiva di dover dire la sua. Io ero d’accordo con quel che ha scritto e l’ho detto. Tutto qui. Non ho null’altro da aggiungere, nessuna nuova luce da gettare sulla cosa.

Secondo varie voci il catalogo dei Pink Floyd potrebbe essere venduto. È una cosa vera?

Se ne sta ancora discutendo, sì.

E a te piacerebbe?

Il mio sogno è non essere coinvolto in decisioni come queste e nelle discussioni che ne derivano. Se solo le cose fossero diverse… E poi non m’interessa dal punto di vista finanziario. M’interessa solo che la cosa esca dal pantano in cui si trova da un pezzo.

Immagino sia una bella sfida raccogliere tre “sì” per qualunque cosa riguardi i Pink Floyd.

Non è così che funziona. Funziona con un sistema di veto. Si potrebbe dire che ci sono tre persone che dicono di sì e una che dice di no.

Tu e Nick avete riportato in vita il nome dei Pink Floyd nel 2022 realizzando Hey Hey Rise Up per l’Ucraina. Potresti rimettere in piedi i Pink Floyd in futuro per un’iniziativa simile?

È un mondo strano quello in cui viviamo, e ci sono cose nella vita per le quali senti di dover fare qualcosa e di doverlo fare subito. Per le cause in cui credi potresti anche usare ciò che hai guadagnato durante la vita. Quindi mai dire mai.

Hai mai pensato di scrivere un’autobiografia?

Me l’hanno chiesto, ma la cosa finora non mi ha mai tentato. Magari ci penserò quando sarò un po’ più vecchio.

Ci sono stati tanti biopic rock negli ultimi anni. Riesci a immaginarne uno sui Pink Floyd in cui un attore interpreta te?

Non ci ho mai pensato. Non saprei. Nessuno lo ha proposto. Se mai qualcuno volesse farne uno sui Pink Floyd, non riesco proprio a immaginare come potrebbe essere. Non so cosa penserei se la cosa venisse fuori, non è successo.

Suonerai al Madison Square Garden la notte delle elezioni presidenziali americane. Pensi che l’atmosfera sarà un po’ strana?

Avrei voluto sapere della data delle elezioni prima di prenotare quei giorni, sapendolo mi sarei preso un giorno libero. Ma ehi, voi americani dovete fare quel che dovete fare. E quelle elezioni sono affari vostri. Noi qui ne abbiamo appena avuta una. Suppongo mi piaccia l’idea che i governi siano gestiti da gente adulta e in Gran Bretagna ci siamo mossi lievemente in quella direzione. Vedremo come andrà da voi.

Pensi che questo potrebbe essere il tuo ultimo tour?

Sì, potrebbe esserlo, ovviamente.

Pensi che lo sarà?

Te lo dirò dopo il tour.

Chiudiamo parlando di Yes, I Have Ghosts. L’hai messa come bonus del nuovo album e credo che riassuma tutto quanto: “Sì, ho dei fantasmi, non tutti sono morti e danzano alla luce della luna”.

L’ho scritta con Polly ed è influenzata e legata alla storia di A Theatre for Dreamers. Come ho detto prima, avevamo intenzione di fare alcuni spettacoli in giro per il paese dove avremmo suonato una o due cover di Leonard Cohen, che fa parte della storia raccontata nel libro.

Abbiamo scritto quella canzone proprio per inserirla in quegli spettacoli e avere un pezzo musicale in più. Ma non è ancora uscita in un album. A entrambi piace molto, quindi abbiamo pensato che potesse essere una delle cose extra da mettere in questo.

È incredibile pensare che tu e Polly state creando musica assieme da oltre 30 anni. La vostra collaborazione è durata molto più di quella con quell’altro tizio.

Polly e io lavoriamo insieme su queste cose da 32 anni. In effetti, la prossima settimana è il nostro 30esimo anniversario di matrimonio.

Congratulazioni.

Grazie. Come hai giustamente sottolineato, è un periodo più lungo di quello che ho passato con quell’altro tizio.

E le cose vanno molto meglio con lei che con lui.

Non potrei essere più d’accordo. Al 1000%.

Da Rolling Stone US.

Bruno Martino ha cantato la malinconia di chi non riesce mai a sentirsi all’altezza dell’estate (rivistastudio.com)

di Arianna Giorgia Bonazzi

Estate

“Odio l’estate” non è il manifesto degli hater delle vacanze ma la canzone di chi non può fare a meno di sentirsi inadeguato a una stagione troppo bella, vitale e spensierata.

Parlare ancora di “Estate” di Bruno Martino (rititolata così dopo che Lelio Luttazzi la parodiò in tv con “Odio le statue”, ma meglio riconoscibile col suo primo titolo: “Odio l’estate”) potrebbe sembrare il solito strale antipatico del guastafeste che si oppone alla stagione più amata dalle masse.

Non è così semplice, per vari motivi. Il primo è che la tristezza estiva non è una posa dei bastiancontrari su X, ma un sentimento antichissimo che il poeta Alceo, vissuto a Lesbo nel VII secolo a.C., descriveva con queste parole: «Bagna i polmoni nel vino […] La stagione è opprimente, assetato è tutto […] È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive, molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia inaridisce».

Il fastidio per l’estate – per il cattivo accordo dei propri moti interiori con la luce e il calore opprimente – risale a molto prima che i motori dell’aria condizionata venissero a turbare le notti dei palazzi urbani e la brutta musica quelle degli alberghi a mare; a ben prima che il Summer blues – la variante estiva della depressione meteoropatica – venisse codificata con la stessa dignità degli istinti suicidi nei Paesi nordici d’inverno.

La seconda ragione per cui “Estate” non è una banale scelta da Sad girl è che Bruno Martino (e il paroliere Bruno Brighetti) non odiavano davvero l’estate; infatti, pur morendo di dolore e invocando la neve a coprire tutte le cose, il risultato era una specie di ode (ok, malinconica) alla stagione.

Prova ne sia che le versioni inglesi o brasiliane del brano – che negli anni è stato ripresissimo, fino a diventare un canone del jazz e della bossanova – hanno solo parole elogiative per questa stagione, come se al di là del testo originario, e perfino dell’arrangiamento, stessero a significare che, alla fin fine, questa è una canzone dell’estate, sull’estate, per l’estate.

Mi riferisco, per esempio, a un adattamento inglese del 1965, il quale, anziché lamentarsi di un amore trovato e perso d’estate, si augurava che l’avventura a questo giro si rivelasse solida: «This summer/ perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love/ The one who won’t be just another new love/ Who’ll still be mine when leaves begin to fall…».

Lo stesso João Gilberto, artefice della fama mondiale del brano, aveva tolto subito la parola odio dal testo, pensando che la saudade insita nella musica fosse più che bastevole. L’odio poi, oggi, è cosa ben diversa: ha a che fare col livore, è espressione gratuita e violenta di dissenso da hater.

Invece Bruno Brighetti, che leggenda vuole avesse scritto il testo dopo una intossicazione da frutti di mare in un hotel di Napoli nel 1960, non era capace di vero odio. Al massimo del malumore diceva: odio l’estate perché è troppo bella. Voglio che passi solo perché io non sono felice. Perché tutti sono innamorati invece io ho mal di stomaco.

È questo il sentimento veramente condivisibile che abbiamo provato tutti – non il lamento sterile dei calorosi, dei nemici delle zanzare, dei detrattori del mare, dei workaholic: la sensazione esistenziale che il nostro cuore non stia al passo col fulgore dell’estate; che non si accordi ai colori sgargianti della frutta e dei vestiti; alla dolcezza delle carni all’ombra, ai profumi del pino e del limone. Che il nostro cuore, insomma, sia un posto troppo più freddo della spiaggia a quaranta gradi dove tutti si muovono con ostentata grazia e stolido buonumore.

Se è vero che “Estate” era in netta controtendenza rispetto alla canzone leggera di un’estate italiana del boom economico, è però successo a tutti, in ogni epoca storica, di sentirsi sfasati rispetto all’obbligo morale estivo dell’innamoramento e della spensieratezza.

Chi soffre lo sfasamento per l’estate non è un vero hater, sa che l’estate è calda come i baci (che ha perduto) che ha dato il suo profumo ad ogni fiore (facendoci morire di dolore) e il sole che ogni giorno ci donava adesso brucia solo con furore. La tristezza dell’estate, in definitiva, non è che il perenne desiderio di raggiungere i suoi standard.

Io, personalmente, soffro di un complesso da inadeguatezza all’estate dai tempi dei miei primi compleanni agostani, che spesso, per manie di grandezza congenite, si rivelavano delle puntate di giochi senza frontiere casalinghe che coinvolgevano tutta la cittadinanza minorenne.

Al momento di chiudere la porta alle spalle dell’ultimo invitato, crollavo in una crisi di nervi perché avevo atteso quel giorno sin dai primi bagliori di giugno, perché come un santo patrono portato in gloria avevo immaginato che sarei stata davvero felice, e perché quella felicità non l’avevo acchiappata nemmeno quando dalla torta era uscita una carrozza con i pony.

Tutto fuori da me appariva troppo più smagliante e sorridente del mio stato d’animo, di me, delle mie possibilità emotive, dei miei più ottimistici desideri di esser come tutti.

Che la si ami o no, arriva per ciascuno il momento in cui l’estate chiede troppo alla nostra vitalità in termini di entusiasmo; arriva, cioè, il momento in cui ci ciascuno in segreto si ripete piano: tornerà un altro inverno, e il cuore un po’ di pace troverà.

Affrontare la morte (novayagazeta.eu)

di Milana Ochirova

Chi era Pavel Kushnir, il pianista morto in 
sciopero della fame mentre protestava contro 
la guerra in Ucraina?
Affrontare la morte

(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

C’è un canale appena notato su YouTube che, fino a poco tempo fa, aveva solo cinque iscritti. Ora ne ha più di mille. Chiamato Foreign Agent Mulder, in riferimento al personaggio di David Duchovny in X-Files, il canale ha solo quattro video. Il più breve, intitolato Life, dura solo 51 secondi, e tutti i commenti sotto di esso riguardano la morte della persona che lo ha realizzato.

L’uomo nel video è vestito con una giacca nera che ricorda un’uniforme carceraria. Indossa un giubbotto da marinaio e un orpello drappeggiato sul petto. Un distintivo con la scritta FBI è attaccato al giubbotto, disegnato a mano con un pennarello blu.

“Non ci sarà mai vita sotto il fascismo”, dice. “Putin è un fascista e i popoli del nostro paese hanno rinunciato a milioni delle loro vite migliori per garantire che non ci fosse il fascismo. Non lo accetteremo. Non adoreremo questa bestia. Abbasso la guerra in Ucraina, abbasso il regime fascista di Putin, libertà per tutti i prigionieri politici, libertà per tutti i prigionieri, libertà per tutti”.

Pavel Kushnir – l’uomo nei video – sarebbe stato arrestato e accusato di “incitamento pubblico al terrorismo” a maggio, cinque mesi dopo aver caricato Life. C’è un filmato dell’arresto stesso, con grandi agenti delle forze dell’ordine mascherati che portano via un uomo magro con una camicia nera, fino alla sua morte.

I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo(I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo)

Andando incontro alla sua morte

La piccola città di Birobidzhan, con una popolazione di 68.000 abitanti, è il centro amministrativo della regione autonoma ebraica della Russia, un’area dell’Estremo Oriente del paese che è stata istituita per gli ebrei sovietici nel 1934, ma che ora è nota principalmente per la sua assenza di una comunità ebraica.

Si tratta di un luogo abbastanza cupo, pieno di identikit di condomini prefabbricati, che è stato catturato sapientemente dal fotografo norvegese Jonas Bendiksen in una serie di foto nel 1999. Da allora non è cambiato molto, dicono i locali.

Kushnir, che aveva 39 anni quando è morto, ha vissuto a Birobidzhan solo per un anno e mezzo, trasferendosi lì dalla sua città natale di Tambov, nella Russia centrale, su invito dell’orchestra filarmonica locale alla fine del 2022.

Diplomato al Conservatorio Čajkovskij di Mosca, entrare a far parte di un’orchestra filarmonica di una piccola città era un grosso problema a Birobidzhan, e quasi tutti i media statali locali hanno pubblicato articoli su di lui, descrivendolo come “intelligente e talentuoso”.

Kushnir indossa una semplice camicia nera in tutto il filmato, la stessa che avrebbe poi indossato nella sua bara, emaciato dopo lo sciopero della fame, con un livido sotto l’occhio e sangue sul labbro e tra i denti.

“Siamo una famiglia di musicisti. Suo padre, suo nonno, sua nonna e io eravamo tutti musicisti”, ha detto a Novaya Europe la madre di Kushnir, Irina Levina, 79 anni.

Aveva cercato di scoraggiare suo figlio dal trasferirsi a Birobidzhan, dicendo che aveva una premonizione che non riusciva a spiegare.

“Era solo una sensazione… L’ho letteralmente implorato. “Resta! Restare! Ti aiuterò, ti sosterrò finanziariamente, ma non andare!” Ma lui non volle ascoltare e andò incontro alla morte. Questo è tutto quello che posso dire”.

I funerali di Pavel Kushnir a Birobidzhan. Foto: anonimo(The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous)

Kushnir era davvero un musicista di grande talento. Poteva eseguire tutti i 24 preludi di Rachmaninoff in una sola seduta, o tutti i preludi e le fughe di Šostakovič in una sola serata, il che è molto difficile anche per un musicista esperto.

“È letteralmente come correre una maratona per un pianista”, spiega la musicologa Anna Vilenskaya. “Ma potrebbe farlo in una serata. Era importante per lui eseguirlo in un unico grande ciclo. Potrebbe dare un’idea del tipo di persona che era”, continua Vilenskaya. “Non voleva rompere il ciclo monumentale che Shostakovich aveva in mente. E forse non voleva nemmeno dividere la sua vita in sezioni. In qualche modo vedeva la sua vita in modo molto olistico. Non voleva tradire le sue opinioni”, aggiunge.

The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous(The funeral of Pavel Kushnir in Birobidzhan. Photo: anonymous)

No alla guerra

Kushnir era un pacifista incallito. Ha preso parte alle proteste contro la rielezione di Putin in piazza Bolotnaya a Mosca nel 2012 e si è opposto alla guerra in Ucraina sin dai tragici eventi nel Donbass nel 2014. Anche la sua famiglia conosceva le sue opinioni politiche, anche se non le condividevano, il che a volte portava ad aspri conflitti.

“Conoscevo le sue opinioni e litigavamo. Ma non aveva senso”, dice Levina. “Gli ho detto cento volte che era pericoloso credere a quello che credeva lui. Cento volte! E ho capito che aveva paura”, ricorda.

La guerra nel Donbass, iniziata nel 2014, ha giocato molto sulla mente di Kushnir. Ha anche scritto un libro sull’argomento, “Russian Mash-Up”. È stato pubblicato da ZaZa, una piccola casa editrice della città tedesca di Düsseldorf, che lo ha reso disponibile online in formato print-on-demand. Ma non c’era alcuna richiesta, almeno non fino alla morte del suo autore, cioè. Il libro è stato infine pubblicato in Germania all’inizio di agosto, con tutti i proventi delle vendite del libro destinati alla famiglia Kushnir.

“Quanto può durare la vita di Putin sulla terra e il suo governo illegittimo? Riuscirà a raggiungere una longevità simile a quella di Márquez di fronte a una tale fottuta brutalità?” Ha scritto Kushnir.

Ma non è per questo che lo hanno perseguitato. Lo hanno inseguito per quattro video su un canale YouTube con cinque iscritti.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

La verità è là fuori

“Non abituatevi al fascismo. Non abituatevi alla guerra. Anche se non c’è futuro, crediamo nel presente. Ma c’è un futuro. Putin morirà. Il regime fascista di Putin crollerà. Il mio amore vivrà. Continuiamo a combattere. Andiamo fino in fondo e rimaniamo fedeli al nostro passato”, ha detto Kushnir in un altro dei suoi video, Un messaggio agli antifascisti. Usava spesso la frase “La verità è là fuori”, lo slogan della sua serie TV preferita, X-Files.

Anche nella piccola città di Birobidzhan, dove, come dice la gente del posto, “tutti hanno paura e nessuno dice niente”, le forze di sicurezza avevano un sistema di quote e avevano bisogno di reprimere le persone di tanto in tanto. Forse non ci sono state proteste pubbliche in città, ma c’era un pianista con un canale YouTube.

Poche persone se ne sono accorte a Birobidzhan, per non parlare del resto della Russia, quando Kushnir è stato arrestato a maggio, accusato di aver pubblicamente incitato al terrorismo su Internet, un reato punibile con una pena fino a sette anni di carcere. Ha iniziato lo sciopero della fame il giorno in cui è stato arrestato.

Non era la prima volta che protestava in quel modo. Aveva già iniziato uno sciopero della fame contro la guerra in Ucraina nel 2022, quando era ancora un uomo libero. Quella volta, quasi nessuno lo sapeva. Kushnir ha menzionato la protesta in un’intervista che la sua amica e collega pianista Olga Shkrygunova ha pubblicato su Facebook nell’agosto 2022. Non ha detto quale giornalista o media lo avesse intervistato, ed è apparso solo sulla sua pagina Facebook. Pochissime persone hanno notato l’intervista e ha ottenuto solo 10 “mi piace”. Quella volta, Kushnir rifiutò cibo e acqua per 20 giorni.

“Non ho problemi ad affrontare la fame fisicamente. Ho scelto questa forma di protesta quando pensavo che la gente avesse iniziato ad abituarsi alla guerra, ad accettarla, per dare l’esempio, per attirare l’attenzione”, ha detto Kushnir nell’intervista.

La seconda volta ha fatto uno sciopero della fame di 100 giorni. Non mangiava, ma beveva liquidi. Ha lavorato in tutto e si è esibito in concerti. Kushnir ha anche prodotto volantini che dicevano “Putin è un fascista” e li ha distribuiti intorno a Birobidzhan.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

Kushnir ha inviato e-mail agli amici durante il secondo sciopero della fame nel 2023, dicendo loro che chiedeva “la dissoluzione del regime fascista, la fine della guerra in Ucraina e il rilascio di tutti i prigionieri politici”.

Kushnir ha detto che il massacro di Bucha all’inizio della guerra è stato un punto di svolta per lui. Quando gli è stato chiesto chi sapesse che era in sciopero della fame, Kushnir ha risposto solo i suoi amici più stretti. “Dimmi, dovremmo cambiare il tuo nome per motivi di sicurezza?” chiede l’intervistatore. “Non ce n’è bisogno. Qualunque cosa accada, succede, e che Dio ci aiuti”, ha risposto.

Kushnir ha trascorso i suoi ultimi giorni in un’unità medica della prigione. È morto il 27 luglio, sua madre è stata informata il giorno seguente, e Olga Romanova, che dirige l’organizzazione per i diritti dei prigionieri Russia Behind Bars, ha condiviso la notizia con il mondo il 2 agosto.

Filarmonica di Birobidzhan. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Filarmonica di Birobidzhan. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

Il servizio carcerario ha indicato “cardiomiopatia dilatativa e insufficienza cardiaca congestizia” come causa ufficiale della morte. Kushnir non aveva mai sofferto di problemi cardiaci. Le foto di Kushnir nella sua bara mostrano un livido sopra un occhio e sangue sulle labbra. Sua madre si è rifiutata di darle il permesso di effettuare un’autopsia indipendente, il che significa che la causa della morte di suo figlio non sarà mai conosciuta con certezza.

Addio

I funerali di Kushnir si sono svolti a Birobidzhan l’8 agosto. Né sua madre né suo fratello hanno partecipato alla cerimonia. C’erano 11 persone in totale: due giornalisti, due dipendenti della Filarmonica, due fan, un’amica, una poetessa, due attivisti e uno scolaro.

Un partecipante ha detto a Novaya Europe che anche alcuni di loro avevano paura di partecipare. Uno dei membri dello staff della Filarmonica è arrivato con grandi occhiali da sole e si è rifiutato di parlare con i giornalisti. I partecipanti erano inizialmente riluttanti a pronunciare parole di commiato. Un attivista della città di Khabarovsk, 200 chilometri a est di Birobidzhan, alla fine ha parlato e ha osservato che il volto di Pavel era stato “picchiato”, cosa a cui nessuno ha espresso obiezioni.

Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK(Pavel Kushnir. Foto: Filarmonica di Kurgan / VK)

“Potevamo vederlo tutti. Era stato picchiato. Aveva un livido sopra un occhio e tracce di sangue tra i denti, che potevamo vedere perché la sua bocca era leggermente aperta. Ho detto che questa era la morte di un martire e che dovevamo assicurarci che non accadesse mai più”, ha detto l’attivista a Novaya Europe. Non conosceva Kushnir, avendone sentito parlare per la prima volta dopo la sua morte, ma venne comunque a rendergli omaggio.

Il tempo passò e tutti rimasero in silenzio. Si avvicinava alle persone e chiedeva loro di “dire qualcosa”, perché sarebbe stato “incivile” se nessuno avesse detto nulla. Alla fine, l’attivista stesso si è alzato per parlare.

“La gente ha scoperto che persona meravigliosa fosse solo dopo la sua morte, il che è terribile, ovviamente. La gente di Birobidzhan lo conosceva per il suo carattere musicista e interessante che era. Oltre a ciò, nessun altro lo conosceva. Né a Khabarovsk, da dove vengo qui, né a Vladivostok, nemmeno nelle città più vicine, per non parlare della Russia nel suo complesso… Ma la sua morte è stata uno shock per tutte le persone perbene. Ora la gente lo conosce. Ma a quale prezzo?”, ha detto.

“Ho parlato con la persona nel negozio quando ho comprato dei fiori. Ho detto: ‘Un ragazzo del posto è stato torturato a morte’. Ma lui non lo sapeva. E le altre persone con cui ho parlato non lo sapevano o facevano finta di non sapere”, ha continuato l’attivista.

Il corpo di Kushnir è stato portato a Khabarovsk per essere cremato, poiché Birobidzhan non ha nemmeno un crematorio. Sua madre ha insistito che fosse cremato. L’urna è stata poi trasportata a Tambov per la sepoltura. Nessuno parla di Kushnir a Birobidzhan. In effetti, solo poche persone a livello locale sanno che visse e morì lì.

Tristestate, quando le playlist si chiamavano compilation (rivistastudio.com)

di Federico Sardo

Estate

Tredici canzoni rippate da tredici cd per raccontare come si diffondeva la musica quando Spotify non c’era.

Quando la redazione di Rivista Studio mi ha chiesto di selezionare «una canzone, un libro o un film “dell’estate”, che non siano però troppo scontati» mi è venuta vagamente in mente una frase, che ho recuperato più precisamente solo in seguito. La frase era “canzoni tristi, ma belle. Estive, ma in un modo diverso” e l’avevamo scritta io e l’altro autore (ma più probabilmente lui) per presentare una compilation, nell’estate del 2011.

L’altro autore è Emiliano Colasanti, che all’epoca era soprattutto un giornalista musicale, co-fondatore di una piccola etichetta discografica, ora una delle più importanti d’Italia tra le indipendenti (42Records pubblica, tra gli altri, I Cani, Colapesce, Cosmo, Andrea Laszlo De Simone, Any Other). Non sono passati tantissimi anni, ma in realtà ripensare anche solo al concetto di compilation, fatta da due amici, per essere distribuita gratuitamente (e di fatto illegalmente) su internet, ci ha spalancato scenari su quanto siano cambiate le cose nel mondo della musica e di come la fruiamo.

Ovviamente le origini del progetto si perdono tra le nebbie della memoria. Sicuramente nacque da un dialogo tra noi, e dall’idea di mettere insieme un po’ di canzoni accomunate da un binomio affascinante: quello di essere allo stesso tempo dichiaratamente estive (per il titolo o il testo, spesso) ma anche tutto sommato tristi, o almeno malinconiche.

In piena antitesi (e in questo direi perfettamente adatte alla richiesta della redazione di Studio) rispetto alla definizione “canzone che parla di estate e ballare con qualche parola in spagnolo e ritmi latini assortiti” successivamente coniata per le hit estive da Francesco Farabegoli (anche lui all’epoca coinvolto in questa compilation: è colui che scrisse il titolo sopra alla foto scelta per la copertina).

Insomma l’origine viene sicuramente da un dialogo, altrettanto sicuramente avvenuto online, e probabilmente addirittura su FriendFeed, altra reliquia di un lontano passato: un social network estinto ormai da quasi dieci anni, che a sua volta ci ha rispediti in un pesantissimo amarcord.

Emiliano mi ricorda, visto che io non ho mai avuto un blog (frase con la quale forse potrei confezionare una maglietta), che «di certo era una roba che si faceva abbastanza abitualmente in epoca blog, probabilmente però è vero che l’idea di farla congiunta è nata su FriendFeed. Io le facevo spesso, ma appunto era una cosa che all’epoca azzardavamo in tanti, Polaroid se ti ricordi ne faceva una a Natale addirittura di inediti (e credo la faccia tuttora, per Santa Lucia)».

Una cosa che colpisce è la serietà con cui approcciammo questo progetto di fatto del tutto amatoriale, velleitario, senza alcun tipo di ritorno, e senza, va detto, nemmeno l’aura mitica dei mixtape o delle fanzine dei decenni precedenti. Ancora Emiliano: «Credo che siano in pochi a mettere nella stesura delle playlist – che quasi tutti ascoltano in shuffle – l’attenzione che noi avevamo messo in quella compilation.

Che comunque aveva una scaletta ragionata e funzionava come un disco. Poi c’è la questione più importante: non tutta la musica era (ed è) stata digitalizzata. Per cui parte del gioco era proprio quella di andare a prendere anche cose che non potevi sentire in nessun altro modo, tranne qualcosa su YouTube».

Perché dopo le discussioni per decidere quali pezzi includere e quali no (ancora rimpiangiamo di aver escluso Dennis Wilson, ma non potevamo lasciar fuori Brian), e in quale ordine, stando attenti a non sforare la durata di quello che si poteva masterizzare su un cd, si trattava di capire chi avesse in casa cosa: andare materialmente a tirare fuori i cd, metterli nel computer per estrarre la traccia, e convertirla in mp3.

Ancora Emiliano: «La cosa che mi faceva impazzire di più era fare i tag. Fare in modo che i brani fossero indicizzati nel modo giusto eccetera. Siamo sicuramente diventati più pigri. Pure io che uso Apple Music mi sono tenuto Spotify per ragioni lavorative, ma anche perché è più facile, e volevo fare le playlist».

Fatto questo, passammo al “packaging”. Quindi scegliemmo una fotografia per la copertina – la trovai io, su suggerimento di un’amica, su Flickr. Scrissi all’autore (Stefan Lewandowski, che riscopro solo ora, andando a vedere che fine ha fatto, che era pure il co-fondatore di Type Records) chiedendogli il permesso di utilizzarla e di cambiarne i colori.

Poi chiedemmo al già citato Farabegoli di scriverci sopra il titolo («Is this your celebrated summer?», dalla nota canzone degli Hüsker Dü, da noi inserita in una particolarmente malinconica versione interpretata da Mark Kozelek).
Infine la diffusione: la compilation venne caricata su Mediafire, che esiste ancora ma è stato largamente soppiantato da WeTransfer, e che all’epoca era per esempio il posto dove venivano normalmente caricati i dischi in free download delle band punk.

Perché stiamo ovviamente parlando di un’epoca precedente alla diffusione delle piattaforme di streaming, il che significa anche che se volevi ascoltare musica fuori casa dovevi scaricarla in mp3. Chi voleva diffondere la propria senza farla pagare solitamente sceglieva quella strada (di lì a poco avrebbe cominciato a diffondersi maggiormente l’utilizzo di Bandcamp, che era comunque guardato con qualche sospetto).

A quel punto non restava che promuoverla sui nostri social, e a Emiliano sul suo blog. Una delle cose che mi sembrano più lunari, oggi, è il fatto che all’epoca quella era una cosa piuttosto normale, che facemmo senza nasconderci, con i nostri nomi e le nostre facce, anzi cercando di farla girare il più possibile, anche sul blog di una testata giornalistica.

Nonostante, di fatto, fosse tutto assolutamente illegale. Tredici canzoni sulle quali non avevamo alcun diritto, da noi personalmente rippate da cd e caricate in un file .zip affinché il mondo le scaricasse. Emiliano: «Verissimo, all’epoca si parlava di musica liquida come se fosse l’emblema di una generazione. Quella che era passata dall’ascolto fisico a quello digitale, e ci dimentichiamo come quel passaggio sia stato essenzialmente e più realmente tra musica legale e musica illegale.

Tre anni dopo quella compilation sono sbarcati in Italia prima Deezer e poi Spotify: Deezer addirittura fece un focus group dove emerse che per i ventenni italiani fosse assolutamente normale ascoltare e reperire musica illegalmente. In questi anni c’è stato proprio un totale cambiamento dei consumi e del modo in cui stiamo su internet».

È il caso eclatante di un settore dato quasi per morto che poi è incredibilmente riuscito, davvero, a “sconfiggere la pirateria”. Anche se, come sappiamo, sono molte e dibattute le problematiche di quello che si è rivelato il “modello vincente”.
Gli anni passati sono tredici, e nel frattempo sono tante le canzoni che avremmo potuto aggiungere. Nell’inverno successivo ne sarebbe addirittura uscita una intitolata “Summertime Sadness”.

Secondo Emiliano: «Una canzone che per me in qualche modo rimanda all’estate anche se non so se poi si può riferire direttamente alla stagione estiva è “Chamber of Reflection” di Mac De Marco, che parla in realtà di un amore finito ma lo fa proprio con quel mood malinconico strascinato da pomeriggio estivo dopo il temporale che è anche un ricordo chiaro di adolescenza passata.

“Feels like summer” di Childish Gambino invece parla proprio d’estate e lo fa con un modo perfetto da canzone estiva molto estiva ma con un testo che in realtà parla di giornate tutte uguali e una vita che scorre immune ai cambiamenti come sono appunto certe tradizioni estive identiche in quasi tutte le parti del mondo (o per lo meno dell’Occidente).

D’altronde l’estate si presta tantissimo a ispirare canzoni ed è perfetta per fare “compilation” (io comunque non ho mollato e dal 2022 a Ferragosto faccio uscire Ferrarrosto, che però è una playlist)».

Insomma, dopo che vi siete letti questa storia non potevamo esimerci, e ve l’abbiamo messa – rigorosamente senza aggiunte o modifiche, anche se, andando a memoria, siamo abbastanza sicuri dei brani ma non del loro ordine – su Spotify, in maniera legalissima. Talmente legale che manca una canzone, perché quel disco di Battisti su Spotify non c’è (se volete recuperarla, era “Windsurf”).

È interessante anche notare, in chiusura, che l’algoritmo nel suggerire altre canzoni da aggiungere alla playlist fa il suo dovere consigliando cose come Stephen Malkmus o gli Spiritualized, ma non è in grado di cogliere il tema di fondo – evidentemente neanche riconoscendo la parola “summer” nella maggior parte dei titoli. Forse manca ancora qualche mese al completo dominio delle macchine. Buon ascolto, e buona (trist)estate.

Ognuno di noi ha un libro, una canzone, un film che associa all’estate. “Cose d’agosto” è una raccolta di articoli in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano questo loro feticcio estivo, che sia intellettuale o smaccatamente pop.

È morto John Mayall, gigante del British blues (rollingstone.it)

RIP

Aveva 90 anni. Senza di lui, il rock inglese sarebbe stato diverso.

La discografia, l’influenza su Eric Clapton, i Fleetwood Mac e Mick Taylor, il rapporto con la musica nera, la filosofia di vita, la strada. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John»

È morto John Mayall. Il godfather of British blues aveva 90 anni e si era ritirato dall’attività on the road per problemi di salute. L’annuncio viene dalla famiglia: «È con grande tristezza che diamo la notizia della morte di John Mayall. S’è spento serenamente nella sua casa in California ieri, 22 luglio 2024, circondato dall’affetto della famiglia. I problemi di salute che lo aveva costretto a porre fine alla sua epica carriera on the road hanno infine dato pace a uno dei più grandi guerrieri della strada di questo mondo». Non è stata ancora comunicata la causa del decesso.

«Ci ha regalato 90 anni d’instancabile impegno nell’educare, ispirare e intrattenere», si legge ancora nel comunicato. Al momento della morte erano presenti le ex mogli Pamela e Maggie, la segretaria Jane, gli amici più cari. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John. Ti vogliamo bene».

Mayall è stato uno dei grandi pionieri del blues nell’Inghilterra degli anni ’60. Nei suoi Bluesbreakers sono passati musicisti del calibro di Eric Clapton, Mick Fleetwood, John McVie, Peter Green, Mick Taylor, quest’ultimo noto per aver fatto parte dei Rolling Stones. Senza figure “paterne” come lui e Alexis Korner, il British blues sarebbe stato diverso e quindi anche il rock inglese come lo abbiano conosciuto nella seconda metà degli anni ’60 che gli deve parecchio.

Nato nel Cheshire nel novembre 1933, appassionato fin da piccolo di blues e jazz americano, ha iniziato a suonae da autodidatta pianoforte, chitarra, armonica a bocca. Ha cominciato a suonare nelle band negli anni ’50, dopo essere stato con l’esercito in Corea, in un’epoca in cui i grandi del blues americano erano per il resto del mondo e quindi anche per gli inglesi figure lontane, persino esotiche, dal repertorio tutto da indagare.

Quelli che consideriamo giganti del blues americano non avevano alcun mercato in Europa. Giovani inglesi come Mayall, Alexis Korner e Cyril Davies offrivano la loro lettura di quella musica grezza, vera e lontana, ponendo le basi per un parte significativa della storia del rock. Era anche una musica che, sradicata dal mondo di sfruttamento in cui era nata, sapeva di libertà. La sofferenza che esprimeva era vissuta come universale.

«Il blues» ha detto Mayall una decina d’anni fa Guardian «s’adattava alla perfezione allo stile di vita dei primi anni ’60. Tutto stava cambiando nella moda, nell’arte, nella politica. Negli anni ’50 in Gran Bretagna si ascoltava il jazz tradizionale e l’interesse per il blues è nato proprio nella scena jazz. È successo qui e non in America perché all’epoca la loro scena era caratterizzata dalla segregazione razziale». Musicisti come Elmore James, Freddie King, JB Lenoir appartenevano a un altro mondo, ma «parlavano dei nostri sentimenti e delle nostre vite».

Mayall ha fondato i Bluesbreakers nel 1963 dopo essersi trasferito a Londra su suggerimento di Korner (a fine decennio andrà a vivere in California), suonando nei club della città tra cui il Marquee. Del gruppo ha fatto parte com’è noto Clapton, fuoriuscito dagli Yardbirds e in cerca di un’esperienza musicale meno pop.

Il disco di riferimento è Blues Breakers del 1966, attribuito a John Mayall with Eric Clapton, quando quest’ultimo è ormai lanciato verso il successo coi Cream. Nel successivo e fondamentale A Hard Road il chitarrista solista è invece Peter Green, futuro membro chiave dei Fleetwood Mac, ma sono passati dal gruppo, sorta di nave-scuola del rock-blues britannico, moltissimi musicisti, in un continuo avvicendamento nella line-up tipico più delle formazioni jazz con un bandleader fisso che dei gruppo rock.

Suonare, suonare, suonare era il suo credo. Diffondere il verbo del blues – uno dei suoi album s’intitola Crusade – era la sua missione, che portava a termine non solo facendo i pezzi dei grandi, ma anche pubblicandone di suoi autografi. «Mai pensato che suonare il blues significasse copiare alta gente», ha detto.

«Un bluesman deve cantare della propria vita. E dopo un po’ mi sentito sufficientemente sicuro da farlo anch’io, oltre a suonare cover e tributi. Se la musica è la rappresentazione della tua vita, allora dovevo introdurre un elemento jazz, con cui sono cresciuto», si veda ad esempio The Turning Point di fine anni ’60.

Per una ventina d’anni, a patire dalla metà degli ’80, Mayall ha rimesso in piedi una nuova versione dei Bluesbeakes, per poi continuare semplicemente con la sua band fino al ritiro annunciato nel 2021, quando aveva 87 anni. «Per via dei rischi derivanti dalla pandemia e dell’età avanzata, ho deciso che è giunto il momento di appendere le road shoes al chiodo», ha detto.

Era riverito dai colleghi, anche dai bluesman afroamericani che non si sentivano defraudati ma ne elogiavano l’opera di divulgazione. È il caso ad esempio di B. B. King che lo considerava un maestro conscio che senza di lui e altri divulgatori «molti di noi musicisti neri d’America passeremmo ancora l’inferno». Era uno che dava spazio ai suoi musicisti, come ha fatto notare Walter Tout: «Per un chitarrista blues, un concerto dei Bluesbreakers e il top, è tipo il Monte Everest. Se suoni con B. B. King o con Buddy Guy ti limiti a fare accordi tutta la sera. E invece con John sei parte integrante della band, ti fa fare gli assoli, grida il tuo nome dopo ogni pezzo, ti porta sul fronte del palco e ti fa cantare».

Molti musicisti e appassionati hanno conosciuto il blues ascoltando i suoi dischi prima ancora di quelli dei bluesman afroamericani, anche in Italia. «Ha indicato la strada a migliaia di giovani, che grazie a lui e ai suoi capolavori discografici hanno scoperto le origini e la bellezza della “musica origine”», scrive oggi Fabio Treves sui Facebook. «Quando lo ascoltai nel lontano 1965, a Londra, mi innamorai della sua musica, del suo canto, dell’armonica suonata con semplicità e senza inutili virtuosismi. Era un sagittario cocciuto e coerente che non ha mai abbandonato la strada del blues. Il mio soprannome “Puma di Lambrate” lo inventò un giornalista negli anni ’70 proprio in omaggio a John, “il Leone di Manchester”. Grazie John, senza di te il blues oggi non sarebbe quello che è».

Mayall ha raccontato la sua storia nell’autobiografia del 2019 scritta con Joel McIver Blues From Laurel Canyon: My Life As A Bluesman, il suo ultimo album in studio è The Sun Is Shining Down del 2022. Quest’anno la Rock and Roll Hall of Fame gli ha riconosciuto il Musical Influence Award, dedicato a chi ha esercitato un’influenza determinante sul rock e la sua cultura. Lui diceva che il blues è la musica che «esprime con cruda onestà le esperienze di vita». Ne amava il mistero: «Credo che nessuno sappia esattamente cosa sia. È solo che non riesco a smettere di suonarlo».

Tutti i dischi di Robert Wyatt, dal peggiore al migliore (rollingstone.it)

di

Canzone e sperimentazione, una voce sottile e 
inconfondibile, suoni impalpabili e struggenti, 
tutto l’amore per il jazz: 

la classifica degli album dell’ex «batterista bipede» dei Soft Machine

La musica di Robert Wyatt gode da sempre di una stima illimitata, sin dai tempi in cui era batterista-cantante dei Soft Machine e poi alla fine di quell’esperienza (per lui una ferita mai sanata) e alla nascita dei Matching Mole (se lo si pronuncia alla francese diventa Machine Molle = Soft Machine).

In entrambi i casi Wyatt contribuisce ad album destinati alla storia della popular music come Third dei Softs e Matching Mole. Poi però succede qualcosa di tragico: il 1° giugno 1973, durante la festa di compleanno di Gilli Smyth dei Gong e della poetessa/performer Lady June, un Wyatt strafatto e ubriaco si arrampica sul tetto per tentare di calarsi sul balcone del piano dove si sta svolgendo la festa e sorprendere tutti.

Sono pochi passi ma sufficienti per cambiargli per sempre la vita. Appoggia male un piede, scivola e cade nel vuoto. Al suo risveglio in ospedale si ritrova paralizzato dall’addome in giù.

Quella è la fine del «batterista bipede», come Robert ha sempre definito la sua vita prima dell’incidente. La cosa sconvolge i suoi amici e la scena musicale tutta, e porta a bellissime iniziative come il concerto organizzato dai Pink Floyd (con i quali i Soft Machine avevano speso una buona parte dei ’60 in tour) il cui incasso è devoluto a Wyatt per le cure ospedaliere. Ma i link con i Floyd, lo si vedrà leggendo, non finiscono qui.

Supportato dalla fedele moglie/collaboratrice (è autrice dei tutte le sue copertine e di diversi testi) Alfreda Benge, detta Alfie, Wyatt mette da parte le inquietudini e le esagerazioni che hanno caratterizzato gli anni giovanili e si concentra su una musica che altro non può essere definita se non la musica di Robert Wyatt.

Dentro ci sono echi della scuola di Canterbury (non potrebbe essere diversamente), prog, sperimentali, world. E c’è quel jazz che in definitiva rappresenta il più grande amore dell’artista. Ma soprattutto c’è la sua voce. Una voce che ha influenzato cantanti moderni (qualcuno ha detto Thom Yorke?) e che o la si apprezza in tutte le sue sfumature o la si rifiuta: sottile, sempre al limite dello spezzarsi, addirittura dell’andare fuori tono.

Però dolce, sicura, riconoscibilissima, in grado solo con poche note di scaldare l’anima come un caminetto acceso in una notte di neve. Infine ci sono le sue canzoni e le molte cover con le quali spesso si è misurato: rarefatte, impalpabili, struggenti, solo sue.

Ma anche agguerrite in altri momenti. Col tempo infatti Wyatt ha saputo mettere in atto un fiero impegno politico, schierandosi con il Partito Comunista Britannico e trovandosi coinvolto in iniziative umanitarie.

Dal 1974 al 2010 (anno del ritiro dalle scene) Robert ha dato alle stampe nove album (più una raccolta di singoli inediti inclusa in questa classifica), una gran varietà di singoli e si è reso disponibile per un numero impressionante di collaborazioni (da citare almeno quella con i C.S.I. per la cover della loro Del mondo cantata in italiano, e l’ultima in ordine di tempo con l’amico di vecchia data David Gilmour per il suo Rattle That Lock).

10 The End of an Ear 1970

Wyatt incide The End of an Ear quando è ancora in forza nei Soft Machine, per piazzare su nastro le molte idee che il gruppo non gli permette di esprimere appieno. Il suo primo disco solista è molto diverso da quelli che seguiranno, non ci sono canzoni ma solo abbozzi (dedicati a una schiera di amici) che si muovono tra il free jazz e la musica contemporanea.

Sperimentazione pura con la voce di Wyatt (che suona tutti gli strumenti) a condurre le danze in un delirio frenetico. The End of an Ear può risultare orribile o estasiante, dipende dallo stato d’animo.

9 Comicopera 2007

Il problema di Comicopera è che per la prima volta Wyatt fa un po’ il verso a se stesso mettendo in campo poche invenzioni interessanti, questo nonostante la solita sfilza di collaboratori di prestigio (Paul Weller, Paul Manzanera, Brian Eno…) e testi pungenti con diverse stilettate al sistema capitalista.

Per il resto pare più una raccolta di brani scartati da altri dischi che un’opera completa, ma qualsiasi raccolta di materiale “scarso” da parte di Wyatt è sempre un bel sentire.

8 Ruth Is Stranger Than Richard 1975

Arriva dopo lo straordinario esito di Rock Bottom ed è ancora una volta prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd. Ma spariglia le carte in tavola sottolineando l’indole mai doma del suo autore che invece di adagiarsi sugli allori preferisce dar vita a un’opera più ruvida, dai contorni più improvvisativi.

Wyatt  mette la voce e i testi a disposizione di un tessuto free messo in scena dai suoi collaboratori (tra gli altri Eno e Fred Frith degli Henry Cow) levando parecchia comunicativa alle canzoni.

7 Cuckooland 2003

È forse il disco nel quale l’amore per il jazz di Wyatt esce fuori in maniera più prepotente: atmosfere ovattate, notturne, felpate, distantissime da qualsiasi tentazione pop, con il leader accompagnato dai soliti Eno, Manzanera, Weller e in più un cameo di David Gilmour in Forest. Purtroppo una sensazione di monotonia da un certo punto in poi si fa strada.

Non mancano i momenti felici, vedi la toccante Lullaby for Hamza e il sax di La Ahada Yalam.

6 Nothing Can Stop Us 1982

Tra il 1975 e il 1985 Wyatt interrompe l’attività discografica “regolare” dedicandosi all’impegno politico, a colonne sonore (da citare quella per The Animals Film, indagine sull’uso degli animali negli allevamenti intensivi, nella ricerca scientifica e militare) e una serie di singoli inediti, contenenti in larga parte cover.

Questi verranno raccolti nel 1982 nell’antologia Nothing Can Stop Us in cui trovano spazio brani di Violeta Parra, Peter Blackman, Ivor Cutler, Willie Johnson e altri. Addirittura c’è una rivisitazione di un brano degli Chic, At Last I Am Free. Il tutto reso chiaramente “alla Wyatt”.

5 …For the Ghosts Within 2010

È il lavoro più cameristico di Wyatt, realizzato con l’ausilio del jazzista israeliano Gilad Atzmon della violinista inglese Ros Stephen. Ed è una meraviglia sentire la sua voce muoversi in tutta la sua raffinatezza, e anche fragilità, nelle trame sonore tessute dai due.

In repertorio una serie di classici del jazz a firma Ellington, Strayhorn, Monk, Mercer, più diversi brani di Wyatt e alcuni inediti. Non importa che i brani siano stati composti da uno o dall’altro, è la voce di Wyatt qui a svettare in tutta la sua magia.

4 Dondestan 1991

Dondestan è uscito nel 1991 in un mix fatto un po’ in fretta a causa della mancanza di tempo e di budget. Successivamente, grazie anche al successo di Shleep, emergerà un nuovo mix col titolo Dondestan (Revisited) che mette maggiormente in risalto le sottigliezze delle composizioni.

Come Old Rottenhat, è un lavoro nel quale Robert suona ogni strumento, con testi fortemente politicizzati e più quel tocco free che si diverte a disseminare. Ma sono i brani malinconici come NIO (New Information Order) e Sight of the Wind ad avere un impatto emotivo che solo Wyatt può produrre.

3 Shleep 1997

Nel 1997 nel quale in Italia (caso unico al mondo) viene pubblicato un tributo a Wyatt (The Different You – Robert Wyatt e noi, organizzato da Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo e pubblicato dal Consorzio Produttori Indipendenti) esce Shleep, suo più grande successo dai tempi di Rock Bottom.

È un album sereno, variegato, in grado di mettere sul piatto i diversi mondi wyattiani in maniera perfetta. Con diverse perle sonore tra cui una che spicca per intensità: Maryan, scritta col chitarrista jazz Philip Catherine e ripresa con eleganza e trasporto da Ginevra di Marco e Cristina Donà nel tributo.

2 Old Rottenhat1985

Nel 1985 Wyatt mette fine al silenzio discografico con uno dei suoi lavori più particolari e riusciti. Interamente suonato con tastiere economiche, tipo le Casio che tanto andavano di moda negli anni ’80, Old Rottenhat contiene brani di pura dolcezza wyattiana come AllianceUnited States of AmnesiaThe Age of Self.

Ma è tutta la scaletta a non lasciare un attimo di tregua alla bellezza. Con sempre quella sensazione che ogni nota che esce dalla sua ugola possa spezzarsi da un momento all’altro, così come il cuore di chi ascolta.

1 Rock Bottom 1974

Prima posizione scontata per uno degli album più importanti degli ultimi 50 anni. Concepito nei giorni di convalescenza a seguito dell’incidente e prodotto da Nick Mason, il disco presenta un Wyatt fresco e nuovo, che compone canzoni che entrano nell’anima del mondo. Sospeso tra umori jazz, melodie struggenti ed esperimenti, Rock Bottom farà scuola per il suo carattere al tempo stesso tortuoso e godibile.

Al suo interno molta malinconia, ma anche uno spirito ironico e vitale che permette a Wyatt di pubblicare alcune tra le sue canzoni più belle, una su tutte Sea Song che è pura poesia per il suo amore con Alfie. Ma è tutto l’album a essere una lunga lettera d’amore alla consorte, alcuni brani portano addirittura il suo nome.

Rock Bottom è l’equilibrio perfetto tra canzone e sperimentazione, tra jazz e tutto ciò che musicalmente c’è di bello sul pianeta Terra.