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In un anno il governo ha mantenuto meno di una promessa su cinque (pagellapolitica.it)

PROMESSOMETRO
A che punto sono i 100 obiettivi più importanti contenuti nel programma elettorale del centrodestra? Più della metà è in corso di attuazione, ma in tre casi è stato fatto il contrario di quanto promesso
A un anno dal suo insediamento il governo guidato da Giorgia Meloni ha mantenuto meno di una promessa su cinque tra quelle contenute nel programma elettorale della coalizione di centrodestra. Abbiamo analizzato i 100 impegni principali presi con gli elettori da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati prima del voto del 25 settembre 2022: 17 promesse sono state portate a termine, mentre per 21 il governo ha fatto poco o nulla per mantenere fede alla parola data. L’attuazione della maggior parte delle promesse è comunque “in corso”, mentre il governo ha già compromesso l’attuazione di tre misure (Grafico 1).

Il “Promessometro” del governo Meloni è consultabile a questo link: per ogni promessa è indicato lo stato di attuazione e una breve descrizione di quanto fatto finora dal governo.

Consulta qui il “Promessometro” di Pagella Politica sul primo anno del governo Meloni.

Il programma elettorale della coalizione di centrodestra, pubblicato l’11 agosto 2022 con il titolo “Per l’Italia”, è suddiviso in 15 sezioni, che vanno dalla politica estera ai giovani, passando per la sanità, il fisco e il lavoro. In ogni sezione la coalizione ha elencato i traguardi da raggiungere una volta arrivata al governo. Abbiamo deciso di controllare, passato un anno dal giorno dell’insediamento dell’esecutivo, a che punto è l’attuazione del programma di coalizione. Ricordiamo che una legislatura dura cinque anni e l’attuale scadrà a ottobre 2027: se non ci saranno crisi di governo e i partiti della maggioranza resteranno solidi, il governo Meloni avrà ancora quattro anni a disposizione per rispettare gli impegni presi.

Abbiamo suddiviso le 100 principali promesse del programma di centrodestra in quattro categorie. Le promesse “Mantenute” sono quelle per cui il governo ha preso provvedimenti concreti e definitivi per tenere fede alla parola data. Le promesse “Non mantenute”, invece, sono quelle per cui è stato fatto poco o nulla. Le promesse “In corso” sono quelle per cui l’esecutivo o il Parlamento hanno ottenuto alcuni risultati, senza però riuscire a completare del tutto l’impegno preso. Infine le promesse “Compromesse” sono quelle in cui il governo ha fatto l’opposto di quanto promesso o ha preso provvedimenti che ne rendono più difficile la realizzazione. Sottolineiamo che non tutte le promesse sono confrontabili tra loro, visto che non hanno lo stesso peso politico. Ma su questo fronte non abbiamo fatto valutazioni, che lasciamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori.

Tra le 17 promesse mantenute ci sono: la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione e il supporto per la formazione e il lavoro; il sostegno militare all’Ucraina, con l’invio di due pacchetti di armamenti che si sono aggiunti a quelli mandati dal governo Draghi; l’introduzione di nuovi incentivi per le assunzioni dei lavoratori, tra cui donne e giovani; l’aumento dell’estrazione di gas naturale in Italia; e l’innalzamento del limite all’uso del denaro contante, portato a 5 mila euro.

Tra le 59 promesse che sono in corso di attuazione ci sono alcuni dei provvedimenti principali promossi dal governo. Qui, per esempio, rientrano la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), su cui sono in corso le trattative con l’Unione europea; il taglio del cuneo fiscale, che è stato approvato, ma non in via strutturale; l’estensione del regime forfettario (chiamato impropriamente “flat tax”) per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro, e non 100 mila come promesso nel programma di coalizione; la riforma fiscale, la cui legge delega è stata approvata dal Parlamento e che ora il governo dovrà concretizzare con i decreti attuativi; il sostegno alla natalità e altre varie riforme, come quella della giustizia.

Tra le 21 promesse che il governo non è ancora riuscito a mantenere spiccano la «difesa dei confini nazionali ed europei» dai migranti, con gli sbarchi che dal 1° gennaio al 24 ottobre 2023 sono quasi raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2022; la creazione di hotspot nei Paesi fuori dall’Europa; l’allineamento ai parametri europei degli investimenti nella ricerca; la «salvaguardia della biodiversità» con «l’istituzione di nuove riserve naturali»; e l’introduzione della «valutazione dell’impatto generazionale delle leggi e dei provvedimenti a tutela delle future generazioni».

Gli impegni la cui attuazione è stata di fatto compromessa dal governo sono tre. Nel suo programma elettorale la coalizione di centrodestra aveva difeso la necessità di introdurre «l’elezione diretta del presidente della Repubblica». A oggi il governo non ha ancora presentato in Parlamento un disegno di legge ufficiale per cambiare la Costituzione in questo senso. Negli scorsi mesi la ministra per le Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati ha comunque annunciato che presto sarà definita una proposta per potenziare i poteri del presidente del Consiglio (il cosiddetto “premierato”), rinunciando così all’elezione diretta del capo dello Stato.

Il governo aveva anche promesso di ridurre l’Iva sui «prodotti e i servizi per l’infanzia». In effetti con la legge di Bilancio per il 2023 l’Iva per i prodotti della prima infanzia è stata ridotta temporaneamente al 5 per cento, ma il governo ha annunciato che il taglio non sarà confermato nella legge di Bilancio per il 2024. Secondo l’esecutivo il provvedimento non ha funzionato, visto che i risparmi per i consumatori sono stati annullati dall’aumento dell’inflazione.

Il terzo e ultimo impegno finora compromesso è quello sul «rimboschimento» e sulla «piantumazione di alberi sull’intero territorio nazionale»: nella proposta di modifica del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) il governo ha chiesto all’Unione europea di poter ridimensionare l’obiettivo, considerato irraggiungibile, di piantare 6,6 milioni di nuovi alberi entro il 2024.

Come mostra il Grafico 2, le sezioni “Giovani e sport”, “Ambiente” e “Scuola, università e ricerca” sono quelle in cui il governo ha ancora molto da fare per rispettare gli impegni elencati nel suo programma. Le sezioni “Energia” e “Lavoro ed economia” sono invece tra quelle su cui l’esecutivo si è finora speso di più per mantenere la parola data agli elettori.

Consulta qui il “Promessometro” di Pagella Politica sul primo anno del governo Meloni.

Il ritorno del voto in condotta e l’approccio colpevolizzante della riforma Valditara (linkiesta.it)

di

Dis-educazione

Il ministro propone di ripristinare il giudizio sul comportamento anche per le medie, ma senza una responsabilizzazione condivisa e senza l’educazione civica degli studenti non si ottengono molti risultati

Si chiama “Revisione della valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti”. È il decreto legge votato dal Consiglio dei ministri pochi giorni fa: tradotto, si propone la reintroduzione del voto in condotta. Non che fosse completamente sparito. Perché la “Valutazione del comportamento degli alunni”, sancita dalla Riforma Gentile nel 1924, ha sempre fatto parte del dna della scuola italiana – dalle elementari alle superiori – per almeno i suoi primi cinquanta anni.

Abolita nel 1977 per le classi elementari e medie (dove fu sostituita da una “valutazione informativa”, cioè un «giudizio sul livello globale di maturazione dell’alunno») è rimasta però sempre in vigore alle superiori: fino a oggi, per essere promossi, serve la sufficienza in tutte le materie e «un voto in condotta non inferiore a 6».

Ma va detto che, dagli anni Novanta in poi, è stato un lungo tira e molla. Con l’avvento dell’autonomia scolastica e l’introduzione del Regolamento dell’autonomia (DPR n 275/99, art. 17) il peso della condotta si è alleggerito fino al punto che, dall’anno scolastico 2000-2001, non condiziona più in alcun modo la promozione o l’ammissione agli esami. Ci ha pensato la ministra Mariastella Gelmini a reintrodurre una maggiore severità, con l’obiettivo di combattere i primi casi di bullismo.

E oggi? La proposta del governo è quella di ripristinare anche per le medie il voto in condotta e dargli lo stesso peso di un tempo: lo studente che al termine dell’anno scolastico avrà 6 in condotta sarà rimandato a settembre. Con l’insufficienza, sarà bocciato.

Per il momento è ancora solo un disegno di legge, quindi dovrà essere approvato anche dal Parlamento: per l’entrata in vigore se ne riparla nel 2024. Ma con Cristiano Corsini, docente di Pedagogia sperimentale all’Università Roma 3 e autore del saggio “La valutazione che educa” (Franco Angeli) si può provare a inquadrare questa proposta nel merito. «L’educazione in generale, e la valutazione in particolare, sono sempre questioni inevitabilmente politiche.

Nel senso che, come e più di ogni altra faccenda educativa, la valutazione è infatti una forma di gestione del potere. I giudizi comportano effetti pratici, e a chi li formula è conferito il potere di incidere in qualche modo sul corso di eventi futuri», dice Corsini che, nel suo libro, si chiede se questo strumento sia davvero utile all’apprendimento.

«Quando si parla di condotta, poi, il vero problema è quello di assegnare un voto a qualcosa che è un po’ più difficile definire e valutare. Considerate anche le diverse sensibilità degli insegnanti. E soprattutto oggi, che abbiamo ben chiaro il legame c’è tra le “competenze di cittadinanza” e il “comportamento”, da qui il recente potenziamento dell’educazione civica nella scuola dell’obbligo. Perché senza una responsabilizzazione davvero condivisa, e senza fare i conti con la complessità del mondo, non si va molto lontano, rischiamo di cambiare solo le parole.

Con l’aggravante che l’educazione civica non funziona per coercizione e paura: questo sguardo violento sulle cose non può produrre una vera conquista dell’adultità, del senso di responsabilità personale. Ma una cosa è certa: per quanto criticabile sia la scelta del ministro Valditara, un problema c’è». E i recenti casi di cronaca aiutano a spiegare dove sia, questo problema.

L’insegnante di Rovigo trasformata in un bersaglio da un alunno che alla fine viene promosso con il 9 in condotta (poi la scuola, diffusa la notizia e l’indignazione generale, ha fatto dietrofront); la docente di un liceo del Lazio buttata a terra da alcuni studenti che filmano la caduta con i telefoni sospesa dalla dirigente per «non turbare la serenità degli alunni» e via così. Tutto vero.

Eppure, una dimensione così complessa e astratta come la vita a scuola dei nostri figli può essere davvero ridotta a un numero? O non rischia di diventare qualcosa che, nei consigli di classe, si risolve in un’astratta – magari anche discriminante – controversia sui valori morali o le pratiche educative (che, tra l’altro, possono cambiare anche radicalmente da un insegnante all’altro).

«Il problema è che negli anni è andata in frantumi quella che era una comunità educante, composta da genitori e insegnanti», dice Corsini. Poi ci sono problemi strutturali: classi troppo affollate alle superiori, spazi inadeguati o insufficienti.

«Una didattica cooperativa – aggiunge Corsini – avrebbe bisogno di spazi accoglienti e figure qualificate e, come dimostrano tutte le esperienze scolastiche sperimentali italiane o di altri Paesi, è quella che funziona meglio della didattica punitiva. Dunque minacciare gli studenti con il “voto in condotta” è soprattutto inutile. È  l’espressione di uno sguardo monodimensionale e colpevolizzante che non va da nessuna parte».

Ma se per molti addetti ai lavori la strada imboccata dal governo non è la soluzione, allora cosa si può fare? «Il rispetto si costruisce con insegnanti più formati, preparati e competenti», spiega Daniele Novara, pedagogista e direttore del Centro Psicopedagogico di Piacenza. «I professori dovrebbero gestire l’intera classe, anche l’alunno “difficile”, oltre a saper sviluppare le competenze psico-socio-emotive di tutti gli alunni e di gestire eventuali crisi dovute a casi di bullismo.

Tutti gli indicatori ci dicono che i ragazzi ne hanno un grande bisogno, non perché siano più arrabbiati, anzi: sono soprattutto depressi. Dobbiamo tutti lavorare perché la scuola diventi un luogo dove si va volentieri. E dove si sperimenta il piacere di costruire se stessi, non l’obbligo di rispondere di se stessi agli altri».

Cosa capiscono i ragazzi della guerra? (rivistastdio,com)

di Arianna Giorgia Bonazzi

Medio Oriente

Le immagini delle violenze in Medio Oriente arrivano anche a loro. Ha senso proteggerli vietando l’accesso ai social, come suggeriscono alcuni? O è possibile, e giusto, spiegare cosa sta succedendo?

Èdella scorsa settimana la notizia che molte scuole e associazioni di genitori isrealiane stanno consigliando alle famiglie di cancellare i social media dai dispositivi dei loro ragazzi, per proteggerli da immagini scioccanti, come gli appelli disperati degli ostaggi. In seguito, anche le scuole americane e inglesi, preoccupate dalla disinformazione sulla nuova guerra e dai suoi effetti angoscianti, hanno consigliato ai genitori la stessa politica.

Su TikTok, il social ormai invaso da noi vecchi, ma tradizionalmente avamposto dei ragazzini, da dieci giorni a questa parte circolano materiali fake, come video mal tradotti e mal sottotitolati, o immagini appartenenti a guerre e crisi umanitarie del passato spacciate come ultim’ore, tanto che il 14 ottobre la Commissione europea – dopo l’ultimatum già lanciato a X di Elon Musk – aveva dato 24 ore all’amministratore delegato del social cinese per rimuovere i contenuti illegali e fuorvianti (ci sono ancora).

La maggior parte dei siti d’informazione consiglia ai genitori di interrogare i ragazzi sui contenuti visualizzati in questi giorni, e si concentra sulla prevenzione e sull’educazione digitale: aumentare i blocchi per non venire più in raggiunti da immagini sensibili, imparare a riconoscere la contraffazione, o, in ultimissima battuta, rivolgersi ai grandi se si è rimasti sconvolti da qualcosa. Io invece mi preoccupo quasi del contrario. Entro, col suo permesso, nell’account TikTok di mia figlia, e mi imbatto in un video di cattivissimo gusto con tante emoji in lacrime appiccicate sopra a un uomo affranto in camice che abbraccia alcuni parenti.

La scritta catchy dice: un medico rimane scioccato quando si accorge che uno dei bambini arrivati morti in ospedale è suo figlio. Il video è costruito esattamente come i video commoventi acchiappa-click “un bambino vede per la prima volta dopo l’operazione agli occhi,” solo che crea l’effetto opposto. Le immagini, in questo caso, non sembrano corrispondere all’interpretazione fornita. Per quel che vediamo, potrebbe trattarsi benissimo di un dottore che consola i familiari di un ferito. Vorrei spiegare a mia figlia: non c’è nessuna voce di un reporter che attesta la sua presenza sul posto e ne valida la testimonianza; quelle faccine piangenti poi cancellano gran parte dell’ambientazione.

Ma mia figlia non mi ha chiesto niente a proposito di questo o di altri video di neonati fasciati e macchiati di sangue, o di mamme che baciano per l’ultima volta il volto pixellato del loro bambino. Guardo ancora: Kamal, 7 anni, è inquadrato in primissimo piano su una sedia a rotelle, mentre piange e ripete il nome di qualcuno con lo sguardo rivolto in basso. Le didascalie dicono che invoca il fratello maggiore, 14 anni, che giace morto a terra ai suoi piedi, e assieme al quale si era svegliato in piena notte sotto le bombe, mentre quello gridava aiuto. Ma se stanno visualizzando queste cose, perché i ragazzi non ci chiedono niente?

State parlando del nuovo conflitto in corso a scuola? Il prof di storia non è ancora stata nominato, è la risposta laconica del liceale. Sai dove si sta svolgendo la guerra di cui TikTok ti mostra le immagini, chiedo alla minore. Non sono sicura, fa. Me lo dici tu? Allora lo inchiodo davanti ai video YouTube del prof di BarbaSophia, il podcast divulgativo e amichevole che ha avuto così tanto successo negli ultimi anni tra gli studenti abbandonati. Ma perché a scuola non c’è un insegnante, non necessariamente assegnatario della cattedra di storia, che decide di iniziare la giornata aprendo un giornale?

Quando collaboravo con Emergency, durante l’evento annuale in streaming dedicato ai ragazzi delle superiori, i ragazzi mandavano le loro domande in dm. Una diceva: «La scuola non ci aiuta a capire esattamente cosa sia la guerra. Nello studio della storia non si riesce a raccontare la profonda sofferenza causata dalla guerra».

L’associazione ha un’etica molto precisa riguardo al tipo di immagini da condividere, diametralmente opposta al panico sensazionalistico che possono scatenare i social. La primissima campagna sulla guerra del Ruanda era fatta di riquadri neri con la scritta: “Quello che Emergency vede, non ve lo fa vedere” (e non era rivolta ai bambini).

Io non sono sempre d’accordo. Leggo il consiglio dello psicologo intervistato in questi giorni da Cbs News, «parlategli perché non abbiano così tanta paura», e mi dico: ma perché i ragazzini newyorkesi (o italiani) non dovrebbero sentirsi turbati, se altri bambini stanno vivendo questa cosa sulla loro pelle? La famosa foto della bambina del napalm, che fugge nuda e urlante nel villaggio di Trang Bang in Vietnam, comparsa sulla prima pagina del New York Times il 9 giugno 1972, e definita «l’immagine che non doveva essere mostrata di un evento che non avrebbe dovuto accadere», ha tormentato le coscienze delle persone a lungo, e secondo alcuni è stata decisiva per movimentare l’opinione pubblica e mettere fine alla guerra in Vietnam.

Mi rendo conto che però qui il tema è un altro, e riguarda nello specifico i ragazzini sovraesposti allo spettacolo del dolore. Carlo Garbagnati, cofondatore di Emergency, a tal proposito scriveva che «non si è disposti a convivere con gli incubi, ed è fisiologico sottrarsi all’orrore: le forme di questa autodifesa potrebbero diventare la rassegnazione che accetta l’orrore […] o la rimozione che cancella gli incubi».

Non controllando né guidando il consumo di orrore da parte dei nostri minorenni staremmo dunque immunizzandoli dalla capacità di sentirsi coinvolti. Anestetizzando la loro voglia di capire. Se questa roba passa in mezzo al flusso del make-up, dei trick sportivi e delle abbuffate, e posso swappare via, dev’essere qualcosa che non mi riguarda. Ecco forse la fonte di quelle non-domande, di quei silenzi che arrivano molto spesso da ragazzini normali, non da mostri anaffettivi.

D’altra parte, noi tutti, condotti allegramente dai nonni alle domeniche aperte in caserma, tra carrarmati e aerei da guerra, ci chiedevamo a cosa serviva tutta quella ferraglia annunciata da bande e fanfare? È una cosa diversa, certo, ma ricordo bene anche che vivevo le immagini della guerra jugoslava al Tg serale come qualcosa di ineluttabile e lontano, sebbene ogni tanto arrivasse un nuovo compagno di classe che aveva attraversato l’Adriatico in fuga.

Eppure, una sola generazione ci separava dal racconto in prima persona delle bombe: allevati dai superstiti, non potevamo scartare un pezzetto di carne senza che ci venisse ricordata amaramente la fame, non potevamo disprezzare un paio di calze senza che qualcuno ci rinfacciasse il freddo nei rifugi antiaerei. Ma quel freddo, quella fame, e soprattutto quella paura, non sapevamo immaginarli abbastanza.

Dubito che domani Matteo Saudino di BarbaSophia sarà nominato titolare della cattedra di storia della classe di mio o di vostro figlio. E dubito anche che impedirò ai miei figli di continuare a informarsi rischiosamente e maldestramente sui social: mi sembrerebbe totalitario. Tutto quello che posso fare è bussare alle porte delle loro stanze, e chiedere cosa abbiano visto oggi e cosa diavolo stiano capendo. Spiegare quel che ho capito io. E poi confessare che nessuno, evidentemente, ci ha capito abbastanza.