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Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
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Davanti ai femminicidi di Ilaria Sula a Roma e Sara Campanella a Messina, fino a ieri dal governo non erano discesi commenti particolari.
Poi, durante un convegno a Salerno, ci […]
Davanti ai femminicidi di Ilaria Sula a Roma e Sara Campanella a Messina, fino a ieri dal governo non erano discesi commenti particolari. Poi, durante un convegno a Salerno, ci ha pensato il ministro della Giustizia Carlo Nordio a rimediare.
Con un intervento a metà tra Cesare Lombroso e la giuria del Buio oltre la siepe: «Purtroppo il legislatore e la magistratura possono arrivare entro certi limiti a reprimere questi fatti che si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne».
La questione etnica evocata da Nordio, verosimilmente, riguarda il caso Sula, dal momento che l’uomo che ha confessato il delitto, il 23enne Mark Sampson, è di origine filippina. È così che la morte di una 22enne per mano del suo ex si tinge di razzismo, nell’ennesimo caso di qualunquismo social che esce dagli smartphone e si proietta sull’esecutivo.
«Abbiamo fatto il possibile sia come attività preventiva per incentivare il codice rosso e accelerare i termini sia nell’aspetto repressivo – ha detto ancora il ministro – abbiamo addirittura introdotto il reato di femminicidio che ci è costata anche qualche critica. È questione di educazione, serve un’attività a 360 gradi, educativa soprattutto nell’ambito delle famiglie dove si forma il software del bambino».
Da notare, in questa parte del discorso, che la parte sull’educazione stride fortemente con quella precedente, dove si rivendica l’istituzione del femminicidio come reato autonomo, perché risolvere le questioni a colpi di codice penale è l’esatto opposto di fare un’operazione culturale utile a costruire «il software del bambino» (ma magari anche di chi un po’ è cresciuto).
AD OGNI MODO, tra gli imbarazzi del dibattito istituzionale e le migliaia di persone che organizzano manifestazioni e partecipano ad assemblee, le indagini sul femminicidio di Ilaria Sula vanno avanti. Ieri è stata effettuata l’autopsia sul corpo della giovane, utile soprattutto a determinare l’ora della sua morte. Da una prima ricognizione dei patologi, risulta che almeno tre delle coltellate dell’assassino siano state sferrate al collo.
Non è stata ancora trovata l’arma del delitto, che nell’interrogatorio fiume cominciato martedì notte e finito mercoledì pomeriggio, Samson ha detto di aver buttato all’interno di un tombino. In compenso dalla perquisizione effettuata dalla squadra mobile di Roma in via Homs 8, casa dei Samson e probabilmente anche luogo del delitto, sono state repertate diverse macchie di sangue localizzate nella stanza da letto di Mark.
Il materiale è a disposizione dei biologi della polizia che effettueranno tutte le analisi del caso. Resta ancora sospesa la posizione dei genitori del reo confesso: non sono stati iscritti del registro degli indagati e tutto dipende dalla ricostruzione di quanto accaduto tra le 22 di martedì 25 marzo – quando Ilaria Suma sarebbe arrivata nell’appartamento – e le 18 del giorno successivo, quando una telecamera ha identificato nel territorio comunale di Poli, sulla strada provinciale 45B, l’automobile utilizzata da Mark Samson per trasportare il corpo della vittima all’interno di una valigia, per poi buttarlo in un burrone a circa mezzo chilometro di distanza dalla carreggiata.
Gli inquirenti, guidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, sono impegnati a capire se i genitori del 23enne si fossero accorti del delitto avvenuto sotto il loro stesso tetto e, soprattutto, se abbiano in qualche modo collaborato all’occultamento del cadavere. Impossibile, visto il vincolo di parentela, la contestazione del favoreggiamento, ma questo non esclude la possibilità che si arrivi a ipotizzare il concorso in altri reati.
OGGI, nel carcere di Regina Coeli, si terrà l’interrogatorio di convalida dell’arresto di Mark Samson. A lui sono stati contestati i reati di omicidio volontario e occultamento di cadavere aggravati dal vincolo affettivo.
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di Federico Fubini
Non solo tariffe
Da quando Donald Trump è tornato alla presidenza, anche il sito della Casa Bianca si è trasfigurato.
Non presenta più il lavoro di un’istituzione, officia il culto di una persona. La pagina web si apre su una foto gigantesca di Trump e un annuncio a lettere cubitali: «America is back», l’America è tornata. Sotto, una sola promessa: «Ogni singolo giorno lotterò per voi con tutto il fiato che ho in corpo. Non riposerò finché non vi avrò dato l’America forte, sicura e prospera che meritate. Questa sarà veramente l’età dell’oro» per la nazione.
L’ idea di fondo è che il presidente costruirà una «Fortezza America» basata su un’«economia della produzione», indipendente nella manifattura di tutto ciò che è indispensabile. È la visione di un’autarchia americana. Per realizzarla, in poco più di due mesi la Casa Bianca ha deciso o minacciato dazi sul commercio di beni per oltre 1.900 miliardi di dollari: due terzi delle importazioni materiali degli Stati Uniti, che sono di gran lunga il più vasto mercato al mondo.
Se non è un cigno nero, è uno choc paragonabile all’aggressione all’Ucraina del 2022. Ora si aspetta il «Giorno della Liberazione» (mercoledì prossimo), in cui dovrebbero essere precisati i contorni di un’altra ondata di dazi «reciproci» contro l’Unione europea e vari altri Paesi; quindi, dopo acciaio e alluminio, si studiano barriere su rame, legname, farmaceutica e persino una tassa all’attracco delle navi fabbricate in Cina.
È tutto così novecentesco: materiali e manufatti che costituiscono l’infrastruttura di un’economia industriale e di una società tradizionale. Trump resta imprevedibile e ondivago, ma il suo obiettivo di fondo sembra essere un taglio netto alle catene fisiche del valore che tengono l’America legata al resto del mondo.
Le vuole rimpatriare in nome di un’economia simile a quelle di un tempo, quando ogni prodotto si faceva dall’inizio alla fine in un unico Paese. Così ad esempio il presidente tassa le componenti auto (un import da quasi 90 miliardi di dollari l’anno) e non solo il bene finito, in modo da spingere General Motors, Ford e Stellantis a rimpatriare filiere oggi estese in Messico, Canada o altrove.
All’annuncio, le case auto di Detroit sono cadute in Borsa; del resto tutta Wall Street da settimane dà segni di malessere, così come ne danno il dollaro stesso o le famiglie americane che temono l’inflazione innescata dai dazi. Ma il presidente, in apparenza, non se ne cura. O se ne cura solo a volte e solo in parte. Per lo più dimostra (per ora) un’indifferenza ai segnali di stress dell’economia e dei mercati che è nuova, rispetto al suo primo mandato.
Perché lo fa? Ufficialmente vuole ridare dignità e buoni posti di lavoro all’«uomo dimenticato», l’americano medio umiliato dalle delocalizzazioni verso la Cina. Lo stesso JD Vance, il vicepresidente, è notoriamente figlio di una comunità devastata dalla crisi industriale.
Un’occhiata più attenta suggerisce però che questa spiegazione non basti. Già oggi l’America è vicina alla piena occupazione, eppure l’industria assorbe appena l’8% della manodopera attiva anche se il numero degli addetti manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni dopo i crolli precedenti. In sostanza un’America autarchica non avrebbe abbastanza persone per le sue fabbriche, specie ora che gli stranieri sono deportati e scoraggiati in ogni modo.
Dietro le azioni di Trump sembra esserci piuttosto l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta.
L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.
Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni.
Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.
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