Storia e battaglie di Maddalena Morgante, la parlamentare contro Rosa Chemical a Sanremo (editorialedomani.it)

di VANESSA RICCIARDI

La deputata di Fratelli d’Italia sostiene che 
Sanremo sarà l’ennesimo spot a favore di «gender», 
per altro in fascia protetta. 

Sui social l’hanno definita “la nuova Pillon”, ma lei ha già nuovi bersagli da colpire: ha partecipato alla conferenza dei Pro Vita a base di negazionismo climatico e contro l’ambientalismo radicale

Sciata patriottica con il ministro Francesco Lollobrigida, cognato della presidente del Consiglio Giorgia Meloni; supporto diretto della sottosegretaria Isabella Rauti, figlia del segretario del Movimento sociale italiano; condivisione dei video di Galeazzo Bignami, il deputato che si vestiva goliardicamente da nazista, e infine foto profilo con Ignazio La Russa, il presidente del Senato con i busti di Mussolini: questo è il profilo social della deputata Maddalena Morgante, la parlamentare di Verona che si è fatta notare per aver criticato Rosa Chemical, cantante in gara a Sanremo a suo dire troppo “fluido”.

Un intervento divenuto virale in poche ore che ha ribadito la battaglia contro “il gender” alla Rai di FdI, mostrando il tipico spessore culturale del partito di Giorgia Meloni, che pochi mesi fa se la prendeva con l’episodio con due mamme di Peppa Pig.

Maddalena Morgante, 41 anni, è avvocata e ha due figli, ma soprattutto dal 2021 è responsabile regionale del dipartimento Pari opportunità, famiglia e valori non negoziabili di Fratelli d’Italia in Veneto. Sembra un nome nuovo, visto che fa politica da appena due anni, in realtà non è proprio così.

A l’Adige ha raccontato che «da ragazzina frequentavo azione giovani, il gruppo giovanile di Alleanza Nazionale. Da allora, pur senza fare politica attiva, simpatizzavo per Alleanza Nazionale. Fratelli d’Italia è la prosecuzione politica di An. Quindi mi è venuto naturale collocarmi lì» … leggi tutto

Falsi vaccini, la dottoressa Grillone conferma la finta somministrazione a Madame e Camila Giorgi (gazzetta.it)

La dottoressa Daniela Grillone ha confermato i 
falsi vaccini per la cantante Madame e la 
tennista Camila Giorgi, 

indagate nell’inchiesta insieme ad altre 22 persone

Nessun colpo di scena, come qualcuno si aspettava: la dottoressa Daniela Grillone, finita in manette lo scorso anno insieme al nefrologo Volker Erich Goepel con l’accusa di aver finto di somministrare il vaccino anti-COVID a centinaia di pazienti, ha confermato la propria versione dei fatti e il coinvolgimento dei due nomi celebri finiti tra gli indagati: la cantante Madame e la tennista Camila Giorgi.

Nel corso dell’incidente probatorio che si è svolto ieri, chiesto dal pm Gianni Pipeschi, la dottoressa Grillone è stata descritta come un “fiume in piena”. Per due ore e mezza il medico ha risposto alle domande dei difensori dei 24 indagati, spiegando che la sua avversione al vaccino contro il COVID-19, in uno dei momenti più difficili della pandemia, sarebbe nata dopo l’autosomministrazione del vaccino di AstraZeneca, il primo arrivato in Italia: “Ho visto che sono comparse sul mio corpo delle piaghe e ho avuto pesanti effetti collaterali”.

LA DECISIONE DI FINGERE DI SOMMINISTRARE I VACCINI

Di fronte a quella reazione, e dopo un consulto con un medico chirurgo di sua conoscenza, sarebbe nata l’idea di eseguire vaccini fasulli. O meglio, di non eseguire i vaccini e dichiarare di averlo fatto, così da far ottenere il Green Pass ai suoi pazienti. Il passaparola avrebbe portato presso lo studio della dottoressa una serie di pazienti no vax, inclusi i 24 finiti nel registro degli indagati.

MADAME E I FALSI VACCINI

La dottoressa sembra aver confermato che per ottenere la falsa dichiarazione di eseguita vaccinazione non era necessario recarsi in studio. Sarebbe questo il caso della cantante Madame, “Mai vista prima” … leggi tutto

L’insopportabile coro degli indignati speciali per Zelensky a Sanremo (linkiesta.it)

di

Perché Putin è Putin

Il presidente ucraino interverrà con un messaggio nella serata finale del Festival della canzone italiana. La cosa dà fastidio a molti. Forse perché bastano pochi minuti per raccontare la brutalità e i crimini di guerra commessi dai russi

Amadeus va alla guerra. Come se fosse così banale, come tutti i mali del mondo, confondere le canzonette di Sanremo con il massacro in Ucraina voluto da Mosca. Allora partiamo da chi è preoccupato di trasformare il palco dell’Ariston in un proscenio bellico.

Volodymyr Zelensky ha chiesto al conduttore della principale manifestazione canora nazionalpopolare, attraverso Bruno Vespa, di poter intervenire con suo video preregistrato. Amadeus ha detto di sì. Pochi minuti nella serata finale dell’11 febbraio per il leader ucraino che il vignettista Vauro considera un «personaggio da fumetti», quindi ridicolo per le magliette che indossa con il simbolo del suo Paese. Lui, Vauro, ridicolo invece non si sente quando va in giro, anche negli studi televisivi, con le camice militari dell’Armata rossa.

Dimenticando che il suo caro amico Putin a quel tipaccio con la barba voleva tagliare la gola. Tutti scandalizzati adesso per Sanremo come Zelensky non avesse parlato ai Golden Globes, al Festival di Cannes e a quello di Venezia (dimentico qualcosa di meno importante di Sanremo?). Ha parlato e nessuno si è indignato o sognato di dire «e che cazzo, fateci vedere i film, levate quel tizio, quell’attore fallito dal red carpet».

Ma Sanremo è Sanremo, guai a infilarci dentro questa lagna dei morti, dei bombardamenti su case, scuole, ospedali. Basta con la solfa del popolo orgogliosissimo che resiste e vuole stare in Europa, vivere come gli europei e non prigioniero dell’autarchia russa. Non sanno che si perdono!

Perché questa fastidiosa distorsione acustica, tra fiori e melodie, del sangue che scorre (per colpa sua?). «Non è educativo, oltre che di cattivo gusto, mescolare la musica con la guerra», tuona il geopolitologo Lucio Caracciolo nel programma di Lilli Gruber, per la verità un po’ sconcertata, dove Massimo Giannini parla di gravitas della morte calata in maniera inopportuna in una bella serata spensierata.

Amadeus, che sa come fare ascolto e ha già la pubblicità in overbooking, secondo il direttore della Stampa dovrebbe fare come fece Fabio Fazio nel 2009 che invitò a Sanremo Michail Sergeevič Gorbačëv, accompagnato dalla moglie Raissa. E vuoi mettere l’ultimo segretario del Pcus insignito del premio Nobel per la pace con quel guerrafondaio di Volodymyr Zelensky che sta provocando un’escalation che potrebbe portarci al disastro atomico? Una cosa che va venire il sangue alla testa a Nicola Porro, vice direttore del Giornale. «Ma perché ci dobbiamo sorbire Zelensky?», si chiede il conduttore televisivo di Quarta Repubblica.

L’abbraccio destra-sinistra al grido giù le mani dalla melodia sanremese, raggiunge l’apoteosi con il contributo di un ministro della Repubblica. Stiamo parlando del leader della Lega, Matteo Salvini, che ha ancora una fratellanza politica con Russia Unita, il partito di Putin. Spera che «il palcoscenico della città dei fiori rimanga riservato alla musica: è qualcosa che penso tutti si aspettano». Lui, che è amante del festival vecchia maniera e adora la canzone italiana, non sa come canta Zelensky. «Ho altre preferenze». Magari, chissà, avrebbe preferito il coro dell’Armata rossa che si esibì con l’italiano vero Totò Cutugno nel festival del 2013 (sempre presentato da Fabio Fazio).

No, forse è troppo brutto ricordare quei poveri coristi che disgraziatamente, qualche anno dopo, morirono in un incidente aereo a Sochi. Siamo sicuri però che, cantando sul palco dei fiori, fecero piangere di gioia e non scandalizzare il vignettista Vauro che nella sua casa-museo di Roma ha una collezione di cimeli sovietici da fare invidia agli stalinisti moscoviti. Meglio l’Internazionale che il “nazista” di Kiev.

E allora tutti a Sanremo l’11 febbraio a contestare la «propaganda di morte in tv». Andiamo a parlare di pace, diplomazia, di cessate il fuoco. Con chi, a Mosca, non è dato saperlo. Tutti a fare il controcanto a Zelensky. Addirittura ci saranno due manifestazioni. Una organizzata da un fantomatico Comitato di liberazione nazionale con Pecora nera, nel piazzale di Pian di Nave, a Sanremo.

Ma quella più sexy sarà il controfestival di Carlo Freccero dove interverrà Dibba. Non si può mancare il comizio di Alessandro Di Battista, che si porterà nel tascapane, tra una partita di padel e una comparsata a pagamento a Dimartedì, il post di Beppe Grillo «dalle bombe alle canzoni, anche l’orrore fa spettacolo». Proprio lui, il comico genovese, che con l’orrore della casta, delle banche, delle armi ha fatto i più grandi incassi e addirittura ha fondato un partito che fu di maggioranza relativa. A quanto pare ci saranno anche gli ucraini fuori dal teatro Ariston ad applaudire il loro presidente. Magari chi è da quelle parti potrebbe farci un salto in quella parte della barricata.

Ma perché i pochi minuti di Zelensky a Sanremo fanno tanta paura, danno tanto fastidio? Non è certo perché si disturba la gara canora che già dura un’infinità di ore per giorni fino a notte fonda, da ammazzare il più insonne degli italiani. Forse una spiegazione potrebbe essere legata al fatto che, parlando in programma nazionalpopolare e seguito da decine di milioni di telespettatori, il presidente ucraino potrebbe convincere gli italiani incerti della brutalità russa e sulla necessità di difendere i confini occidentali dell’Europa. Far cambiare idea a chi pensa «ma a noi di questi che ce ne frega?».

C’è un pezzo non minoritario che ritiene che la guerra in Ucraina sia l’unica e primaria fonte dei rincari energetici. Oppure che l’Italia insieme all’Europa è supina all’America, che stiamo facendo una guerra che non è la nostra. Oppure che abbiamo provocato l’orso russo e ora noi dobbiamo spendere tutti questi soldi per armare gli ucraini, con il rischio dell’atomica. Valutazioni in buona fede per alcuni, polemiche politiche anti occidentali e anti americane per altri che arrivano a dire, come fa Marco Travaglio, che prima o poi dovremo fare i conti con i corrotti di Kiev e vedere dove sono finite tutte le armi che stiamo dando a quello con la maglietta da fumetto.

Ora, senza dubbio, come ha fatto tutte le volte che è intervenuto pubblicamente, Zelensky sa come fare comunicazione. Parla alle opinioni pubbliche occidentali che cominciano a essere stanche. La guerra sarà lunga, purtroppo. Ed essendo noi una democrazia in cui votare conta ancora qualcosa, potrebbe succedere che i governi occidentali stacchino la spina agli ucraini. Con il risultato di farli fagocitare da Putin e di assistere alla marcia dei macellai della Wagner nelle strade di Kyjiv.

C’è tutto questo. Ma c’è anche quello che disse Totò Cutugno in quel Sanremo del 2013 con alle spalle gli impettiti soldati del coro russo. Disse che Sanremo è molto seguita in Russia. Allora magari quel personaggio da fumetto vuole parlare anche ai russi, a quelle famiglie che non hanno visto più tornare i loro figli. Non sappiamo quanti potrà convincerne, quali argomenti userà. Magari in quel momento l’etere russo sarà oscurato. Di sicuro farà incazzare Putin, che non vedrà l’ora di conoscere il vincitore del festival di Sanremo.

FACT-CHECKING / No! Questi combattenti ucraini a Cherson non sono nazisti (e tra di loro c’è un soldato americano bisessuale) (open.online)

di Antonio Di Noto

Il nome del gruppo riprende quello di un 
compositore tedesco che prese le distanze dal 
nazismo e aiutò gli ebrei

Un teschio su sfondo nero, occhi iniettati di sangue e nome in tedesco. Il tutto su una bandiera rossa e nera. Sopra lo stemma il nome della divisione militare: Furtwängler. Questo è quello che si vede in una foto che ritrae alcuni militari ucraini a Cherson, in occasione della sua liberazione dagli occupanti russi avvenuta tra il 10 e l’11 novembre.

Ad alcuni utenti sui social è bastato il nome in tedesco della divisione militare per tracciare un parallelo tra questa e il nazismo. Associazione che si è poi diffusa a buona parte dell’esercito ucraino, come suggerisce la propaganda del Cremlino, che usa la presunta massiccia presenza di nazisti in Ucraina per giustificare l’invasione del Paese in corso da febbraio.

Analisi

L’immagine mostrata di seguito è stata utilizzata per sostenere che i soldati ucraini siano nazisti sia su Telegram, che su Twitter e Facebook (qui qui). Vediamo lo screenshot di uno dei post. Nella descrizione si legge:

«I media polacchi mostrano foto dalla città di Cherson. “Mostrano riferimenti a simboli che non sono nemmeno nazionalisti, ma neonazisti. Ciò che sembrava inimmaginabile solo pochi anni fa sembra essere diventato un luogo comune. Nessuno si indigna, nessuno commenta” – Politologo ed ex membro polacco del Sejm Mateusz Piskorsky»

Dove e quando è stata scattata la foto?

Ma si tratta veramente di simboli nazisti? Cerchiamo di capirlo. Innanzitutto è necessario verificare se veramente la foto dei militari sia stata scattata a Cherson in occasione della liberazione della città. La conferma si ha guardando alla bandiera ucraina che sventola in cima al monumento, sia nella foto diffusa su Twitter, che in quelle della liberazione. Come esempio abbiamo scelta quella usata dalla Cnn. Durante l’occupazione, infatti, i simboli ucraini erano stati sostituiti da equivalenti russi, e solo durante la liberazione la bandiera gialloblu è tornata a svettare sulla città.

Chi è Furtwängler?

Detto ciò, il primo elemento che attira l’attenzione è il nome sulla bandiera che uno dei militari tiene in mano. Cercandolo su Google si scopre che Gustav Heinrich Ernst Martin Wilhelm Furtwängler è stato un importante compositore e direttore d’orchestra tedesco, nato nel 1886 e morto nel 1954. Sebbene non abbia mai sposato gli ideali del nazismo, fu tra i pochi importanti musicisti a non lasciare la Germania durante il periodo in cui l’ideologia politica prese piede.

Non fu mai cacciato, perseguitato, o fatto tacere, dato avrebbe dato un’impressione eccessivamente dura del regime, ma Furtwängler si espresse sempre contro l’antisemitismo e l’ubiquità del simbolismo nazista. Viene già meno, quindi, il principale indizio che i complottisti usano per sostenere che la divisione sia un nucleo nazista. Tuttavia, c’è di più.

I nazisti amici del “battaglione unicorno”?

Cercando informazioni sulla divisione militare è possibile imbattersi in un thread su Reddit in cui un utente sostiene che uno dei membri della divisione sia bisessuale. L’uomo in questione è un combattente statunitense veterano dell’Iraq di nome Eddy Etue (@eddy_e2 su Instagram).

Scorrendo il suo profilo ci si può imbattere in alcuni post, ad esempio questo, in cui si nota l’effige di un unicorno sulla manica dell’uniforme. Lo stemma denota i combattenti parte della comunità Lgbtq+ in Ucraina, come spiega questo articolo di Reuters. Ad ulteriore conferma dell’orientamento sessuale di Etue c’è un highlight sul suo profilo, nel quale il veterano condivide il post di una pagina Instagram chiamata Lgbtqmilitary che lo ritrae … leggi tutto

E infine Bowie capì che la vita è caos (doppiozero.com)

di Daniele Martino

David Bowie è morto il 10 gennaio 2016: 

nell’anno successivo sono usciti vari documentari (al Festival di Cannes 2022 è stato presentato Moonage Daydream di Brett Morgen, una “cinematic experience”, nelle sale italiane per qualche giorno a fine settembre), mostre, libri per assestarne il mito:  nel primo anniversario il Saggiatore pubblicò una raccolta di interviste, di cui abbiamo scritto qui.

Ora lo stesso editore torna con un librino in cui un anonimo editor da rimontato per temi un altro gruppo di intervista rilasciate dall’artista nel tempo a “New Musical Express”, “Melody Maker”, “ZigZag”, “Mojo”, “Time Out” “Ikon”, “Q”, “Rolling Stone”, “The Face”, “Filter”, “The Word”, nei bei tempi in cui anche in Italia pullulavano le riviste stampate sulla musica.

Gli intervistatori erano orientati a definire con lui lo stile musicale più che l’iconografia scenica e mondana dell’icona pop, lo Ziggy Stardust, il Duca Bianco, la Stella Nera, eccetera. Adoperandomi perché Franco Battiato venga nel tempo considerato uno dei grandi artisti multiversi italiani del Novecento, come Pasolini, a sei anni dalla morte di Bowie comincio a conoscere e stimare quella di Bowie come una delle grandi produzioni di pensiero artistico di fine Novecento.

Entrambi nel loro privato amavano dipingere, entrambi hanno espresso una visione del loro tempo, Battiato molto nei testi, vera opera poetica complessiva, Bowie in modo più sensoriale, più sesto senso, più “astrale” come lui desiderava essere specie negli ultimi anni della sua vita.

Entrambi hanno attraversato una stagione di composizione elettronica che li ha fondati come compositori, oltre che abili creatori di canzoni pop. Bowie non ha mai dato molta importanza ai suoi testi, spesso insensati per intenzione, ma la sua musica – come dice in varie di queste interviste raccolte in Essere ribelli (il Saggiatore 2022) testimonia con qualche anno di ritardo vere e proprie ere dell’espressione artistica del Novecento: su tutti gli altri lo ha influenzato William S. Burroughs, con una letteratura schizzata dall’LSD, e più in generale lo spirito esistenziale ramingo, apolide della Beat Generation; ricorda Aldous Huxley che sul letto di morte decise di farsi di LSD per morire in colorate allucinazioni.

Bowie filosofo

Più volte, raccontando le overdose, i giri di valzer con la morte («Io amo la morte»), la sua noia abissale per la vita («Mi sono sempre sentito tappezzeria della vita»), le depressioni al fondo della tossicodipendenza, la stagione in cui ha tentato di placarsi con la meditazione, le fasi alcoliste, Bowie si avvicina alla formulazione ex post di una visione filosofica della vita sua e nostra di esseri umani caduti sulla Terra: «Sto cercando di fare di me stesso il messaggio» (citando McLuhan), «Temo di esserlo, un pessimista.

Spero che si possa trovare un qualche conforto nella compassione per le persone e per le situazioni stupide e disperate in cui si cacciano»; straordinaria questa intuizione, attualissima: «La gente non riesce a far fronte alla quantità di cambiamenti che avvengono nel mondo. Accade tutto troppo in fretta… c’è questa spirale ascendente a cui la gente tenta disperatamente di aggrapparsi, e ora tutti hanno iniziato a staccarsi. E le cose peggioreranno». La folgorazione finale la svela a Mikel Jollett di “Filter” nel 2003: «Non ci servono novità. Non ci servono! Penso che saremo molto più felici quando riusciremo ad accettare che la vita è caos. Non c’è alcuno schema. Non c’è alcun disegno. Non ci stiamo evolvendo. Dobbiamo trarre il meglio da ciò che abbiamo. E se riuscissimo ad accontentarci di questo, forse vivremmo più serenamente» … leggi tutto

Storia di Another Love, l’inno delle donne ucraine e iraniane della generazione TikTok (linkiesta.it)

di

Una canzone di 10 anni di Tom Odell è diventata 
la colonna sonora delle compagne dei soldati di 
Kyiv e della protesta in Iran. 

Ma anche il tormentone per musicare video di tutt’altra natura sui social, come già successo con Bella Ciao

Dopo l’ennesimo revival di “Bella Ciao” come inno di lotta ai quattro angoli del mondo, nemmeno fosse il passaparola della parte giusta, perché contiene la parola-chiave a cui gira attorno la canzone – “l’invasor” – che traccia il confine netto tra bene e male, da qualche mese succede un’altra cosa, più indefinibile, incastrata com’è tra i gangli della comunicazione contemporanea.

C’è questo pezzo, “Another Love”, vecchio di una decina d’anni, scritto dal cantautore inglese Tom Odell, quando era un ragazzo. Odell è un altro esponente dell’ormai inesauribile categoria di songwriters lamentosi, il cui capostipite identifichiamo nel diabolico James Blunt e che poi ha prosperato, includendo campioni di vendite come Ed Sheeran.

E “Another Love” è per l’appunto la giaculatoria d’un amante sfigatissimo, che le tenta tutte per tenersi vicino una tipa che evidentemente non ne vuole sapere – e il relativo videoclip è la fedele rappresentazione del tutto, con lui che canta imperturbabile mentre lei gli tira i piatti in testa.

Pezzo non brutto, ma indigesto a chi non sia più in possesso del serbatoio di romanticismo anagrafico in cui intingere il suo ascolto.

Però poi succede qualcosa di misterioso, attraverso un inesorabile crescendo sospinto da esoterici ammiccamenti: “Another Love” diviene la soundtrack della protesta, di quella vera, seria e drammatica in diversi angoli del mondo alle prese con tragiche circostanze, per come viene raccontata, messa in scena, iconizzata e resa fattore emotivo nella bacheca collettiva dei social – TikTok e Instagram in testa.

In particolare viene isolata la strofa del brano in cui Odell canta “Se qualcuno ti fa del male, io voglio battermi / ma troppe volte le mie mani si sono rotte / se userò la voce sarò una bestia / le parole vincono ma io so che perderò”, tratta da una sua esecuzione live, in cui a cantarla più che Odell è un gran coro del pubblico, fatto di voci femminili.

È così che prolifera la concisa colonna sonora della descrizione di un dramma nel suo momento-limite – quello della descrizione, nelle sue interpretazioni più diverse: si comincia nell’Ucraina sotto l’attacco dell’invasor e “Another Love” diviene il pendant del distacco, della separazione, dello smarrimento.

Pochi mesi dopo, il pezzo affiora dall’Iran, dopo la morte di Masha Amini, la ragazza arrestata a Teheran dalla “buoncostume” e morta in carcere. Le ragazze di Teheran su TikTok si filmano mentre si tagliano ciocche di capelli e scendono in strada a protestare e sotto c’è la canzone di Odell, a salmodiare della ragazza che l’ha mollato e di ciò che avrebbe dovuto fare per evitarlo.

Quindi, mentre la canzone resuscitata passa agevolmente il traguardo del miliardo di ascolti su Spotify, succede una cosa ancora più strana: sul solito palcoscenico globale di TikTok lo stesso brano viene usato a tormentone per musicare video di tutt’altra natura, quelli di feste e matrimoni, di dichiarazioni d’amore e magnifici tramonti: tutto si confonde e si sbriciolano le frettolose tesi sulla nascita di un inno trasversale generato dal basso per unificare l’impegno sociale e le buone cause.

Si sovrappongono caoticamente il dovere e il piacere, il dolore e l’esibizionismo, con il medesimo effetto straniante – in quel caso residuale – di “Bella Ciao” trasformato in martellone techno e suonato per un comune ballo troglodita.

Mentre i manager di Odell si fregano le mani contando i biglietti per i suoi concerti e valutando le prospettive del suo nuovo singolo (“Best Day of My Life”) e mentre lo stesso Odell si sente in obbligo di esprimere pubblicamente solidarietà alle donne iraniane che l’hanno scelto a orecchio e non per meriti documentati, resta lo sbigottimento per il rovesciamento delle prospettive nel quale è il pubblico, protagonista nell’effimera democrazia social, a decidere tutto, secondo logiche imperscrutabili e amorali. Secondo le quali, ad esempio, il vecchio può tornare a essere nuovo e conta più l’intuizione subitanea che mille campagne promozionali.

È tutto un flusso veloce, nel quale non c’è più differenza o frontiera tra le cose serie che richiedono sofferenza, e quelle volubili nelle quali ci vorremmo tutti perdere. Alla fine la vita è una sola e adesso si è concordato di rappresentarla collettivamente nello stesso modo, in certe app del cellulare, ovunque si abiti, a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Mentre la nostra esistenza scorre tra gioie e dolori, pene e desideri, la raccontiamo e, intanto, sullo sfondo, ancora soltanto per qualche settimana, risuona quella canzone che ci fa sentire meno soli e ci fa sentire parte di un gruppo. Un po’ come quei braccialetti che ti mettono al polso per entrare e uscire a tuo piacimento da una notte in discoteca. E che finisci per tenerti addosso anche il giorno dopo.