Harris-Trump: l’economia Usa nei prossimi quattro anni (lavoce.info)

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Il 5 novembre l’America vota per eleggere il 
nuovo presidente. 

Nonostante tutto, l’andamento dell’economia continua a essere uno dei fattori che determinano le scelte dei cittadini. Vale allora la pena analizzare i programmi economici dei due candidati.

Quanto conta l’economia nel voto americano

Dopo un’estate ricca di colpi di scena, primo fra tutti il ritiro di Joe Biden sostituito da Kamala Harris, i candidati alla presidenza Usa hanno avuto l’opportunità di presentare i propri programmi economici durante il dibattito del 10 settembre, così come nei comizi e nelle interviste.

Nonostante persista la sensazione che il risultato delle elezioni, estremamente incerto, sarà influenzato più dalle “vibes” che dai dettagli dei programmi economici, l’economia è considerata la questione più importante per gli elettori americani.

Nei progetti dei due candidati sull’economia ci sono differenze notevoli, ma forse proprio per la vicinanza nei sondaggi, emergono alcune somiglianze. Prima su tutte la guerra commerciale alla Cina e l’aumento significativo del deficit, un tema di cui né Kamala Harris né Donald Trump sembrano preoccuparsi.

Tuttavia, per entrambi, la realizzazione della maggior parte delle promesse dipenderà dalla composizione del Congresso, ovvero se il partito del futuro presidente avrà o meno il controllo di Camera dei rappresentanti e Senato, che si rinnovano anch’essi il 5 novembre, totalmente la prima, in parte il secondo.

In ogni caso, il programma di Harris si può riassumere nella sua visione di promuovere una “Economia delle opportunità”, volta a garantire una crescita economica inclusiva e accessibile a tutti gli americani. Quello di Trump si rifà ai suoi slogan più conosciuti “Make America Great Again” e “Take America Back”, concentrandosi sulla protezione del paese sia da nemici interni (come tasse e regolamentazioni eccessive) sia da minacce esterne, principalmente gli immigrati e la Cina, attraverso dazi elevati e politiche commerciali aggressive.

I temi principali includono: tasse, dazi sulle importazioni, politica industriale, politiche anti-inflazione, regolamentazioni e ruolo delle agenzie federali, welfare e immigrazione. Li approfondiamo attraverso due articoli. Ci occupiamo qui delle proposte sui primi tre capitoli, per lasciare al secondo intervento l’analisi degli altri.

Le proposte sulle tasse

Kamala Harris: la vicepresidente ha delineato un approccio focalizzato sul sostegno alla classe media e ai lavoratori a basso reddito attraverso una serie di modifiche fiscali. Intende espandere i crediti d’imposta per i redditi da lavoro e offrire crediti fiscali generosi per le famiglie.

Per esempio, ne ha proposto uno di 25mila dollari per chi acquista la prima casa: è una misura controversa perché, se non accompagnata da un aumento delle costruzioni, potrebbe causare un aumento dei prezzi delle abitazioni. Sul fronte delle imposte sui più ricchi, Harris ha abbracciato il piano di Joe Biden di imporre una tassa del 25 per cento sulle plusvalenze non realizzate per i patrimoni netti superiori ai 100 milioni di dollari: è un provvedimento che mira a tassare l’incremento di valore degli asset prima che questi siano venduti.

La misura è stata criticata per la sua complessità, i problemi di liquidità e i potenziali effetti negativi sul comportamento degli investitori.

Come Trump, Harris vuole eliminare le imposte sui guadagni derivanti dalle mance, ma il suo piano prevede che questi introiti rimangano soggetti ai contributi previdenziali. Allo stesso tempo, Harris punta ad aumentare l’aliquota fiscale sulle società dal 21 al 28 per cento e ad alzare l’aliquota minima alternativa dal 15 al 21 per cento per le aziende che fatturano oltre un miliardo di dollari. Harris non prevede aumenti di tasse per chi guadagna meno di 400mila dollari all’anno.

Donald Trump: propone tagli fiscali per i redditi alti e le grandi imprese. Ha parlato di ridurre ulteriormente l’aliquota fiscale societaria, portandola dal 21 al 15 per cento per le aziende che producono negli Stati Uniti, una continuazione delle politiche della sua precedente amministrazione che includeva la legge fiscale del 2017, nota per aver introdotto tagli significativi alle imposte per le aziende e per i contribuenti più ricchi.

Trump vorrebbe anche eliminare la doppia imposizione fiscale per i cittadini americani che vivono all’estero e non tassare i benefici della social security (le pensioni). Come Harris, Trump ha proposto di eliminare le tasse sui guadagni che derivano dalle mance.

Nel programma è prevista pure la deducibilità fiscale dei pagamenti dei prestiti auto e l’eliminazione delle imposte sui guadagni da straordinari. Nelle intenzioni del candidato repubblicano, queste misure dovrebbero aumentare gli incentivi a investire e produrre.

Dazi sui beni importati

Donald Trump: sostiene l’introduzione di elevati dazi doganali che, nelle sue intenzioni, dovrebbero proteggere le industrie americane e incrementare le entrate fiscali.

Il suo piano prevede una tariffa del 10 per cento su tutti i beni importati e una del 60 per cento specifica per i prodotti provenienti dalla Cina. Trump afferma che queste misure costringeranno le altre nazioni a ricompensare gli Stati Uniti per il loro ruolo storico globale e prevede che i dazi generati possano ammontare a centinaia di miliardi di dollari.

Kamala Harris: critica l’approccio di Trump, descrivendolo come una tassa indiretta che pesa sulle famiglie americane. Ed è corretto perché le tariffe sui beni importati sono equivalenti a tasse, perché spesso si traducono in prezzi più alti pagati dai consumatori.

Eppure, Harris non ne ha escluso l’uso. Anche perché l’amministrazione Biden ha di recente imposto nuovi dazi (su acciaio e alluminio, così come su semiconduttori, veicoli elettrici, batterie e parti di pannelli solari), prolungandone alcuni già in vigore dalla precedente amministrazione Trump.

In particolare, i nuovi dazi su prodotti cinesi includono un’imposta del 100 per cento sui veicoli elettrici, del 25 per cento sulle batterie agli ioni di litio per veicoli elettrici e del 50 per cento sulle celle fotovoltaiche utilizzate nei pannelli solari. Harris ha confermato l’impegno a promuovere l’industria americana nei settori tecnologici avanzati, come i semiconduttori e l’energia pulita, combattendo le pratiche commerciali definite “ingiuste”, in particolare quelle provenienti dalla Cina, per proteggere i lavoratori statunitensi.

Politiche anti-inflazione

Kamala Harris: nonostante l’inflazione sia tornata intorno al 2 per cento e alcuni prezzi cruciali, come quello della benzina, siano a livelli pre-pandemia, resta tra gli americani la percezione che il costo della vita sia troppo elevato.

Lo riconosce la stessa Kamala Harris e per affrontare il problema, ha proposto una serie di misure a sostegno della classe media e delle piccole imprese, come crediti fiscali per le famiglie e gli acquirenti di prima casa, insieme all’asilo nido universale e al congedo familiare retribuito. Una parte rilevante (e controversa) della sua agenda riguarda il contrasto agli aumenti ingiustificati dei prezzi da parte delle aziende.

Inizialmente, Harris sembrava avere accennato a un controllo diretto sui prezzi, ma la misura è stata poi ridimensionata, trasformandosi in un divieto federale contro pratiche di “speculazione”, con l’obiettivo di proteggere i consumatori e le famiglie americane da rincari arbitrari, soprattutto durante le emergenze.

Donald Trump: la sua campagna si concentra sulle difficoltà economiche affrontate dagli americani sotto l’amministrazione Biden, con particolare enfasi sull’elevato costo della vita e sugli effetti dell’inflazione. Trump cita spesso l’aumento dei prezzi dei generi alimentari come prova dei fallimenti della gestione economica dell’attuale amministrazione.

La sua retorica mira a convincere gli elettori che un ritorno alle sue politiche economiche possa alleviare queste pressioni sui bilanci familiari. Eppure, molte delle proposte di Trump non contribuirebbero a mantenere bassi i prezzi, anzi rischierebbero di essere inflazionistiche. Prime fra tutte, le promesse di imporre pesanti dazi sulle importazioni, poiché le aziende importatrici trasferirebbero almeno in parte i rincari sui prezzi di vendita.

Anche le severe restrizioni sull’immigrazione proposte dal candidato repubblicano potrebbero accentuare l’inflazione, riducendo la disponibilità di manodopera in settori essenziali come l’agricoltura, l’edilizia e la sanità, spingendo così i datori di lavoro ad aumentare i salari per attrarre lavoratori.

Trump ha dichiarato che, se rieletto, vuole avere maggiore controllo sulla politica monetaria della Federal Reserve, riducendone l’indipendenza. Ha criticato in passato le decisioni del presidente della Fed, Jerome Powell, e ritiene che il presidente degli Stati Uniti dovrebbe avere voce in capitolo sulle scelte della banca centrale, per esempio l’impostazione dei tassi di interesse.

Questa posizione minerebbe il tradizionale assetto indipendente della Fed, rischiando di destabilizzare la fiducia dei mercati finanziari e compromettendo l’efficacia dell’istituzione nel gestire la politica economica del paese.

Festival della Fotografia Etica, parla il direttore Prina (laragione.eu)

di Claudia Burgio

L’arte fotografica come arma del cambiamento. 
Le mostre a Lodi fino al 27 ottobre. 

Per il direttore Prina: “Una fotografia necessaria”

La parola guerra è tornata sulle nostre bocche e per questo “la fotografia è necessaria”, come ama definirla  Alberto Prina, direttore del Festival della Fotografia Etica che si terrà a Lodi tutti i week end fino al 27 ottobre. Una forma d’arte che (da sempre e per fortuna) obbliga a prendere contatto con la realtà e a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie. 843 i fotografi dei cinque continenti che hanno inviato oltre un migliaio di progetti. Sette i fotografi che si sono aggiudicati la vittoria, o la menzione speciale, nelle categorie che costituiscono il Premio.

“Gli scatti sono sempre un bilancio tra la componente estetica e quella etica, quest’ultima nelle nostre fotografie ha un peso molto importante – ci spiega Alberto Prina. – C’è bisogno di dare attenzione ai valori reali e concreti e di ragionare su di essi. L’elemento fondamentale di questi lavori è che rispecchiano la realtà che viviamo”.

Alcuni dei valori a cui Prina fa riferimento, trattati in questa edizione del Festival – giunto al suo quindicesimo anno – sono: la solidarietà, con il progetto di PizzAut del fotografo Leonello Bertolucci, che racconta la pizzeria rivoluzionaria fondata sull’inclusione, dove pizzaioli e camerieri sono giovani con autismo; il valore della pace, trattato dalla sezione “Uno Sguardo sul Mondo” – visitabile al Palazzo della Provincia – con la mostra “The War in Gaza Through the Eyes of its Photojournalists”, promossa dall’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA); e ancora, il valore di un buon governo, investigato dagli scatti di Giles Clarke con il reportage “Haiti in Turmoil”, in cui viene raccontata la drammatica guerra civile che imperversa il Paese dal 2021.

“Noi crediamo che la fotografia sia lo strumento più potente su cui ispirarci – continua Prina. – Potente perché le fotografie creano emozioni. Senza emozioni non vi è coinvolgimento e senza coinvolgimento non vi è cambiamento”.

Per Prina si tratta di una “necessità”: di ragionare, di confrontarsi, di dialogare di fronte a delle foto che ci rimandano lo specchio della realtà che ci circonda.

Per il direttore, il Festival della Fotografia Etica è paragonabile ad una nave, dove il vento favorevole è la fotografia, ovvero i lavori dei fotoreporter: “Noi dobbiamo dire un immenso grazie a questi fotografi, perché sono loro con i loro lavoro sul campo a fare la vera fatica, con perseveranza e costanza”.

L’edizione del Festival quest’anno sarà arricchita da due importanti progetti: un podcast in collaborazione con Chora Media, che accompagnerà tutti e cinque i week end inaugurali dell’evento e poi la mostra ospitata nella Chiesa dell’Angelo per festeggiare i 15 anni del Festival, dove verranno esposte le 15 copertine che ne hanno fatto la storia. Inoltre, sarà possibile visitare l’unica tappa lombarda della mostra itinerante “World Press Photo”, il grande concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da quasi 70 anni, indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam.

Oltre 150 immagini, provenienti dai cinque continenti, che narrano storie straordinarie, attraverso i lavori realizzati per alcune delle più importanti testate internazionali come National Geographic, BBC, CNN, The New York Times, Le Monde, ed El Pais. Un’occasione preziosa per riflettere, accompagnati anche da visite guidate, incontri e dibattiti. Per non chiudere più gli occhi davanti a quello che ci circonda.

USA: scusi, dov’è la verità? (doppiozero.com)

di Daniela Gross

Speciale USA 2024: verso le elezioni

Questa storia non esiste. È una bufala, un falso, una bugia. Parla di alligatori liberati nel Rio Grande per dilaniare i clandestini al confine Sud, sostanze chimiche nell’acqua che trasformano i bambini in transgender, cani e gatti fatti arrosto, bagni di sangue. Mette in piazza le abitudini sessuali di JD Vance, il vero colore di Kamala e i finti attentati a Trump. Spiega che il governo controlla gli uragani, il wifi provoca il cancro e il vaccino anti-Covid è tutta una cospirazione.

In un mondo migliore, la vera notizia sarebbe che se ne parli. Le presidenziali hanno però la capacità di tirare fuori il peggio dall’America e da mesi la gara è a chi la spara più grossa. Vale dunque la pena tornarci sopra perché la somma dei falsi che da mesi animano la conversazione pubblica è la fotografia di uno stato d’animo – un distillato degli umori che ribollono nella pancia del paese.

È un gioco al ribasso dove nessuno è innocente, i fact-check lasciano il tempo che trovano e la deriva partigiana è garantita. E mentre i fatti sfumano in un’approssimazione, la verità finisce all’angolo e il terreno di scontro diventa sempre più scivoloso.

La traiettoria del falso è ormai rodata. Quella degli immigrati haitiani che nella cittadina di Springfield, Ohio si dice divorino cani e gatti è un caso da manuale. La bufala debutta sui social locali, il regno delle paranoie, e da lì prende il volo verso la scena nazionale. È la parabola perfetta delle paure che animano l’elettorato di destra. Intercetta in chiave di razzismo i due temi al centro di queste elezioni, economia e immigrazione.

Mescola orrore, disprezzo, violenza: è la voce del cittadino qualunque travolto dai demoni alla modernità in una delle infinite piccole città che punteggiano la flyover country. Rimbalza su X e da lì a un comizio di JD Vance. Trump, che della menzogna ha fatto il suo stile, la rilancia al dibattito presidenziale e a quel punto non c’è verso di tornare indietro.

Seguono smentite, inchieste, interviste, commenti – un cataclisma che chissà quanto sposta in chiave elettorale. I sostenitori si compattano, gli oppositori urlano allo scandalo e ognuno resta della propria opinione. Intanto a Springfield fioccano gli allarmi bomba, le scuole sono evacuate e gli immigrati haitiani si sentono a rischio. Poco dopo, un gruppo di estremisti di destra sbarca nella cittadina e pattuglia in armi le vie a difesa dei cittadini americani, s’immagina quelli bianchi.

È il genere di scenario diventato familiare negli anni della presidenza Trump – forse l’unica ad aprirsi con un falso clamoroso (il milione e mezzo di persone alla cerimonia di inaugurazione) e concludersi con un falso ben più terrificante (le elezioni rubate nel 2020). Allora come oggi, le parole sono pietre e i social hanno la capacità di trasformare ogni idiozia in un pericolo mortale. Per conferma, basta tornare al 6 gennaio e all’attacco al Campidoglio.

Per quanto ormai prevedibili, il caos e i fuochi d’artificio di Donald Trump restano abbaglianti. Il che non significa che i democratici siano candidi gigli del campo.

Pur senza scendere al suo livello, nota sul New York Times James Kirchik, ricercatore del Foundation for Individual Rights and Expression, nel dibattito presidenziale neanche Kamala Harris ha “aderito strettamente alla verità”. Come dire, tecnicamente non ha mentito ma sfumato, approssimato, aggiustato.

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Prendiamo la storia della marcia suprematista a Charlottesville, in Virginia, dove nell’estate 2017 centinaia di estremisti di destra sfilano contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee, la violenza razziale esplode e la giovane Heather Heyer è uccisa.

Secondo Harris, scrive Kirchik, Trump “ha detto che c’erano ‘persone perbene’ tra i neonazisti e i suprematisti bianchi a Charlottesville sette anni fa, una distorsione ripetuta spesso di una dichiarazione fatta da Trump all’epoca che, tuttavia, rimane un articolo di fede tra i liberali americani”.

Harris, continua, “ha anche affermato in modo ingannevole che Trump ha detto che ci sarebbe un ‘bagno di sangue’ se non venisse eletto, quando il riferimento originale riguardava la perdita di posti di lavoro nell’industria automobilistica statunitense.”

Infine, conclude il commentatore conservatore, non è vero che come ha detto Harris “Non c’è un solo membro delle forze armate degli Stati Uniti in servizio attivo in una zona di combattimento in alcuna zona di guerra nel mondo — la prima volta in questo secolo.”

“Questa affermazione – continua Kirchik – ignora le migliaia di truppe americane schierate in Medio Oriente dal 7 ottobre, per non parlare dei militari uccisi in Giordania nell’attacco con droni di gennaio. Nonostante queste affermazioni siano false, tuttavia è stato solo Trump che i moderatori di ABC, David Muir e Linsey Davis, hanno cercato di correggere.”

Nel pieno di un dibattito presidenziale, con 67 milioni di spettatori collegati in diretta, sono decisioni che si prendono nel giro di secondi. A posteriori, la domanda diventa però inevitabile. È più importante demistificare in diretta la bufala sugli haitiani di Springfield o la storia del bagno di sangue annunciato da Trump in caso di sconfitta? Prima la clamorosa menzogna o la garbata mistificazione? Qual è più urgente, quale più allarmante? Sono interrogativi destinati a restare senza risposta perché non è un mistero che, fin dall’avvio della campagna elettorale, il circuito dell’informazione mainstream usi due pesi e due misure – uno standard per i democratici e uno per i repubblicani.

A meno di ricorrere a qualche strampalata teoria della cospirazione, non si spiega altrimenti come le condizioni di Biden siano rimaste così a lungo un mistero e come a giugno le rassicurazioni della portavoce della Casa Bianca Karin Jean-Pierre siano passate senza colpo ferire.

Il presidente, aveva garantito Jean-Pierre, era come sempre al lavoro e i video che lo mostravano traballante, smarrito e in difficoltà pura “disinformazione” – “falsi da due soldi”. Una settimana dopo, il disastroso dibattito con Trump illuminava la menzogna di una luce impietosa aprendo una crisi politica senza precedenti.

Nel vortice seguito alle dimissioni di Biden, i ranghi si sono stretti ulteriormente. Le domande scomode tacciono, i fact-check si applicano di preferenza all’opposizione e gli articoli adoranti rimpiazzano il ragionamento politico. “The only patriotic choice for President”, titolava di recente l’inserto di opinioni del New York Times sotto una gigantesca foto in bianco e nero di Kamala Harris e la ragione è tutta qui. In gioco c’è il ‘bene del Paese’.

Non è il momento di fare gli schizzinosi e dunque si sorvola sui limiti della candidatura, le inversioni di rotta (il fatto che i suoi valori non siano cambiati pare una spiegazione sufficiente), una piattaforma elettorale a lungo così vaga da far sembrare Trump uno statista e perfino sugli scivoloni di Tim Walz, che durante Tienanmen forse era a Hong Kong o forse chissà.

Sono mesi d’oro per quel giornalismo educativo che negli Stati Uniti aveva già dato pessima prova di sé nel 2016, quello che conduce il lettore/ascoltatore/spettatore alla giusta conclusione più che informare. Si può solo sperare che la Storia non si ripeta. In ogni caso, è uno spettacolo snervante e se sia davvero un bene per il tessuto della democrazia è tutto da dimostrare.

Mentre scrivo, mancano tre settimane all’Election Day e in molti stati già si vota. Per dirla con Obama, oggi il più influente sostenitore di Harris, elezioni come questa si vincono e perdono negli ultimi giorni. In questa volata, il circuito dell’informazione riveste un ruolo centrale. Milioni di americani, fra cui la sottoscritta, si avviano alle urne senza mai essere stati lambiti dal flusso vivo della politica.

La stampa locale sta esalando ovunque l’ultimo respiro mentre per ovvie ragioni i comizi, dibattiti e incontri si concentrano negli stati in bilico e nelle metropoli. Nel resto del paese non resta dunque che affidarsi ai giornali, alla tv, ai podcast e ai social, sempre più decisivi soprattutto per l’elettorato più giovane.

A queste condizioni, realtà e fiction, informazione e spettacolo si confondono senza tregua – il Rio Grande pullula di alligatori; Harris costruirà il muro al confine Sud; il governo ha abbandonato le vittime dell’alluvione; Trump non beve, non fuma, non usa droghe; gli immigrati divorano i pets; Robert F. Kennedy Jr. ha un verme nel cervello; Trump ci ha lasciato la peggiore disoccupazione dopo la grande depressione; Trump deporterà 13 milioni di immigrati illegali.

Cos’è vero, cos’è falso? E chi ha tempo e voglia di starci dietro? In questo fuoco incrociato di bugie e mezze verità, ognuno si aggrappa ai suoi giudizi e pregiudizi, la spaccatura fra democratici e repubblicani si approfondisce e il malessere cresce come i prezzi al supermercato.

Peccato, perché i sondaggi mostrano che la credibilità dei media resta molto più elevata delle diverse piattaforme social e secondo uno studio di Bookman e Kalla pubblicato dall’American Journal of Political Science, “i messaggi persuasivi cambiano sia le valutazioni dei candidati che le scelte di voto e inducono defezioni partitiche; e i messaggi con maggiore contenuto informativo sono più persuasivi”. In altre parole, la gente merita rispetto. E non è questo il sale della democrazia?

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