Pyongyang ha da guadagnare dall’affare con Putin. Ma è anche un azzardo (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

I soldati di Kim Jong-un inviati in Ucraina hanno un’età media equivalente sì e no alla metà di quella dei combattenti di Kyiv, e nessuna esperienza sul campo. Che succede se troppi di loro tornano a casa nei sacchi neri?

L’armistizio di Panmunjom, che mise fine ai tre anni di guerra di Corea, fu firmato nel luglio del 1953. Dunque, 71 anni fa. Le fotografie o i video copiosamente accessibili dalla Corea del nord, sia pure tutte ufficiali o passate attraverso il controllo statale, mostrano spesso attorno a Kim Jong-un militari in uniforme dal petto costellato di medaglie al valore.

Alcune giacche hanno un prolungamento di stoffa fino al ginocchio o usano direttamente i pantaloni per fare spazio alle medaglie in eccedenza. I veterani della guerra sono sulla novantina. Ma interi plotoni di ufficiali dall’aspetto giovanile sfilano metallizzati anche loro dalle decorazioni, e ci si chiede in quali imprese d’armi abbiano guadagnato la gloria.

“Il regime di Pyongyang da decenni fornisce armi al cosiddetto Asse della resistenza e adesso alla Russia… La Corea del nord è riuscita a sviluppare la tecnologia cyber, missilistica e nucleare che serve ai gruppi terroristici e ai paesi autoritari che vogliono sfidare l’ordine globale democratico” (Giulia Pompili).

Si calcola che metà delle munizioni di artiglieria russa contro l’Ucraina siano venute da Pyongyang. Kim Jong-un vanta “l’esercito più potente del mondo”: certo è almeno il terzo quanto al numero, largamente superiore al milione. Suoi soldati sono stati mandati in giro per il mondo delle guerre sporche, come in Siria, ma mai numerosi come ora al fronte ucraino, “più di diecimila”, al servizio della Russia di Putin.

La guerra all’Ucraina era già servita, con la banalizzazione della minaccia di impiego dell’atomica, a rafforzare enormemente la deterrenza nucleare cui il regime di Pyongyang è appeso, e a grattar via un po’ della patina di eccentricità pagliaccesca sotto la quale è cresciuto indisturbato.

Il primo Trump fu l’autore fallimentare dello sdoganamento di Kim, e oggi, dopo aver dichiarato in campagna elettorale che il leader nordcoreano “sentiva la sua mancanza”, dovrà vedersela con lui in una condizione molto più compromessa.

I soldati nordcoreani – spediti in Ucraina, pare, con qualche centinaio di ufficiali e un gruppetto di generali – hanno un’età media equivalente sì e no alla metà di quella dei combattenti ucraini, e, tolto l’affrettato addestramento russo, nessuna esperienza sul campo.

Benché appartenenti a truppe scelte, e probabilmente persuasi essi stessi di godere di un gran privilegio materiale e di “onore” (con le famiglie messe sotto sequestro per scoraggiare eventuali tentazioni a passare le linee), sono destinati secondo osservatori “esperti” a fare da carne da cannone. 

Sapremo prestissimo se sia così. Intanto, una prima notizia l’ha fornita qualche giorno fa Gideon Rachman sul Financial Times: i giovani soldati nordcoreani, al loro primo incontro con la rete (internet è proibito, salve deroghe, in patria, e il contrabbando di video è arrischiato) sarebbero accanitamente dediti alla scoperta del porno.

La notizia è stata universalmente ripresa, compresa la coloritura piccante. E cretina: è difficile figurarsi un evento più serio dell’incontro fra giovani uomini e il mondo di fuori, fuori dall’incredibile isolamento realizzato dalla dinastia dei Kim, al di là di ogni immaginazione distopica.

Kim Jong-un ha molto da guadagnare dall’affare solennemente concluso con Vladimir Putin: in denaro, reputazione interna e intimidazione esterna (va moltiplicando le provocazioni contro Seul), e assistenza tecnologica negli armamenti. E forza contrattuale con Pechino. Il passaggio dalla fornitura di munizioni al trattato militare formale – una specie di articolo 5 russo-nordcoreano – e all’invio al fronte dei suoi uomini, avviene nel momento più favorevole all’Asse vagheggiato con Cina e Iran.

Ma è anche un azzardo. Le sorti della guerra sul campo non sono dette, e la possibilità che un gran numero di soldati nordcoreani tornino indietro nei sacchi neri, e che al contingente iniziale già ingente si debbano aggiungere rinforzi, nell’escalation che la Russia persegue aspettando la presidenza Trump, lascia immaginare che, per la prima volta, migliaia di giovani tornino nella Corea del nord avendo sperimentato che un altro mondo è possibile, ed esiste già.

Di là dalle trincee, e se non altro sui telefonini.

(ANSA)

Il giornalista Maurizio Belpietro sarà processato per diffamazione per aver definito le ong che soccorrono i migranti “i nuovi pirati” (ilpost.it)

Il giornalista Maurizio Belpietro sarà processato 
con l’accusa di diffamazione per una copertina del 
settimanale Panorama, di cui è direttore, in cui 
gli operatori umanitari delle ong che soccorrono 
i migranti venivano definiti “i nuovi pirati”. 

Il rinvio a giudizio è stato deciso venerdì dal tribunale di Milano: l’inizio del processo è previsto per marzo del 2025.

I fatti risalgono a novembre del 2022, due anni fa: successivamente le ong Open Arms, AOI Rete Associativa Nazionale, Emergency e Sea Watch avevano presentato un esposto contro Belpietro, sostenendo che la copertina di Panorama presentasse versioni dei fatti «non veritiere e offensive del lavoro umanitario operato da chi nel Mediterraneo Centrale cerca di soccorrere vite umane».

Belpietro dirige anche il quotidiano La Verità, molto schierato a destra.

Autonomia, quella lettera dei giuristi che avevano previsto il “pasticcio” sui Lep (ildubbio.news)

di Mauro Bazzucchi

Un gruppo di costituzionalisti aveva scritto a 
Sabino Cassese, ai tempi del Comitato ministeriale, 
anticipando una parte dei rilievi della Consulta

Molto di più sapremo quando la Corte costituzionale, dopo aver anticipato con un comunicato il proprio pronunciamento sull’autonomia differenziata, depositerà integralmente le motivazioni, ma si può dire già con buona approssimazione che quanto contenuto nella nota di giovedì richiama alla memoria un altro documento di qualche mese fa.

In tempi non sospetti, infatti, un gruppo di costituzionalisti aveva scritto una lettera al Professor Sabino Cassese, all’epoca presidente del Comitato Lep nominato dal ministro Roberto Calderoli, per manifestare le proprie perplessità su alcune conclusioni relative proprio alla definizione dei Livelli Essenziali di Prestazione (Lep).

A leggere attentamente i rilievi dei giudici costituzionali, risulta evidente che quanto fatto presente dai “saggi” in questione è in parte sovrapponibile alle conclusioni della Consulta, in particolar modo per la definizione di “materie Lep” e “materie non Lep” ma anche per le modalità con cui la legge sull’autonomia avrebbe stabilito il “minimo garantito” a livello economico da riservare alle regioni provviste di minori risorse.

Andiamo per ordine e facciamo un passo indietro: nella missiva, firmata tra gli altri dai professori Massimo LucianiFrancesco Saverio Marini (consigliere di Palazzo Chigi che la premier Giorgia Meloni vorrebbe nominare giudice costituzionale), Maria Alessandra SandulliGiovanni Tarli Barbieri e Filippo Vari, si chiedeva anzitutto che la definizione dei Lep fosse puntuale e già presente nel testo Calderoli, anziché da definire in un secondo momento con un iter assai macchinoso.

«Ci permettiamo di segnalare», scrivevano i citati giuristi, «a Te e agli altri componenti del CLEP, in particolare, il passaggio in cui si dice che “la determinazione puntuale della nozione LEP appartiene ad un momento successivo nel quale la componente tecnica, giuridica ed economica, non è la sola a rilevare”, con la conseguenza che “non può che spettare al decisore politico la responsabilità di questa definizione”».

Per gli autori della lettera, invece, «questa affermazione esprime una debolezza che ha inficiato i nostri lavori sin dall’inizio, essendo mancata quella preliminare definizione delle nozioni fondamentali e del metodo del nostro lavoro che da tempo avevamo sollecitato».

«Il CLEP», proseguono, «non si è chiesto dove si situi il confine tra tecnica e politica nella determinazione della nozione di LEP e neppure se davvero la nozione di LEP non sia interamente definibile in sede scientifica. Anzi, se spetterà ad altri addirittura la stessa determinazione puntuale della nozione di LEP, vorrà dire che potrebbe obiettarsi al CLEP di aver lavorato su qualcosa la cui identità non è stata pienamente approfondita e condivisa da tutti i suoi componenti».

Nonostante tali vizi di metodo, il gruppo di giuristi formulò delle proposte emendative alle conclusioni della commissione Cassese, che si possono riassumere nella richiesta di minore vaghezza e maggiore collegialità nella definizione dei Lep.

In particolare, i costituzionalisti chiedevano di sopprimere il passaggio della relazione conclusiva del Comitato in cui si affermava che «la determinazione puntuale della nozione LEP appartiene ad un momento successivo nel quale la componente tecnica, giuridica ed economica, non è la sola a rilevare. Poiché dal modo di tratteggiare la nozione LEP», proseguiva la parte del documento “contestato” dai giuristi, «possono discendere conseguenze per la finanza pubblica in termini assoluti, conseguenze redistributive e allocative in termini relativi, non può che spettare al decisore politico la responsabilità di questa definizione». «Nell’ottica dei Lep», proseguivano, «i settori non sono tutti eguali, essendo alcuni assai più ‘sensibili’ di altri».

Obiezioni che, al di là degli aspetti più tecnici, vanno nella stessa filosofia dei rilievi della Consulta, e che probabilmente, se fossero state recepite nel testo, avrebbero accelerato l’entrata in vigore della riforma, che invece ora sarà ulteriormente dilazionata.

La definizione dei Lep, per i giudici costituzionali, non può essere rimessa esclusivamente nelle mani del governo, così come non va bene la previsione che sia un decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) a determinare l’aggiornamento dei livelli. Continuando su questa linea di ragionamento, la Corte ha stabilito altresì che i Dpcm non sono strumenti adatti a regolare i diritti sociali e civili dei cittadini italiani, come ad esempio il diritto alla salute, all’istruzione, alla mobilità.

Anche i rilievi riguardanti il finanziamento dei Lep e la compartecipazione delle regioni al gettito non appaiono distanti da ciò che i citati costituzionalisti fecero notare al Comitato.

Che brutta aria (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Il gestore del cinema milanese che si rifiuta di proiettare il film su Liliana Segre per paura che gli danneggino il locale.

L’albergatore di Selva di Cadore che cancella la prenotazione di un gruppo di clienti israeliani, ritenendoli «responsabili di genocidio» per il solo fatto di essere israeliani. Ma che cosa sta succedendo? Se tornasse in vita Primo Levi verrebbe chiamato a rispondere dei fatti di Gaza?

Qui non sono più soltanto i centri sociali o i comitati studenteschi, e nemmeno gli ultrà di calcio o gli estremisti islamici. Qui c’è un umore diffuso nella società civile che associa ogni ebreo alle azioni del governo d’Israele. Non mi risulta che si applichi lo stesso metro ad altri popoli.

Chi considera Putin un criminale di Stato non estende indiscriminatamente quel giudizio a tutti i russi e i pochi che lo fanno (ricordate la cancellazione del seminario su Dostoevskij?) diventano subito oggetto di barzellette.

In questi giorni, tantissimi europei stanno manifestando disprezzo e finanche odio per Trump, eppure non si ha notizia di gestori spaventati all’idea di proiettare un film su qualche eroe americano o di albergatori che sbattono la porta in faccia ai turisti provenienti da New York.

Così come è assurdo dare dell’antisemita a chiunque denunci gli obbrobri di Gaza, è altrettanto folle scaricare su ogni ebreo le responsabilità di Netanyahu. Si tratta di ovvietà, lo sappiamo bene.

Ma allora perché la cronaca ci costringe a scriverle?