È morto John Mayall, gigante del British blues (rollingstone.it)

RIP

Aveva 90 anni. Senza di lui, il rock inglese sarebbe stato diverso.

La discografia, l’influenza su Eric Clapton, i Fleetwood Mac e Mick Taylor, il rapporto con la musica nera, la filosofia di vita, la strada. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John»

È morto John Mayall. Il godfather of British blues aveva 90 anni e si era ritirato dall’attività on the road per problemi di salute. L’annuncio viene dalla famiglia: «È con grande tristezza che diamo la notizia della morte di John Mayall. S’è spento serenamente nella sua casa in California ieri, 22 luglio 2024, circondato dall’affetto della famiglia. I problemi di salute che lo aveva costretto a porre fine alla sua epica carriera on the road hanno infine dato pace a uno dei più grandi guerrieri della strada di questo mondo». Non è stata ancora comunicata la causa del decesso.

«Ci ha regalato 90 anni d’instancabile impegno nell’educare, ispirare e intrattenere», si legge ancora nel comunicato. Al momento della morte erano presenti le ex mogli Pamela e Maggie, la segretaria Jane, gli amici più cari. «Continua a suonare il blues da qualche parte, John. Ti vogliamo bene».

Mayall è stato uno dei grandi pionieri del blues nell’Inghilterra degli anni ’60. Nei suoi Bluesbreakers sono passati musicisti del calibro di Eric Clapton, Mick Fleetwood, John McVie, Peter Green, Mick Taylor, quest’ultimo noto per aver fatto parte dei Rolling Stones. Senza figure “paterne” come lui e Alexis Korner, il British blues sarebbe stato diverso e quindi anche il rock inglese come lo abbiano conosciuto nella seconda metà degli anni ’60 che gli deve parecchio.

Nato nel Cheshire nel novembre 1933, appassionato fin da piccolo di blues e jazz americano, ha iniziato a suonae da autodidatta pianoforte, chitarra, armonica a bocca. Ha cominciato a suonare nelle band negli anni ’50, dopo essere stato con l’esercito in Corea, in un’epoca in cui i grandi del blues americano erano per il resto del mondo e quindi anche per gli inglesi figure lontane, persino esotiche, dal repertorio tutto da indagare.

Quelli che consideriamo giganti del blues americano non avevano alcun mercato in Europa. Giovani inglesi come Mayall, Alexis Korner e Cyril Davies offrivano la loro lettura di quella musica grezza, vera e lontana, ponendo le basi per un parte significativa della storia del rock. Era anche una musica che, sradicata dal mondo di sfruttamento in cui era nata, sapeva di libertà. La sofferenza che esprimeva era vissuta come universale.

«Il blues» ha detto Mayall una decina d’anni fa Guardian «s’adattava alla perfezione allo stile di vita dei primi anni ’60. Tutto stava cambiando nella moda, nell’arte, nella politica. Negli anni ’50 in Gran Bretagna si ascoltava il jazz tradizionale e l’interesse per il blues è nato proprio nella scena jazz. È successo qui e non in America perché all’epoca la loro scena era caratterizzata dalla segregazione razziale». Musicisti come Elmore James, Freddie King, JB Lenoir appartenevano a un altro mondo, ma «parlavano dei nostri sentimenti e delle nostre vite».

Mayall ha fondato i Bluesbreakers nel 1963 dopo essersi trasferito a Londra su suggerimento di Korner (a fine decennio andrà a vivere in California), suonando nei club della città tra cui il Marquee. Del gruppo ha fatto parte com’è noto Clapton, fuoriuscito dagli Yardbirds e in cerca di un’esperienza musicale meno pop.

Il disco di riferimento è Blues Breakers del 1966, attribuito a John Mayall with Eric Clapton, quando quest’ultimo è ormai lanciato verso il successo coi Cream. Nel successivo e fondamentale A Hard Road il chitarrista solista è invece Peter Green, futuro membro chiave dei Fleetwood Mac, ma sono passati dal gruppo, sorta di nave-scuola del rock-blues britannico, moltissimi musicisti, in un continuo avvicendamento nella line-up tipico più delle formazioni jazz con un bandleader fisso che dei gruppo rock.

Suonare, suonare, suonare era il suo credo. Diffondere il verbo del blues – uno dei suoi album s’intitola Crusade – era la sua missione, che portava a termine non solo facendo i pezzi dei grandi, ma anche pubblicandone di suoi autografi. «Mai pensato che suonare il blues significasse copiare alta gente», ha detto.

«Un bluesman deve cantare della propria vita. E dopo un po’ mi sentito sufficientemente sicuro da farlo anch’io, oltre a suonare cover e tributi. Se la musica è la rappresentazione della tua vita, allora dovevo introdurre un elemento jazz, con cui sono cresciuto», si veda ad esempio The Turning Point di fine anni ’60.

Per una ventina d’anni, a patire dalla metà degli ’80, Mayall ha rimesso in piedi una nuova versione dei Bluesbeakes, per poi continuare semplicemente con la sua band fino al ritiro annunciato nel 2021, quando aveva 87 anni. «Per via dei rischi derivanti dalla pandemia e dell’età avanzata, ho deciso che è giunto il momento di appendere le road shoes al chiodo», ha detto.

Era riverito dai colleghi, anche dai bluesman afroamericani che non si sentivano defraudati ma ne elogiavano l’opera di divulgazione. È il caso ad esempio di B. B. King che lo considerava un maestro conscio che senza di lui e altri divulgatori «molti di noi musicisti neri d’America passeremmo ancora l’inferno». Era uno che dava spazio ai suoi musicisti, come ha fatto notare Walter Tout: «Per un chitarrista blues, un concerto dei Bluesbreakers e il top, è tipo il Monte Everest. Se suoni con B. B. King o con Buddy Guy ti limiti a fare accordi tutta la sera. E invece con John sei parte integrante della band, ti fa fare gli assoli, grida il tuo nome dopo ogni pezzo, ti porta sul fronte del palco e ti fa cantare».

Molti musicisti e appassionati hanno conosciuto il blues ascoltando i suoi dischi prima ancora di quelli dei bluesman afroamericani, anche in Italia. «Ha indicato la strada a migliaia di giovani, che grazie a lui e ai suoi capolavori discografici hanno scoperto le origini e la bellezza della “musica origine”», scrive oggi Fabio Treves sui Facebook. «Quando lo ascoltai nel lontano 1965, a Londra, mi innamorai della sua musica, del suo canto, dell’armonica suonata con semplicità e senza inutili virtuosismi. Era un sagittario cocciuto e coerente che non ha mai abbandonato la strada del blues. Il mio soprannome “Puma di Lambrate” lo inventò un giornalista negli anni ’70 proprio in omaggio a John, “il Leone di Manchester”. Grazie John, senza di te il blues oggi non sarebbe quello che è».

Mayall ha raccontato la sua storia nell’autobiografia del 2019 scritta con Joel McIver Blues From Laurel Canyon: My Life As A Bluesman, il suo ultimo album in studio è The Sun Is Shining Down del 2022. Quest’anno la Rock and Roll Hall of Fame gli ha riconosciuto il Musical Influence Award, dedicato a chi ha esercitato un’influenza determinante sul rock e la sua cultura. Lui diceva che il blues è la musica che «esprime con cruda onestà le esperienze di vita». Ne amava il mistero: «Credo che nessuno sappia esattamente cosa sia. È solo che non riesco a smettere di suonarlo».

Tutti i dischi di Robert Wyatt, dal peggiore al migliore (rollingstone.it)

di

Canzone e sperimentazione, una voce sottile e 
inconfondibile, suoni impalpabili e struggenti, 
tutto l’amore per il jazz: 

la classifica degli album dell’ex «batterista bipede» dei Soft Machine

La musica di Robert Wyatt gode da sempre di una stima illimitata, sin dai tempi in cui era batterista-cantante dei Soft Machine e poi alla fine di quell’esperienza (per lui una ferita mai sanata) e alla nascita dei Matching Mole (se lo si pronuncia alla francese diventa Machine Molle = Soft Machine).

In entrambi i casi Wyatt contribuisce ad album destinati alla storia della popular music come Third dei Softs e Matching Mole. Poi però succede qualcosa di tragico: il 1° giugno 1973, durante la festa di compleanno di Gilli Smyth dei Gong e della poetessa/performer Lady June, un Wyatt strafatto e ubriaco si arrampica sul tetto per tentare di calarsi sul balcone del piano dove si sta svolgendo la festa e sorprendere tutti.

Sono pochi passi ma sufficienti per cambiargli per sempre la vita. Appoggia male un piede, scivola e cade nel vuoto. Al suo risveglio in ospedale si ritrova paralizzato dall’addome in giù.

Quella è la fine del «batterista bipede», come Robert ha sempre definito la sua vita prima dell’incidente. La cosa sconvolge i suoi amici e la scena musicale tutta, e porta a bellissime iniziative come il concerto organizzato dai Pink Floyd (con i quali i Soft Machine avevano speso una buona parte dei ’60 in tour) il cui incasso è devoluto a Wyatt per le cure ospedaliere. Ma i link con i Floyd, lo si vedrà leggendo, non finiscono qui.

Supportato dalla fedele moglie/collaboratrice (è autrice dei tutte le sue copertine e di diversi testi) Alfreda Benge, detta Alfie, Wyatt mette da parte le inquietudini e le esagerazioni che hanno caratterizzato gli anni giovanili e si concentra su una musica che altro non può essere definita se non la musica di Robert Wyatt.

Dentro ci sono echi della scuola di Canterbury (non potrebbe essere diversamente), prog, sperimentali, world. E c’è quel jazz che in definitiva rappresenta il più grande amore dell’artista. Ma soprattutto c’è la sua voce. Una voce che ha influenzato cantanti moderni (qualcuno ha detto Thom Yorke?) e che o la si apprezza in tutte le sue sfumature o la si rifiuta: sottile, sempre al limite dello spezzarsi, addirittura dell’andare fuori tono.

Però dolce, sicura, riconoscibilissima, in grado solo con poche note di scaldare l’anima come un caminetto acceso in una notte di neve. Infine ci sono le sue canzoni e le molte cover con le quali spesso si è misurato: rarefatte, impalpabili, struggenti, solo sue.

Ma anche agguerrite in altri momenti. Col tempo infatti Wyatt ha saputo mettere in atto un fiero impegno politico, schierandosi con il Partito Comunista Britannico e trovandosi coinvolto in iniziative umanitarie.

Dal 1974 al 2010 (anno del ritiro dalle scene) Robert ha dato alle stampe nove album (più una raccolta di singoli inediti inclusa in questa classifica), una gran varietà di singoli e si è reso disponibile per un numero impressionante di collaborazioni (da citare almeno quella con i C.S.I. per la cover della loro Del mondo cantata in italiano, e l’ultima in ordine di tempo con l’amico di vecchia data David Gilmour per il suo Rattle That Lock).

10 The End of an Ear 1970

Wyatt incide The End of an Ear quando è ancora in forza nei Soft Machine, per piazzare su nastro le molte idee che il gruppo non gli permette di esprimere appieno. Il suo primo disco solista è molto diverso da quelli che seguiranno, non ci sono canzoni ma solo abbozzi (dedicati a una schiera di amici) che si muovono tra il free jazz e la musica contemporanea.

Sperimentazione pura con la voce di Wyatt (che suona tutti gli strumenti) a condurre le danze in un delirio frenetico. The End of an Ear può risultare orribile o estasiante, dipende dallo stato d’animo.

9 Comicopera 2007

Il problema di Comicopera è che per la prima volta Wyatt fa un po’ il verso a se stesso mettendo in campo poche invenzioni interessanti, questo nonostante la solita sfilza di collaboratori di prestigio (Paul Weller, Paul Manzanera, Brian Eno…) e testi pungenti con diverse stilettate al sistema capitalista.

Per il resto pare più una raccolta di brani scartati da altri dischi che un’opera completa, ma qualsiasi raccolta di materiale “scarso” da parte di Wyatt è sempre un bel sentire.

8 Ruth Is Stranger Than Richard 1975

Arriva dopo lo straordinario esito di Rock Bottom ed è ancora una volta prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd. Ma spariglia le carte in tavola sottolineando l’indole mai doma del suo autore che invece di adagiarsi sugli allori preferisce dar vita a un’opera più ruvida, dai contorni più improvvisativi.

Wyatt  mette la voce e i testi a disposizione di un tessuto free messo in scena dai suoi collaboratori (tra gli altri Eno e Fred Frith degli Henry Cow) levando parecchia comunicativa alle canzoni.

7 Cuckooland 2003

È forse il disco nel quale l’amore per il jazz di Wyatt esce fuori in maniera più prepotente: atmosfere ovattate, notturne, felpate, distantissime da qualsiasi tentazione pop, con il leader accompagnato dai soliti Eno, Manzanera, Weller e in più un cameo di David Gilmour in Forest. Purtroppo una sensazione di monotonia da un certo punto in poi si fa strada.

Non mancano i momenti felici, vedi la toccante Lullaby for Hamza e il sax di La Ahada Yalam.

6 Nothing Can Stop Us 1982

Tra il 1975 e il 1985 Wyatt interrompe l’attività discografica “regolare” dedicandosi all’impegno politico, a colonne sonore (da citare quella per The Animals Film, indagine sull’uso degli animali negli allevamenti intensivi, nella ricerca scientifica e militare) e una serie di singoli inediti, contenenti in larga parte cover.

Questi verranno raccolti nel 1982 nell’antologia Nothing Can Stop Us in cui trovano spazio brani di Violeta Parra, Peter Blackman, Ivor Cutler, Willie Johnson e altri. Addirittura c’è una rivisitazione di un brano degli Chic, At Last I Am Free. Il tutto reso chiaramente “alla Wyatt”.

5 …For the Ghosts Within 2010

È il lavoro più cameristico di Wyatt, realizzato con l’ausilio del jazzista israeliano Gilad Atzmon della violinista inglese Ros Stephen. Ed è una meraviglia sentire la sua voce muoversi in tutta la sua raffinatezza, e anche fragilità, nelle trame sonore tessute dai due.

In repertorio una serie di classici del jazz a firma Ellington, Strayhorn, Monk, Mercer, più diversi brani di Wyatt e alcuni inediti. Non importa che i brani siano stati composti da uno o dall’altro, è la voce di Wyatt qui a svettare in tutta la sua magia.

4 Dondestan 1991

Dondestan è uscito nel 1991 in un mix fatto un po’ in fretta a causa della mancanza di tempo e di budget. Successivamente, grazie anche al successo di Shleep, emergerà un nuovo mix col titolo Dondestan (Revisited) che mette maggiormente in risalto le sottigliezze delle composizioni.

Come Old Rottenhat, è un lavoro nel quale Robert suona ogni strumento, con testi fortemente politicizzati e più quel tocco free che si diverte a disseminare. Ma sono i brani malinconici come NIO (New Information Order) e Sight of the Wind ad avere un impatto emotivo che solo Wyatt può produrre.

3 Shleep 1997

Nel 1997 nel quale in Italia (caso unico al mondo) viene pubblicato un tributo a Wyatt (The Different You – Robert Wyatt e noi, organizzato da Francesco Magnelli e Gianni Maroccolo e pubblicato dal Consorzio Produttori Indipendenti) esce Shleep, suo più grande successo dai tempi di Rock Bottom.

È un album sereno, variegato, in grado di mettere sul piatto i diversi mondi wyattiani in maniera perfetta. Con diverse perle sonore tra cui una che spicca per intensità: Maryan, scritta col chitarrista jazz Philip Catherine e ripresa con eleganza e trasporto da Ginevra di Marco e Cristina Donà nel tributo.

2 Old Rottenhat1985

Nel 1985 Wyatt mette fine al silenzio discografico con uno dei suoi lavori più particolari e riusciti. Interamente suonato con tastiere economiche, tipo le Casio che tanto andavano di moda negli anni ’80, Old Rottenhat contiene brani di pura dolcezza wyattiana come AllianceUnited States of AmnesiaThe Age of Self.

Ma è tutta la scaletta a non lasciare un attimo di tregua alla bellezza. Con sempre quella sensazione che ogni nota che esce dalla sua ugola possa spezzarsi da un momento all’altro, così come il cuore di chi ascolta.

1 Rock Bottom 1974

Prima posizione scontata per uno degli album più importanti degli ultimi 50 anni. Concepito nei giorni di convalescenza a seguito dell’incidente e prodotto da Nick Mason, il disco presenta un Wyatt fresco e nuovo, che compone canzoni che entrano nell’anima del mondo. Sospeso tra umori jazz, melodie struggenti ed esperimenti, Rock Bottom farà scuola per il suo carattere al tempo stesso tortuoso e godibile.

Al suo interno molta malinconia, ma anche uno spirito ironico e vitale che permette a Wyatt di pubblicare alcune tra le sue canzoni più belle, una su tutte Sea Song che è pura poesia per il suo amore con Alfie. Ma è tutto l’album a essere una lunga lettera d’amore alla consorte, alcuni brani portano addirittura il suo nome.

Rock Bottom è l’equilibrio perfetto tra canzone e sperimentazione, tra jazz e tutto ciò che musicalmente c’è di bello sul pianeta Terra.