Migranti, la sfida della sicurezza (corriere.it)

di Goffredo Buccini

Chi dovesse passare una domenica dalle parti della stazione di Napoli potrebbe scoprire, attorno alla quattrocentesca Porta Nolana, un’enclave di illegalità: interi marciapiedi coperti di mercanzia variamente trafugata e riciclata, l’ormai famoso «mercato degli stracci» gestito da un popolo di migranti irregolari, là dove non osano i vigili urbani.

A Roma l’oscena tendopoli di viale Pretoriano, addossata alle Mura Aureliane, è stata sgomberata da qualche settimana, dopo infinite proteste dei residenti, dalla polizia municipale.

Ma una piccola parte dello slum s’è spostata appena di pochi metri, più a ridosso del perimetro della stazione Termini, e il grosso tornerà prima o poi a dispetto delle recinzioni, basta attendere. Provvisori gli interventi, vani i «tavoli» e i «patti istituzionali», queste sono scene ormai comuni nelle grandi città e persino nelle cittadine. Nei sottopassi di Milano come attorno alla stazione di Lodi. Sugli argini dei fiumi, nelle piazze storiche come in quelle di periferia.

 E nei «non luoghi» di passaggio teorizzati dal grande Marc Augé, talvolta occupati da frammenti quotidiani di vita degli «invisibili», quell’esercito sofferente di stranieri senza permesso e senza identità che la Fondazione Ismu ha stimato lo scorso febbraio attorno alle 458 mila anime.

Ultimi che si mescolano ai penultimi, i nostri disagiati autoctoni, e che fingiamo di ignorare finché non sentiamo messa a repentaglio la nostra incolumità, perché cercare soluzioni può condurre su percorsi impervi.

La vera questione migratoria dell’Italia non è a mare: è in terraferma. Gli sbarchi sono attestati su una media di cinquanta, sessantamila l’anno: una cifra assolutamente tollerabile, benché ottenuta tramite accordi con le varie guardie costiere nordafricane non sempre da esibire al festival dei diritti umani; e tuttavia prevale un silente pragmatismo bipartisan, a protestare sono rimaste quasi solo le Ong. Ma è il sistema a terra che non funziona.

Scarsi o pressoché nulli i rimpatri, del tutto pleonastici i decreti di espulsione consegnati agli irregolari, è di fatto impossibile o quasi smaltire una massa critica di illegalità che si è creata negli anni e si perpetua nei gangli d’una macchina amministrativa farraginosa e negli interessi inconfessabili di un sistema economico talvolta connivente.

A fronte di una questione strutturale, deflagrata a metà degli anni Dieci, la sinistra ha deciso di voltarsi dall’altra parte (con l’eccezione virtuosa di Marco Minniti, ministro degli Interni nel 2017-18), trovando troppo arduo conciliare il proprio apparato di valori con il diritto a un’ordinata convivenza che, com’è evidente, sta più d’ogni altro a cuore ai comuni cittadini. La destra ha deciso di farne una bandiera ma ha colpevolmente azzoppato la piccola accoglienza nei Comuni (una volta si chiamava Sprar), la sola che in qualche misura tentava di assorbire gli ultimi arrivati nel tessuto sociale.

La questione è, ovviamente, planetaria. L’antropologo Michel Agier prevede entro il 2050 un miliardo di sfollati nel mondo: persone che si spostano per mera sopravvivenza da una parte all’altra del pianeta. Trump ci ha vinto le elezioni, promettendo deportazioni di massa.

E, dopo il ritorno del tycoon, il New York Times ha acceso un faro sull’Europa, dove «il sentimento anti-immigrati è fiorente» perché «l’80% dei richiedenti asilo respinti non se ne va mai», e sull’Italia, col progetto Albania di Giorgia Meloni, «un’idea che sta guadagnando favore, con altri leader che stanno anche considerando di pagare Paesi per esaminare le domande di asilo e possibilmente espellere coloro che hanno avuto respinte le richieste».

In verità il progetto albanese appare davvero solo come «un’idea» (uno spot, secondo molti) comportando alla fine perdite di energie e di danaro e tensioni tra poteri dello Stato per un meccanismo che, quand’anche superasse lo sbarramento dei giudici e andasse a regime, toccherebbe sì e no una frazione minuscola del flusso di sbarchi. E però un’idea serve. Se da un lato sarebbe prezioso ridare ossigeno all’accoglienza secondaria, quella dei piccoli numeri nei Comuni, è altrettanto evidente che un mezzo milione di fantasmi a zonzo per l’Italia pone un problema gigantesco.

È ciò che ha detto, sbagliando luogo, tempi e modi, il ministro Valditara, travolto dalle polemiche per l’infelice videomessaggio alla Fondazione Giulia Cecchettin nel quale dichiarava estinto ope legis il patriarcato e stabiliva un nesso tra immigrazione illegale e violenza sessuale. Giulia è stata uccisa da un fidanzato «bianco e perbene», ha ricordato la sorella Elena. E gran parte dei femminicidi ha una chiave familiare, è noto: il maschio è ancora troppo spesso tiranno domestico.

Tuttavia, provate a chiedere a un’amica, una vicina, una collega se girando da sola di sera si senta minacciata più dall’oscuro patriarca che forse l’attende a casa o dagli sbandati che facilmente può incontrare dietro l’angolo. Qui non si tratta di deportare nessuno e di sicuro l’Albania non servirà a questo.

 Ma è difficile negare l’utilità di luoghi di contenimento dove raccogliere una massa di senza regole ora sparsa nelle nostre strade. Non si chiamino più Centri per il rimpatrio e non siano più le voragini per anime perse che sono adesso. Siano legati anche a percorsi di recupero e di formazione per chi vuole e può. 

E intanto si renda reale il Piano Mattei e si garantiscano i 120 mila migranti regolari l’anno che invocano le nostre imprese per sopravvivere, senza il trucco delle sanatorie e cancellando la Bossi-Fini che impedisce l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. S’investa sui migranti anziché inorridirsene.

Può la sinistra formulare un progetto pragmatico sulle migrazioni, al netto dei furori ideologici? Se non può, continuerà a regalare alla destra il più popolare e democratico degli argomenti: la sicurezza dei più deboli e dei più fragili.

Centri antiviolenza sulle donne: pochi e mal distribuiti (lavoce.info)

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I centri antiviolenza sono cruciali per permettere 
alle donne di uscire da situazioni di violenza. 

Il loro numero è basso in tutta Italia e con profonde differenze territoriali. Mancano nelle aree dove le norme di genere tradizionali sono più persistenti.

La violenza di genere, un fenomeno mondiale

La violenza contro le donne è un fenomeno che affonda le sue radici nelle istituzioni economiche, culturali e sociali della nostra società e che non conosce confini geografici o temporali.

Negli ultimi anni di fronte alla sua pervasività, la maggioranza degli stati hanno adottato provvedimenti e politiche per contrastarlo, a livello giuridico e socio-culturale. I dati infatti parlano chiaro: nei paesi dell’Ocse, quasi una donna su quattro riporta di aver vissuto o subito casi di violenza fisica o sessuale da un partner.

La situazione in Italia non è diversa: combinando i dati Istat sulla popolazione femminile e sui delitti con quelli sull’incidenza per genere contenuti nei rapporti del ministero dell’Interno, nel 2023 registriamo 16 casi di violenza di genere denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria ogni 10 mila donne.

L’azione dei centri antiviolenza

In una situazione così drammatica, una risposta fondamentale è rappresentata, nel nostro paese, dai centri antiviolenza (Cav), che svolgono attività di prevenzione e protezione. Da un lato, elaborano percorsi di educazione sessuale e affettiva volti a contrastare la violenza e gli stereotipi di genere.

Dall’altro, rappresentano presidi di libertà che accolgono donne vittime di ogni forma di violenza: sono spazi sicuri dedicati all’accompagnamento nel percorso di fuoriuscita dalla violenza, dove le ospiti sono accolte con rispetto per le loro esperienze e differenze culturali e in un’ottica di autodeterminazione.

I dati sui Cav italiani arrivano con un ritardo di quasi due anni: il 25 novembre di ogni anno, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, vengono pubblicati quelli dell’anno precedente. Per avere una fotografia più aggiornata, abbiamo perciò creato, con tecniche di web scraping, un dataset a partire dalle fonti del 1522 (il numero antiviolenza e stalking) e delle amministrazioni regionali, come quelle di Campania Lazio. In questo modo, siamo in grado di analizzare la presenza dei Cav in Italia tra 2023 e 2024, fornendo una chiave di lettura del fenomeno a partire dalle sue radici, ossia gli stereotipi di genere.

Quanti sono i Cav e dove sono

In Italia oggi ci sono 404 centri antiviolenza: 220 in meno di quelli richiesti per raggiungere lo standard minimo di un centro ogni 50mila donne di almeno 14 anni fissato dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia ormai undici anni fa. La loro distribuzione non è uniforme sul territorio: ci sono aree in cui è più facile accedere a un centro o ricevere attività di prevenzione da parte delle sue operatrici, mentre altre zone rimangono più scoperte.

Tabella 1

La copertura dei comuni varia in modo significativo a seconda della macroregione e della distanza considerata. Se a livello nazionale poco più di un comune su cinque dispone di un Cav entro 5 chilometri, nell’area delle Isole solo il 15,6 per cento dei comuni (120) sono coperti e la densità media è di 1,2 Cav entro la stessa distanza. Il divario persiste anche entro i 10 chilometri: è la distanza entro cui è servito il 48 per cento dei comuni a livello nazionale, ma solo 273 di questi si trovano nelle Isole (il 35,6 per cento della macroregione).

Al contrario, il Nord-Ovest e il Sud presentano una maggiore densità di centri entro le distanze più brevi. Nel Sud, invece, la concentrazione di Cav raggiunge livelli particolarmente alti per le distanze maggiori: fino a 11 Cav entro 40 chilometri.

Il raggio dei 15 chilometri

Nella nostra analisi ci concentriamo su quali comuni dispongono di almeno un Cav nel raggio di 15 chilometri. Questa distanza, in media, rappresenta un raggio d’azione sufficientemente ridotto per raggiungere il Cav con mezzi di trasporto pubblico o con mezzi propri e non richiede una lunga assenza da casa, bastano un paio d’ore.

Allo stesso tempo, una distanza simile facilita la costruzione di rapporti tra le operatrici e le volontarie dei Cav e le figure di assistenza sul territorio – dagli assistenti sociali, alle amministrazioni locali fino alle forze dell’ordine. Si tratta di sinergie cruciali per accompagnare il percorso di autodeterminazione delle donne e di eventuali figli minori a carico. In più, queste relazioni favoriscono l’avvio di attività di formazione e sensibilizzazione nelle scuole o nelle aziende.

La mancanza di uniformità sul territorio nazionale riflette disparità regionali che rischiano di amplificare le barriere d’accesso per alcune fasce di popolazione femminile. Avviene principalmente nelle aree interne e nelle isole, dove le norme di genere tradizionali sono più persistenti.

Violenza contro le donne e norme di genere

Per poter comprendere e affrontare la radice della violenza contro le donne è fondamentale analizzare proprio le norme di genere. Seguendo le metodologie più recenti in economia di genere, come nella ricerca di Luisa Carrer e Lorenzo De Masi, abbiamo costruito un indice di norme di genere sociali ed economiche, ove le prime esprimono il ruolo della donna e dei rapporti uomo-donna nella società, mentre le seconde il grado di emancipazione economica e le disuguaglianze nei confronti delle controparti maschili. Gli indici sono composti da più variabili a livello provinciale o regionale tramite Principal Component Analysis.

Tra le variabili economiche consideriamo la disoccupazione femminile o la percentuale di famiglie monoreddito maschili, mentre tra quelle culturali troviamo la percentuale di divorzi o la rielaborazione delle risposte all’indagine di Istat sugli stereotipi di genere. Un valore basso dell’indice suggerisce uno scarso rischio di adesione alle norme di genere tradizionali, mentre un valore alto indica una forte adesione agli stereotipi vigenti.

Figura 2

Usiamo le norme di genere non solo per evidenziare alcune tipiche tendenze che caratterizzano il nostro paese, ma anche per rimarcare il loro legame con la violenza contro le donne. Osserviamo una chiara correlazione positiva tra il nostro indice di norme economiche e il numero di denunce presentate da donne per reati di violenza di genere: all’aumentare della disuguaglianza economica tra uomini e donne, si registrano più denunce, suggerendo una maggiore incidenza di tali reati. La relazione positiva tra disuguaglianza di genere e numero di denunce è probabilmente sottostimata, poiché maggiori disuguaglianze tendono a ridurre la propensione alla denuncia.

Pertanto, l’impatto delle norme di genere potrebbe essere significativamente più forte rispetto a quanto emerge dai dati. In contesti con maggiore disuguaglianza economica, come Siracusa e Napoli, i tassi di violenza di genere denunciata sono più alti, nonostante una minore inclinazione alla denuncia rispetto a città più emancipate economicamente, come Bologna o Milano.

Questo suggerisce che la struttura delle norme economiche e sociali locali gioca un ruolo cruciale nel plasmare sia le dinamiche della violenza di genere sia la sua emersione attraverso le denunce.

Landini sbaglia: il part-time involontario non è aumentato (pagellapolitica.it)

di Carlo Canepa

Lavoro
Secondo Istat, i dati degli ultimi quattro anni mostrano un miglioramento, anche se restano differenze tra i lavoratori
Il 21 novembre, ospite a Piazzapulita su La7, il segretario del sindacato CGIL Maurizio Landini ha criticato (min. -1:51:07) il governo Meloni, sostenendo che dietro alla crescita del numero degli occupati ci sia in realtà un calo delle ore lavorate e una crescita del cosiddetto “part-time involontario”.

In un altro fact-checking abbiamo spiegato che è scorretto sostenere che ci sia stato un calo generale delle ore lavorate, nonostante la crescita degli occupati. Ma che cosa ci dicono i numeri sugli occupati che affermano di avere un lavoro part-time (ossia a tempo parziale) perché non ne hanno trovato uno a tempo pieno? Anche in questo caso, è scorretto dire che c’è stata una crescita degli occupati part-time involontari.

I dati Istat più aggiornati sul part-time involontario fanno riferimento al 2023 e sono contenuti nel “Rapporto sul Benessere equo e sostenibile” (BES), pubblicato ad aprile 2024. Lo scorso anno in Italia il 9,6 per cento di tutti gli occupati ha dichiarato di svolgere un lavoro a tempo parziale perché non ne aveva trovato uno a tempo pieno.

Il 2023, ha sottolineato Istat nel suo rapporto, è stato «il quarto anno consecutivo» in cui si è registrato un «calo della quota di occupati in part-time involontario». Nel 2019 infatti la percentuale di part-time involontario era pari al 12,1 per cento, ed è poi costantemente scesa negli anni successivi.
Lo stesso istituto nazionale di statistica ha sottolineato comunque che, sebbene nel 2023 il part-time involontario sia diminuito di più tra le donne che tra gli uomini (-0,9 punti percentuali rispetto a -0,5 punti percentuali), questa forma di lavoro tra le donne occupate «è ancora tripla rispetto a quella degli uomini»: il 15,6 per cento contro il 5,1 per cento. Istat ha spiegato inoltre che circa la metà delle donne che lavorano in part-time non lo fa per scelta ma solo perché non è riuscita a trovare un’occupazione a tempo pieno.
Il part-time involontario riguarda soprattutto le fasce d’età più giovani dei lavoratori, sebbene ci sia stato un calo generale negli ultimi anni. Nel 2023 il 18,3 per cento degli occupati tra i 15 e i 24 anni di età aveva un lavoro part-time involontario, la percentuale più alta registrata dalle varie fasce d’età monitorate da Istat.
Altri fattori che incidono su questo fenomeno sono il territorio in cui si vive, il titolo di studio e la cittadinanza. Il part-time involontario è infatti più diffuso «tra i residenti nel Mezzogiorno (12,9 per cento) e nel Centro (10,6 per cento), tra chi ha un titolo di studio basso (12,2 per cento) e tra gli stranieri (16,2 per cento)», ha scritto Istat.

«In particolare, tra le lavoratrici straniere, oltre un quarto (26,2 per cento) lavora part-time suo malgrado. A tale proposito va considerato che il settore con quote di part-time involontario più elevato è quello dei servizi alle famiglie (41,1 per cento) dove si concentra l’occupazione femminile straniera».

Ricapitolando: a differenza di quanto detto da Landini in televisione, il fenomeno del part-time involontario in Italia è in calo e non in aumento, stando ai dati più recenti di Istat. Nonostante i miglioramenti, l’Italia resta tra i Paesi dell’Unione europea con la percentuale più alta di lavoratori part-time involontari sul totale dei lavoratori part-time tra i 15 e i 64 anni di età.

Secondo i dati raccolti da Eurostat, nel 2023 questa percentuale corrispondeva al 54,8 per cento: nonostante sia calato dal 2019 in avanti, questo dato è il secondo più alto di tutta l’Ue, dietro solo alla Romania (57,8 per cento).