I 100 anni della biodinamica® e la pubblicità occulta (butac.it)

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Su molti media nei giorni scorsi si è dato grande risalto alle celebrazioni per i 100 della biodinamica®, che ha avuto un certo spazio al Salone del Gusto di Torino. Si è pertanto parlato di biodinamica® riportando le parole dette dal presidente italiano dall’unica azienda che detiene la proprietà del marchio biodinamica®, la Demeter.

Vorremmo che questo fosse chiaro fin da subito: biodinamica® è un marchio, come lo sono Coca Cola o Kamut, un marchio, a cui, su svariati media, viene dato spazio senza che venga segnalato che potrebbe trattarsi di pubblicità. Un marchio che sfrutta ogni possibile occasione per dare a intendere agli utenti di essere valido, e che possa generare prodotti più sani di quelli da agricoltura intensiva. Prove di questo assunto? Nessuna, se non le parole di chi è del settore della biodinamica®. Un po’ come chiedere all’oste se il suo vino è buono.

La cosa che ci dà più fastidio è quando, grazie a questo sistema ormai consolidato, viene gettato fango su altre pratiche agricole. Il 29 settembre ad esempio Repubblica titolava:

La biodinamica compie 100 anni, il grido d’allarme: “L’agricoltura industriale ci sta avvelenando”

Nell’articolo subito leggiamo:

L’agricoltura industriale ci sta avvelenando, è la principale causa insieme agli allevamenti del riscaldamento globale e contribuisce al proliferare di malattie e disagi che riguardano l’intestino, le allergie, problematiche del sistema immunitario. Senza contare i danni agli animali.

Sono le parole usate da Enrico Amico, presidente appunto di Demeter. L’articolo poi ci racconta:

La biodinamica nasce un secolo fa quando un gruppo di contadini in Germania chiede a Steiner indicazioni su un metodo alternativo di agricoltura. “Già all’epoca – continua Amico – molti avevano capito che il metodo di agricoltura, poi diventato industriale, basato sulla chimica aveva delle falle perché portava a una debolezza della qualità del cibo. A Steiner chiedevano che cosa dovevano fare per portare qualità. E noi biodinamici ancora oggi lavoriamo in questo solco”.

Siamo di fronte allo stesso modus operandi che i sostenitori della biodinamica usano da sempre: prima si attaccano gli altri sistemi di agricoltura, poi si dà a intendere che il proprio sia migliore.

La biodinamica, sebbene spesso promossa come una pratica agricola sostenibile e affine all’agricoltura biologica, è ampiamente considerata pseudoscientifica da molti esperti, come noi e molti altri cerchiamo di spiegare da anni.

Questo metodo, basato sulle teorie di Rudolf Steiner, include concetti esoterici e superstiziosi, come l’uso di corna di vacca riempite di letame e sepolte nei campi per “raccogliere energie cosmiche”, o l’idea che la posizione della Luna e dei pianeti possa influenzare la crescita delle piante. Tali credenze non hanno basi scientifiche sensate e sono considerate più vicine all’astrologia che all’agronomia.

Steiner non aveva alcuna competenza nel settore agricolo e biologico, ma era un appassionato di pratiche esoteriche, come appunto l’astrologia, l’olistica e l’omeopatia. Steiner a quegli agricoltori che gli chiedevano aiuto impartì otto lezioni intitolate “Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura”, e nelle lezioni trovano spazio suggerimenti come questo:

Catturate un topo abbastanza giovane e spellatelo in modo da recuperare la pelle. Ora avete la pelle (ci sono sempre abbastanza topi, ma devono essere topi di campo se volete fare questo esperimento). La pelle del topo però deve essere ottenuta quando Venere è nel segno dello Scorpione. Quando Venere è nello Scorpione procuratevi la pelle di un topo e bruciatela. Raccogliete attentamente le ceneri e gli altri resti della combustione. Non sarà rimasto molto, ma se avete abbastanza topi è sufficiente. A patto che il fuoco sia avvenuto quando Venere è nello Scorpione, lo troverete un rimedio eccellente. In questo modo riuscirete a scacciare i topi dal vostro campo visto che verranno distrutte le corrispondenti forze negative nei confronti della capacità riproduttiva del topo di campo. Successivamente, prendete la cenere e spargetela su tutto il vostro campo.

Questi sono gli insegnamenti del fondatore della biodinamica®, e non sono altro che esoterismo applicato all’agricoltura, senza che vi sia appunto nulla di scientifico.

La cosa che però ci dà più fastidio è quella frase:

…il metodo di agricoltura, poi diventato industriale, basato sulla chimica aveva delle falle perché portava a una debolezza della qualità del cibo…

Tutto si basa sulla chimica, la vita stessa è chimica, parlare di chimica VS natura è una presa per i fondelli. Tutto è chimica, anche il cornoletame tanto amato dai sostenitori della biodinamica® si basa sulla chimica. La comunità scientifica ha contestato l’approvazione di queste pratiche, evidenziando che non esistono prove a sostegno delle affermazioni di chi le sostiene.

La biodinamica® si distingue dall’agricoltura biologica, che perlomeno si basa su principi scientifici verificabili, proprio per l’inclusione di questi elementi mistici che non possono essere testati empiricamente.

Non spiegare queste cose in articoli destinati al grande pubblico è vergognoso.

Qualche fonte per voi che amate approfondire:

Qui trovate gli articoli che abbiamo scritto in passato sul tema, e per non farci mancare nulla i due video di Tommaso Di Mambro e la sua chiacchierata con Sergio Saia, professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa:


Cos’è questa storia di Angela Carini nello spot dell’azienda che costruirà il Ponte sullo Stretto (fanpage.it)

di Annalisa Girardi

Angela Carini è tra le protagoniste di una campagna 
pubblicitaria della Webuild, l’azienda incaricata 
di costruire il Ponte sullo Stretto. 

E non sono mancate le polemiche e l’ironia sui social.

Una campagna pubblicitaria “per promuovere i valori dell’Italia che vince nel mondo”: è quella realizzata da Webuild, l’azienda incaricata di costruire il Ponte sullo Stretto, che ha come protagoniste diverse atlete, tra cui anche Angela Carini. Ma dopo le polemiche esplose durante le Olimpiadi di Parigi sul match con Imane Khelif – che ha poi vinto la medaglia d’oro – la pugile azzurra è stata presa di mira dall’ironia sui social.

La campagna si chiama “Webuild per lo sport. Costruire un sogno: storie di campionesse”. Uno spot a cui hanno partecipato, oltre a Carini, diverse atlete italiane:  la velista Caterina Banti, la judoka Alice Bellandi, e le velociste Zaynab Dosso e Antonella Palmisano. Ad ognuna di loro è stata affiancata una qualità: audacia, perseveranza, resilienza, tenacia e passione, quest’ultima scelta proprio per Carini.

Nel video diffuso dall’azienda sui social si vedono le cinque atlete impegnate ad allenarsi, delle immagini accompagnate da messaggi motivazionali che invitano a non mollare mai e andare sempre avanti. E sono subito partiti i commenti ironici e gli sfottò degli utenti.

La pugile è finita nelle scorse settimane al centro delle polemiche per aver abbandonato il match con l’avversaria algerina, Imane Khelife, dopo essere rimasta sul ring letteralmente meno di un minuto: 46 secondi, per la precisione. Il ritiro è arrivato dopo che nei giorni precedenti erano circolate vere e proprie fake news su Khelife, che era stata definita un’atleta transgender, quando non lo è.

Tra i commenti degli utenti c’è chi scrive che come Carini non ha finito il suo match, nemmeno il Ponte verrà mai davvero portato a termine. Oppure, chi dice che “se il Ponte avrò la stessa resistenza di Carini siamo in una botte di ferro”. E così via, tra messaggi decisamente poco carini verso l’atleta e diverse critiche alla scelta dell’azienda sulla campagna pubblicitaria.

Va detto che molto probabilmente si tratta di uno spot registrato prima dei giochi olimpici e di tutte le polemiche che ci sono state in queste settimane, anche se è stato diffuso solo alcuni giorni fa.

Ad ogni modo, si presume che il risultato ottenuto non sia quello a cui puntava la Webuild.

Bologna 2021-26. La mortadellosa mitomania di Bologna che non è sfuggita al New York Times (linkiesta.it)

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Vuoi mettere la community

Ho l’identità di codice postale, mi percepisco milanese.

Del resto, i bolognesi pensano seriamente che dei cuochi amatoriali locali potranno cucinare alla Casa Bianca

Tu, mi dice sempre una postmodernista che conosco, dovresti capire meglio di chiunque altro la questione delle persone trans, avendo anche tu un’identità non di genere ma di codice postale: sei di Bologna ma ti percepisci di Milano.

È in effetti vero che il tempo che trascorro a Bologna lo trascorro a borbottare qualche variazione su «vuoi mettere Milano»: le amiche telefonano lamentandosi di Sala, del fatto che non funziona più niente, del metrò che passa con frequenza romana, e io come un disco rotto chiedo se vogliano fare a cambio con Lepore che non raccoglie la spazzatura.

È però altrettanto vero che il tempo che passo a Milano lo passo borbottando «si vede proprio che sono finiti i soldi». Solo in un pomeriggio di questa settimana: i cartelli nella fermata del metrò di Montenapoleone che avvisano che gli ascensori li stanno riparando e se avete bagaglio dovete usare un’altra fermata, come se la città ad agosto ancora si fermasse come quando c’erano i soldi; la trasformazione di Corso Como 10, il concept store del lusso quando c’erano i soldi, in spaccio di saldi; il Ratanà che è chiuso a pranzo perché quel genio del sindaco, con l’imprinting della sua giovinezza in un secolo in cui c’erano i soldi e Milano ad agosto era deserta, fa fare i lavori lasciando la zona senz’acqua per intere giornate; i taxi che non si trovano, perché i tassisti saranno organizzati come quando c’erano i soldi e le città d’agosto erano deserte, e se si trovano non riescono però a venire a prenderti in via della Spiga perché via del Gesù è interrotta anche lei dai lavori: tutta la manutenzione concentrata ad agosto, come agosto fosse l’agosto del Novecento.

Il mio preferito tra gli account Twitter (o come si chiama ora) è uno che si chiama “Editing The Gray Lady”, tenuto da un picchiatello che, mentre noi dormiamo, sta lì a controllare come il New York Times cambia titoli o url degli articoli che solo dopo averli messi on line si rende conto possano risultare imprecisi o, peggio, disturbanti per qualcuno.

Ieri mattina mi ha segnalato che il pezzo su Bologna che avevano pubblicato aveva cambiato titolo, rinunciando al meraviglioso “Come la mia amata città italiana è diventata un incubo di mortadella”. Chissà se l’autrice ha fatto notare alla redazione che “Mortadella nightmare” sarebbe parso, ai più anziani bolognesi, un attacco a Romano Prodi. Bologna nel titolo è diventata “inferno di turisti” – che, converrete, è troppo generico.

(Davide Cantelli)

L’articolo del New York Times mette a parte gli stranieri d’un’osservazione che chiunque sia cresciuto a Bologna fa da parecchi anni. Ricopio da un articolo che scrissi per La Stampa nel 2021, parlando della cartoleria in cui compravo scemenze color pastello da piccina: «Adesso, a quel civico di piazza Minghetti c’è un bistrot, perché ormai Bologna è fatta solo di posti dove mangiare (al posto di Naj Oleari c’è una pizzeria)».

Nel frattempo ha smesso d’esser vero: le mie madeleine non sono più rimpiazzate solo da mense di vario tipo. L’ultimo posto a resistere, la mesticheria di piazza Galvani dove le bambine della mia generazione compravano i colori e il Das, ha chiuso l’anno scorso, ora al suo posto c’è un negozio di vestiti d’acrilico. Siamo troppi, è scomparso il gusto, e dobbiamo tutti comprare in continuazione vestiti brutti e cibo sovrapprezzato.

Al posto del cinema porno Ambasciatori, c’è la libreria preferita del ceto medio complessato, col suo bravo Eataly all’interno, e chissà perché quel baluardo culturale in cui i bolognesi andavano a farsi le seghe dopo aver pagato il biglietto nessuno lo rimpiange mai, reliquia di quando si pagava tutto, persino il porno.

Come da titolo originale, il pezzo del New York Times si concentra sull’iconografia porcina nelle vetrine, e sulla quantità di posti che vendono mortadella, ma quella è nient’altro che la mano invisibile del mercato. Quando Stanley Tucci venne a Bologna e andò a mangiare la mortadella col tizio delle Sardine (che, a nominarlo adesso, sembra più recente Ciro Cirillo), ricordo settimane d’indignazione social perché Tucci aveva detto che nella mortadella c’era l’aglio. Se pensate che i romani con la loro ortodossia della carbonara siano noiosi, non avete mai visto i bolognesi.

La cucina bolognese non esiste, ma su questo apriamo un dibattito un’altra volta. Pur non esistendo, è però l’unica attrattiva locale, l’unico orgoglio, l’unica specificità, epperciò: mortadella. Certo che è straniante vedere un posto che fa solo panini alla mortadella aprire succursali in tutto il centro, ma ogni volta che passo davanti a qualche succursale ci sono decine di persone in fila: è difficile resistere al mercato, amore mio.

Io d’altra parte non collaboro alla demortadellizzazione. Qualche sera fa, incuriosita da un articolo di Gastronomika, sono andata a cena in un giapponese che non conoscevamo né io né i miei commensali. Abbiamo mangiato molto bene, ma quando all’inizio la cameriera ci ha spiegato che avevano un solo vino perché loro non sono un ristorante ma un cocktail bar con assaggi di cibo, molti occhi si sono alzati al cielo: maronn’, Bologna quando vuol fare Milano che a sua volta vuol fare New York, e in tutto questo rimbalzo di desiderio mimetico arriva tre giri in ritardo.

Il turista che passa da Bologna preferirà fare la fila per cinque euro di panino alla mortadella o andare a mangiare in un posto che nelle foto per Instagram (l’unica ragione per cui ormai si viaggi) non sembrerà tipicamente bolognese? Il turista medio, che si percepisce viaggiatore perché come bagaglio a mano ha una borsa con stampato il mappamondo, saprebbe distinguere un posto in cui si mangia bene da una trappola per turisti? Certo che no, sennò nove decimi dei ristoranti nel centro di Roma avrebbero già chiuso, e a Venezia ci sarebbero solo i residenti.

Che siamo troppi e troppo privi di gusto e che lo scempio delle città dipenda da questo ben più che da RyanAir è un dato di realtà che nessuno ha voglia di affrontare. Mentre scrivo questo articolo mi arriva la mail d’una lettrice che dice che no, la questione della sovrabbondanza di turismo non è come l’ho descritta l’altro giorno, è che chi ci governa non ci educa con un’offerta culturale – sì, buonanotte.

Ieri mattina, mentre nel mondo leggevano il New York Times, a Bologna leggevano il dorso locale del Corriere, che in prima pagina aveva questo titolo: “Una Cesarina per la Casa Bianca – La rete di cuochi amatoriali nata a Bologna si offre per cucinare al prossimo presidente”. Procedo a leggere convinta si parli della Cesarina, famoso e antico ristorante bolognese. E invece.

E invece, m’informa il Corriere senza mai ridere in faccia alla proposta che sta riferendo, si tratta della «community riunita attorno alla piattaforma cesarine.com, nata a Bologna nel 2004». Quando vedo la parola «community» metto mano alla pistola, ma mi contengo e proseguo nella lettura.

La cuoca della Casa Bianca vuole ritirarsi, e quindi «la proposta di Cesarine prevederebbe la rotazione trimestrale di cuoche e cuochi amatoriali, provenienti da diverse regioni».

Come ogni persona sana di mente, sono svenuta all’idea che non solo sia plausibile che alla Casa Bianca optino per «cuochi amatoriali» (la mia insalata di pesche e pomodori varrà un invio di curriculum?), ma anche che le indagini di sicurezza vengano rifatte ogni tre mesi per far entrare alle dipendenze del presidente dei nuovi dilettanti con la passata di pomodoro in valigia. Ma il Corriere non ride, e insiste.

«Non sta nella pelle Davide Maggi, ceo di Home Food Società Benefit, cui fanno capo la community e la piattaforma: “Siamo entusiasti – conferma – di annunciare la candidatura delle nostre 1.500 Cesarine e Cesarini”». Immagino che non stiano, come si direbbe in frasifattese, nella pelle neanche i servizi segreti americani, che non vedono l’ora di vagliare mille e cinquecento fedine penali a scopo di soffritto.

Spero che al New York Times non si siano persi questo ritaglio del Corriere, e abbiano capito che non la mortadella, non il numero tendente a infinito di posti dove si mangia (male), non le torri e le tette e i tortellini, distinguono Bologna da Milano, Bologna da New York, Bologna da qualsivoglia luogo.

Sempre e solo, a caratterizzare la città rispetto alla quale vorrei variare sui documenti la mia identità, è la mitomania. Specialità locale diffusa anche altrove (Manuel Fantoni e Bruno Cortona sono entrambi romani), ma mai mai mai con la totale, assoluta, talentuosa mancanza di senso del ridicolo che caratterizza la nostra più mortadellosa mitomania di provincia.

(Paolo D’Andrea)

I corsi da infermiere (e non solo) fake (butac.it)

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Ci avete segnalato alcuni post social che rischiano di fare grossi danni:

 

Qui li vedete relativi a corsi di infermieristica, ma basta guardare la libreria inserzioni delle pagine che li condividono per rendersi conto che di corsi gratuiti ne offrono a centinaia, per svariate professioni e in svariate lingue:

Dal nutrizionista al legale, dall’analista dati al designer di interni, passando per ogni tipo di operatore sanitario, con tanto di loghi istituzionali di Ministeri e Ordini, in italiano ma anche in spagnolo e inglese (e anche tedesco, rumeno e chissà quante altre). Una delle pagine che abbiamo analizzato ha pubblicato più di cento post sponsorizzati in un solo mese.

Voi lo capite perché Meta lascia fare? Sono soldi, che entrano facili, cosa gli importa se sono truffe? Un po’ come quando vediamo gli annunci delle cartomanti e degli indovini sui quotidiani nazionali: anche in quel caso per pubblicare l’annuncio hanno pagato, l’editore probabilmente sa bene che non esistono indovini e che i cartomanti sono abili ciarlatani, ma se ne infischia. Pagano, chi è lui per giudicare?

Su Meta accade lo stesso, l’editore (Zuckerberg o chi per lui) lascia fare, non è interessato a quanto questi annunci sponsorizzati siano fraudolenti, si limita a incassare il suo conquibus, e a rimuovere i post se vengono segnalati spesso.

Purtroppo chi ci casca difficilmente farà causa a Meta, anzi in linea di massima difficilmente farà causa in generale. E invece dovrebbe, coinvolgendo anche Meta nella causa, perché sarebbe davvero ora di dire basta a questa assurdità.

I post sulle lauree in infermieristica sono già stati segnalati dalle associazioni di categoria che hanno pubblicato comunicati stampa e post social per spiegare appunto la falsità dell’annuncio. Ma dalle altre categorie non ci risulta sia stato fatto molto, e le pagine continuano imperterrite a far girare gli annunci, il che significa che il gioco vale la candela.

Il giorno che verranno veramente usati validi algoritmi e IA evolute per limitare questo genere di pratica sarà sempre troppo tardi, nel frattempo i truffati saranno nell’ordine dei milioni di persone nel mondo.

Toninelli, “non riesco più a prendere il tonno”: l’ultima polemica

di Alessandro Gonzato

La faccenda è seria. 

L’ex ministro Danilo Toninelli, quasi un milione di euro in nove anni di parlamento, non può più permettersi il tonno in barattolo. Fermi: non si ride di queste cose. Oltretutto lo sventurato ha avuto il coraggio di parlarne in un video pubblicato su Facebook.

«Io prima mangiavo il salmone, (…) sapete noi fissati con la palestra… o mangiavo la bresaola. Cancellato tutto: un po’ perché non voglio più mangiare carne né pesce, un po’ perché non è più fattibile. Io non riesco più a prendere neanche il tonno. Avete presente una scatoletta di tonno? Io prima prendevo quello in vetro… ma porca puttana costava due euro e cinquanta! Adesso sono sette! Ragazzi, è una roba devastante».

Toninelli, ex deputato grillino, ex titolare del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti e senatore, indossa una maglietta grigio-Ferragni. Si abbandona al turpiloquio, e c’è da capirlo: un «cazzo» di qua e un «merde» di là. Ma ha il cuore tenero. Si spezza con un grissino.

VISIONARIO

«Faccio tutto quello che posso per aiutare la mia famiglia, tutto». L’ex ministro che vedeva tunnel inesistenti quello del Brennero ancora lo aspettano – conduce una rubrica social che si chiama “Contro informazione”, un’oretta alla settimana in cui fa il maître à penser e se la prende con tutti: fa il gesto dell’ombrello quando parla di Salvini (tiè!) a cui dà del «codardo»; attacca ferocemente il Pd col quale i 5Stelle hanno continuato a governare: dalla Lega ai Dem come si sale e scende dal tram; rivela che all’ex sottosegretario e compagna di partito Laura Castelli non rispondeva nemmeno al telefono; tuona che è «un Paese politicamente imbarazzante» e non lo era quando lui era il braccio sinistro di Conte, si capisce.

Uno spettatore gli scrive: «In Italia siamo governati dagli scemi».

Breve digressione: 17 marzo 2019, Tg2 Motori, Toninelli è in auto con la conduttrice ed esclama: «Avanti con l’elettrico!». Domanda della conduttrice: «Ministro, lei che macchina ha?». Toninelli: «Ho appena comprato una Jeep Compass, diesel». Che cos’è il genio?

È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. L’allora ministro puntò il dito contro Lombardia e Veneto, «le uniche regioni dove sono stati aumentati i pedaggi, prova del mal governo della Lega», e però l’assessore veneto alle Infrastrutture Elisa De Berti rispose che gli aumenti «li aveva firmati Toninelli nelle vesti di membro del governo Conte I, a fine 2018». Torniamo al carrello della spesa.

«Vi ricordate», dice Toninelli al suo pubblico, «quando a fine legislatura (…) io dovevo capire come andare avanti lavorativamente per mantenere me stesso e la mia famiglia, e una delle opportunità era quella di andare a fare il commentatore televisivo. Mi avevano offerto anche 700 euro a puntata, e quindi con 700 di qua e 500 di là i miei 4-5mila euro lordi li avrei portati a casa, e sarei riuscito a pagarmi il mutuo, le bollette, la scuola dei miei ragazzi…».

Niente, Toninelli è integerrimo: «La televisione è una merda!», sbotta, e intanto gli spettatori gli inviano donazioni in tempo reale, chi 10, chi 20, chi 50 euro. Tutto per la sopravvivenza di “Controinformazione”, chiariamo. «Se accettavo la tivù dovevo stare in mezzo a gente di merda, e dopo dieci annidi parlamento e di giornalisti, forse era giunto il momento di chiudere la porta in faccia e farcela con le proprie mani».

Ha detto così. Ha retto due lustri, ha lottato strenuamente contro quella robaccia. Si è turato il naso. Poi 10mila euro al mese non valevano più la candela. Prima però c’era da estinguere un mutuo e accenderne un altro.

Nel mondo dell’informazione Toninelli salva solo Di Battista, «per la geopolitica Orsini», il Fatto Quotidiano, «dicono che parteggia per i 5Stelle ma mi hanno sempre preso a badilate in faccia», e in effetti è un mistero. «Ma come possiamo informarci?», gli chiede un utente. «Io penso che coi libri». Lui ne ha scritto uno, “Non mollare mai – la storia del ministro più attaccato di sempre”.

Ricordiamo parte dell’abstract: «Ci sono sfide di rilancio nel nome della trasparenza e della sostenibilità ambientale, lo sblocco dei cantieri, la battaglia costante contro un sistema clientelare radicato, contro i sensazionalismi mediatici, contro il “collega” Salvini che, in un connubio di propaganda e fake news, inizia la guerra dei porti chiusi».

Che tempi: le manifestazioni grilline al grido di «o-ne-stà, o-ne-stà» e l’abolizione della povertà, con Toninelli in estasi mistica sul balcone di Palazzo Chigi accanto a un Giggino Di Maio trasfigurato. «Non mi sono mai identificato col ruolo che ricoprivo», rivela Toninelli al suo popolo social.

CHE STILE

Durante le dirette è un po’ santone e un po’ si infervora come il mitologico Baffo Da Crema. A volte si fa professore alla Scanzi. Altre gigioneggia, verve alla Bonolis, ritmo di Mentana e di tanto in tanto un riferimento alla “Canna Birra”, che però non sappiamo cosa sia. Ah, dimenticavamo: Toninelli è anche un po’ filosofo, afferma che sa di non sapere, e insomma Toninelli come Socrate.

Attenzione, colpo di scena: «Io quando vedo uno che esce la mattina col capello perfetto, con la riga, con la pochette perfetta, tutto laccato… quando si è molto impegnati… Io da ministro più o meno per prepararmi la mattina e andare a lavorare erano 30 secondi-un minuto… non è che stavo lì a guardare il parrucchino… Se tu sei così precisino, con l’abito senza pieghe, tutto su misura, significa che hai impiegato risorse mentali per farti così…». No, non parla di Conte.

Lo immaginiamo, Toninelli, trafelato come Fantozzi che deve raggiungere la Megaditta. Toninelli bombarda il governo «sull’abolizione del reato d’abuso d’ufficio», sostiene che la Ferragni è un’arma di distrazione di massa per coprire le malefatte meloniane: «Sono tutte cose che con noi gente normale, che la mattina andiamo a lavorare, che ci raccapezziamo mettendocela tutta per tenere tutto assieme, non c’entrano niente». Pare che per aiutare Toninelli sia partita una colletta alimentare, ma noi non ci crediamo. Carne secca e riso, come in Vietnam. E il tonno? Forza Toninelli: non mollare Mao! Pardon, mai!