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Polonia, la vittoria delle opposizioni il risultato di una lunga maturazione nella società civile (valigiablu.it)

di 

Sempre divisa ma con il cuore un po’ 
meno a destra. 

Così si è svegliata lunedì mattina la Polonia il giorno dopo quella che resterà una giornata memorabile.

Domenica i seggi elettorali sparsi in tutto il paese e quelli allestiti nei consolati esteri sono stati presi d’assalto da cittadini muniti di tessera elettorale. In palio c’erano le sorti di quelle che qualcuno aveva definito le elezioni più importanti di sempre.

Da una parte il governo conservatore e sovranista guidato da Diritto e Giustizia, in cerca del suo terzo mandato consecutivo, un traguardo mai raggiunto da nessun partito nella storia della Polonia democratica. Dall’altra la scelta progressista ed europeista rappresentata da un trio di partiti: i liberali di Coalizione Civica, i centristi di Terza Via e la sinistra di Lewica.

La Polonia ha scelto di imboccare questa seconda strada e lo ha fatto su una spinta popolare di proporzioni notevoli. Nonostante Diritto e Giustizia si sia confermato primo partito con il 35,4% delle preferenze, i tre partiti di opposizione hanno quasi raggiunto il 54%, quanto necessario per avere la maggioranza.

Il primo ministro Mateusz Morawiecki probabilmente riceverà l’incarico di avviare un percorso esplorativo per la formazione di un governo, in quanto rappresentante del partito più votato, ma le speranze di successo rasentano lo zero. L’unica sponda possibile, l’ultradestra di Konfederacja, ha già fatto sapere di non essere interessata, senza contare che il suo risultato è stato del 7,1%, in ogni caso insufficiente per intavolare qualsiasi discorso.

Quello che resterà impresso di domenica 15 ottobre saranno, soprattutto, le file alle urne e i seggi di Varsavia e Cracovia rimasti a corto di schede elettorali, sintomo di un paese che aveva una gran voglia di cambiare. A recarsi a votare è stato il 74,3% degli aventi diritto, un record nella storia della Polonia post 1989 e un risultato strabiliante per un paese che fino a pochi anni fa non brillava certo per l’adesione al voto. Per fare un esempio, quando Diritto e Giustizia vinse le elezioni nel 2015, a votare era andato solo il 50,9 %.

La vittoria delle opposizioni non nasce oggi

A mobilitare l’elettorato hanno contribuito tanti fattori. Primo tra tutti la rottura del patto sociale tra il governo e i suoi cittadini nell’ottobre di tre anni fa, quando il Tribunale Costituzionale polacco ha emesso una sentenza che è andata a modificare la legge sull’aborto.

Un pronunciamento che andò a privare in maniera pressoché totale alle donne polacche la possibilità di interrompere la gravidanza. All’epoca le proteste di piazza durarono mesi e segnarono uno strappo decisivo con il governo di Diritto e Giustizia, che negli indici di gradimento fino a quel momento viaggiava saldamente sopra il 40%. In pochi giorni crollò di dieci punti. Mai più recuperati.

Quella di Strajk kobiet (Sciopero delle donne), il collettivo femminista che guidò le proteste, è stata un tappa fondamentale nella storia recente della Polonia, nella maturazione di una società più attenta alla parità di genere e in generale alle istanze più progressiste. La genesi del movimento avvenne nel 2016 proprio in occasione di un tentativo, da parte di un comitato pro life, di portare in parlamento un disegno di legge che voleva inasprire la legge sull’aborto.

Scesero a manifestare circa centomila persone, in quella che venne definita czarny protest (protesta nera) e la proposta di legge venne ritirata. Una cosa analoga accadde due anni più tardi, rendendo chiaro che modificare la legge per via parlamentare sarebbe stato impossibile.

Le vicende di Strajk kobiet si sono incrociate e per certi versi anche scontrate con quelle della comunità LGBT, che nello stesso anno – correva il 2020 – si trovarono ad essere il bersaglio della campagna elettorale del presidente uscente Andrzej Duda, in vista delle presidenziali di quell’anno. “Provano a dirci che gli LGBT sono persone. Ma questa è solo ideologia”, aveva dichiarato Duda in uno dei suoi discorsi più contestati.

Qualche mese prima alcuni enti locali, città e voivodati (il corrispettivo delle nostre Regioni), avevano impugnato delle risoluzioni in difesa della famiglia “tradizionale”, inaugurando la stagione delle cosiddette aree libere dall’ideologia LGBT. Sarebbe stato necessario un anno più tardi l’intervento della Commissione europea e la minaccia di blocco dei fondi agli enti locali per far revocare quelle delibere. Passate le elezioni il tema era sfumato dall’attenzione dell’opinione pubblica, ma aveva lasciato un segno, specialmente tra i più giovani.

Queste vicende hanno creato una mobilitazione di cui il governo, impegnato in miopi calcoli politici a breve termine, non è stato capace di tener conto.

Se questa è stata l’onda lunga che ha portato al voto di ieri, un altro fattore determinante è stata la questione europea. Questo è il principale fardello che Diritto e Giustizia lascia dietro di sé e con cui il nuovo governo dovrà avere a che fare.

Lo scontro tra Varsavia e Bruxelles è nato ai tempi del primo mandato di governo, quando è stata messa in atto una serie di riforme che ha intaccato seriamente l’indipendenza della magistratura. Nel corso degli anni la Commissione UE ha utilizzato tutti gli strumenti a sua disposizione, fino al deferimento alla Corte di Giustizia europea.

Il governo polacco, sempre attraverso il tramite del Tribunale Costituzionale ha respinto colpo su colpo alle sentenze della Corte del Lussemburgo. L’apice due anni fa, quando in due diversi pronunciamenti, è stata dapprima delegittimata la stessa Corte di giustizia europea, e successivamente è stato stabilito il primato del diritto nazionale su quello europeo.

La Commissione, per risolvere la questione ha deciso di ricorrere alla leva finanziaria, bloccando i 35,4 miliardi di euro del Recovery Fund che spettano alla Polonia fintanto che il governo polacco non sistemerà la questione sulla giustizia. Come se non bastasse anche i fondi di coesione sono a rischio dopo che è stato introdotto il meccanismo di condizionalità che li lega al rispetto dello stato di diritto.

Le dure sfide che attendono il nuovo governo

La linea del nuovo governo dovrebbe essere diametralmente opposta a quello di Diritto e Giustizia, ma in ogni caso per sbloccare i soldi la nuova maggioranza dovrà mettere mano alle leggi approvate in questi anni. Il principale ostacolo potrebbe essere rappresentato dal Presidente della Repubblica, Andrzej Duda. Lo stesso Duda l’anno scorso fu firmatario di una legge che fu poi ritenuta insufficiente dalla Commissione. E sempre Duda qualche mese fa si è messo di traverso davanti a un altro disegno di legge correttivo rinviandolo al parere del Tribunale Costituzionale, dove si è arenato.

Un altro problema, non da poco, che il nuovo governo dovrà risolvere è proprio quello legato all’assetto del Tribunale Costituzionale, un organo che in una democrazia funzionante ricopre un ruolo decisivo nel sistema di pesi e contrappesi. Proprio per la sua importanza, è stato il primo ad essere catturato – sarebbero caduti in seguito anche la Corte Suprema e il Consiglio Nazionale della magistratura – per essere poi utilizzato a piacimento come clava politica nelle situazioni più disparate.

Il nuovo governo dovrà poi occuparsi del tema dei diritti civili. La sfida più difficile sarà quella relativa alla legge sull’aborto. Passare per via parlamentare sarà quasi impossibile, ma prima di tutto bisognerà trovare un compromesso tra le diverse posizioni dei partiti su questo tema.

Se Lewica sostiene la liberalizzazione, i centristi di Terza Via vorrebbero riportare lo stato di cose alla situazione precedente al 2020, quando l’interruzione di gravidanza era prevista nel caso in cui questa presentasse una grave malformazione del feto, mettesse a rischio la vita della madre, o nei casi in cui il concepimento fosse avvenuto in seguito a incesto o stupro (oggi è prevista solo negli ultimi tre casi). Non sarà facile. La stessa Coalizione Civica ha un approccio molto sfumato sulla questione, essendoci al suo interno correnti più progressiste, come altre più conservatrici. In ogni caso sarà necessario un intervento sul tema, pena la perdita di credibilità di fronte all’elettorato.

Un altro aspetto su cui bisognerà lavorare è quello della libertà di informazione. Una delle prime azioni intraprese da Diritto e Giustizia salito al potere nel 2015, fu quella di mettere le mani su TVP, la tv pubblica. TVP si è rivelata uno strumento di propaganda potente ed efficace che ha polarizzato la società polacca.

Le sue trasmissioni, specialmente quelle informative, sono state accusate di tenere un atteggiamento mistificatorio e denigratorio nei confronti dell’opposizione, ancora di più da quando Donald Tusk è tornato sulla scena politica nazionale. Attraverso TVP Diritto e Giustizia è riuscita a creare una vera e propria narrazione secondo cui Tusk è un uomo asservito agli interessi della Germania a scapito della Polonia. Una sorta di Soros in salsa nazionale.

Riuscire a ripristinare un sistema dell’informazione sano sarà necessario per restituire ai cittadini fiducia nella politica, anche in quella dei propri avversari.

L’ultimo aspetto, forse quello più importante, è proprio quello della riconciliazione. La Polonia è un paese che rimane ancora profondamente diviso tra la sua anima conservatrice e quella più liberale, una divisione figlia della scissione avvenuta all’interno di Solidarność tra i falchi, coloro che avrebbero voluto una transizione dal comunismo alla democrazia che ponesse una cesura netta con il passato, e quella delle colombe, tra cui rientra anche Tusk, che ha sposato la strada della transizione pacifica.

Una divisione che non si è mai ricomposta e che anzi è andata ampliandosi nel corso degli anni. Facendo riferimento a questo, qualche settimana fa il leader liberale ha dichiarato di voler porre finalmente fine alla “guerra polacco – polacca”. Sarà probabilmente la sua sfida politica più impegnativa.

L’autogol degli odiatori del Fact-checking di Open, che cercano di infangarci (e collezionano figuracce) (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

Secondo Affaritaliani «il “cacciatore di bufale” Puente non risulta iscritto all’Odg. Nuovo fronte dopo il caso Fabbri». L’articolo viene condiviso dall’ex Presidente Rai Marcello Foa, senza verifica

No! I Nobel Karikò e Weissman non indossavano le mascherine perché non si fidavano dei vaccini anti Covid (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

La foto utilizzata venne scattata in Giappone nel 2022. Gli utenti ignorano il contesto

Katalin Karikò e Drew Weissman hanno vinto il Nobel per la medicina 2023. Le loro scoperte hanno reso possibile una piattaforma universale per prevenire e curare molteplici patologie, ma soprattutto hanno avuto un ruolo chiave per lo sviluppo dei vaccini a mRNA contro la Covid-19. Diversi utenti, alcuni dei quali seguono le narrative No Vax, stanno condividendo una foto dove i due neo premi Nobel indossano la mascherina tenendo in mano un riconoscimento. Tanto basta per sostenere una nuova narrazione: i due non si fiderebbero dei vaccini anti Covid.

Analisi

Ecco uno dei vari post che condividono la foto con il seguente testo:

“Questa immagine vale più di mille parole: I premi Nobel non si fidano della propria “innovazione” e si affidano invece alla pseudoscienza: i pannolini per il viso.. ” Fonte Dr. Simon Goddek

La fonte del testo e dell’immagine è un post di DatabaseItalia, sito e canale Telegram noto alla sezione Fact-checking di Open (ne parliamo quiqui qui).

Il contesto della foto

La foto non riguarda la premiazione a Stoccolma. Si tratta della consegna del premio Japan Prize 2022, come riportato su Alamy.

La foto è datata 12 aprile 2022. In quel periodo, le regole sul contenimento del virus erano molto chiare. Ad esempio, nel sito Tokyo-harusai.com vengono elencate le misure di sicurezza nel corso dello Spring Festival di Tokyo, aggiornate al 5 aprile 2022. Tra queste c’è l’obbligatorio delle mascherine.

Nelle linee guida per i viaggiatori, aggiornate al 18 aprile 2022 (data di archiviazione disponibile), le mascherine vengono indicate per i luoghi al chiuso e non solo: «You will be expected to wear a mask when indoors or on public transport, as well as in outdoor spaces where you encounter other people, such as in the streets and in urban parks».

L’uso delle mascherine anche da vaccinato

Come spiegato nel nostro speciale del 6 aprile 2021, a seguito della vaccinazione bisogna «continuare ad usare la mascherina e seguire le misure di contenimento del virus finché non verrà vaccinata gran parte della popolazione».

Nell’articolo del 23 luglio 2021, in cui contestavamo le dichiarazioni di Mario Draghi sul tema Green Pass, ricordavamo la possibilità da parte di un vaccinato di poter contagiare. Già all’epoca avevamo spiegato che il rischio di contagio a seguito della vaccinazione è ridotto rispetto a chi non si vaccina e contrae il virus.

Conclusioni

La foto utilizzata per contestare Karikò e Weissman è priva di contesto. Gli utenti sostengono in maniera fuorviante che i due premi Nobel indossino la mascherina per mancanza di fiducia nei confronti dei vaccini contro la Covid-19. La foto riguarda un evento in Giappone dove era obbligatorio l’uso delle mascherine.

La bufala di Luc Montagnier e il Coronavirus manipolato con l’HIV (open.online)

di David Puente

FACT-CHECKING

Il chirurgo plastico Roy de Vita ripropone un vecchio intervento del Premio Nobel, ma le fonti vennero ampiamente smentite

Il Premio Nobel Luc Montagnier, deceduto nel febbraio 2022, viene ancora citato per le sue teorie prive di fondamento scientifico. Di recente, al fine di sostenere la contestata ospitata di Citro da parte di Marcello Foa su Rai Radio1 (analizzata qui), il chirurgo plastico Roy De Vita riporta a galla una teoria infondata diffusa dallo stesso Montagnier nel 2020: quella del “nuovo Coronavirus manipolato con l’HIV”. Di fatto, le fonti citate dal Premio Nobel risultano completamente errate per sostenere la sua teoria.

Analisi

Ecco una schermata dell’intervento di Montagnier all’interno di un recente video di Roy de Vita:

Il video circola dal 2020, quando Montagnier fu ospite del programma . Alcuni post dell’epoca vengono recentemente condivisi rilanciando l’infondata teoria:

Sta facendo il giro del web, e del mondo, un’intervista andata in onda su Cnews al premio Nobel Luc Montagnier, che ha presentato i risultati dei suoi studi sul Coronavirus. Il virologo francese ha spiegato che ci sono gli elementi per ritenere che non si tratta di un virus frutto dell’incrocio tra uomo e animale (bagolino), diffusosi a partire dal mercato del pesce di Wuhan, come affermato ufficialmente dalla Cina. In realtà, per Montagnier, il Covid-19 sarebbe frutto dell’inserimento di piccole catene di Hiv all’interno del virus originario: un lavoro di biologia molecolare realizzato presso un laboratorio di Wuhan e in parte sovvenzionato anche dagli Usa, con l’obiettivo di realizzare un vaccino contro l’Aids.

Le parole di Montagnier ospite di Pourquoi docteur

Diverse testate giornalistiche, incluso Il Riformista, riportarono le parole del Premio Nobel espresse durante la trasmissione francese Pourquoi docteur:

Con il mio collega, il biomatematico Jean-Claude Perez, abbiamo analizzato attentamente la descrizione del genoma di questo virus Rna. Non siamo stati i primi, un gruppo di ricercatori indiani ha cercato di pubblicare uno studio che mostra che il genoma completo di questo virus che ha all’interno delle sequenze di un altro virus, che quello dell’Aids. Il gruppo indiano ha ritrattato dopo la pubblicazione. Ma la verità scientifica emerge sempre. La sequenza dell’Aids è stata inserita nel genoma del coronavirus per tentare di fare il vaccino dell’HIV.

Lo studio farlocco del “collega” di Montagnier

Montagnier cita come “esperto” Jean-claude Perez, dichiarando di aver analizzato insieme al lui il genoma del nuovo Coronavirus. Partiamo da un fatto: c’è una ricerca pubblicata a riguardo, ma risulta assente la firma di Montagnier.

Chi è Jean-claude Perez? Non si tratta di un virologo o di un genetista, ma di un ex ingegnere della IBM che si occupava di biologia teorica. Jean-claude Perez aveva pubblicato, nell’edizione di febbraio 2020 della rivista International journal of research granthaalayah (poi pubblicata a marzo), una ricerca intitolata «Wuhan covid-19 synthetic origins and evolution». Ciò che risulta curioso è che – a parte la ricerca firmata dal solo Perez – tale rivista risulti nella black list delle riviste predatorie redatta dal debunker Jeffrey Beall. Per rivista predatoria si intende una pubblicazione che non esegue una revisione dei contenuti, pubblicando qualsiasi articolo anche a pagamento.

Riportiamo l’analisi della ricerca di Perez pubblicata da Enrico Bucci, Adjunct Professor presso la Temple University di Philadelphia e titolare della società di revisione degli articoli scientifici Resis srl:

In questo articolo si afferma di aver trovato la prova “matematica” della artificialità del genoma del coronavirus. In realtà, si tratta di un indigeribile minestrone di parole, dal significato nullo (per controllo, ho chiesto anche a qualche matematico), il quale ha una caratteristica precipua: quella di essere in buona parte plagiato da precedenti scritti dello stesso autore, in cui le stesse parole sono usate per dimostrare le più varie cose sulle sequenze di Dna umano, dei Neanderthal e di tantissime altre specie. Come se non bastasse, anche le figure che dovrebbero servire a dimostrare quanto sostenuto dall’autore sono riciclate, persino all’interno dello stesso manoscritto: se il lettore volesse divertirsi, confronti per esempio la figura 34 con la 39. In poche parole, il cosiddetto articolo scientifico di Perez, con cui Montagnier ha collaborato anche in occasioni precedenti, è incomprensibile immondizia plagiata (come si può verificare con qualunque software antiplagio), pubblicata su una rivista spazzatura.

Lo “studio” dei ricercatori indiani

Montagnier cita uno «studio» dell’Università di Nuova Delhi del 31 gennaio 2020 intitolato «Strane somiglianze di inserti unici nel coronavirus 19 di proteine di HIV», successivamente ritrattato e ritirato. Non solo, tale teoria venne poi smentita da uno studio pubblicato a metà febbraio 2020 dal titolo «HIV-1 did not contribute to the 2019-nCoV genome». Il Premio Nobel, durante l’intervento nel programma francese, cercò di sostenere lo studio ritirato degli indiani attraverso quello farlocco del “collega” Perez.

Conclusioni

La teoria diffusa da Montagnier sul “nuovo Coronavirus manipolato con l’HIV” risulta di fatto priva di fondamento scientifico. Le fonti citate dal Premio Nobel durante la trasmissione francese sono del tutto inconsistenti, ma soprattutto non vi sono stati ulteriori sviluppi a sostegno delle sue teorie.

FACT-CHECKING / Nomi dei wi-fi polacchi dicono agli ucraini di andarsene? Il video non è prodotto da DW, ma dalla propaganda filorussa (open.online)

di Antonio Di Noto

Il filmato è prodotto in maniera da assomigliare 
a un documentario di DW, 

l’emittente di Stato tedesca

«Alcuni polacchi hanno iniziato a dare ai loro Wi-Fi nomi che intimoriscono i rifugiati ucraini», come «Ukrainians Go Home». Questo è quanto sostiene un video diffuso sui social che sembra essere prodotto da Deutsche Welle (DW), canale d’informazione di Stato della Germania. In realtà, il video non è prodotto da DW, ma dalla propaganda filorussa.

Analisi

Di seguito vediamo uno screenshot di uno dei post oggetto di verifica, assieme alla presunta lista delle reti Wi-Fi. Oltre che su Facebook, il video è diventato particolarmente popolare anche su X, precedentemente noto come Twitter, e Telegram. Nella descrizione si legge:

«In Polonia si sta svolgendo un flash mob anti-ucraino sui nomi Wi-Fi offensivi contro i profughi ucraini. I residenti locali chiamano le loro reti “maiali ucraini”, “l’Ucraina è un inferno”, “assassini dall’Ucraina”, “ucraini, tornate a casa”. Scrivono che gli ucraini sono indignati e stanno cercando di protestare, ma finora senza successo».

Sebbene ne imiti lo stile molto bene, sia nel modo in cui appaiono le scritte in sovraimpressione che nei tempi e nel tipo delle riprese usate, il video non è stato prodotto da DW, come lo stesso gruppo mediatico ha chiarito sul proprio sito. «Il video non è stato prodotto da DW e le sue affermazioni non possono essere dimostrate. Anche il carattere e il posizionamento delle parole utilizzate nel video si discostano dal modello video con marchio DW. La discrepanza è evidente nel confronto fianco a fianco riportato di seguito», scrive l’emittente tedesca mostrando il confronto che riportiamo.

(DW / A sinistra, un vero video di DW. A destra il falso, in cui sia il carattere che il posizionamento non corrispondono al modello video di DW)

Perché il video è prodotto da DW

Uno dei motivi per cui il video sembra autentico è che la narrazione segue una struttura standard seguita da DW e altri media affidabili in tutto il mondo. L’inquadratura iniziale, ad esempio, mostra il mercato nel centro storico di Varsavia, portando gli spettatori sulla scena dell’azione. In effetti, il terzo scatto, una donna con una borsa colorata che tiene per mano un bambino mentre cammina in una stazione ferroviaria polacca (riconoscibile dall’uniforme della guardia di sicurezza ferroviaria), proviene da un servizio della Bbc, fa notare DW. Si nota anche come le pagine di login dei Wi-Fi siano in inglese, piuttosto strano dato che secondo quanto sostiene il video, le scene proverrebbero dalla Polonia.

Conclusioni

Un video diffuso sui social mostra un presunto flash mob organizzato da alcuni cittadini polacchi, che avrebbero cambiato il nome delle reti Wi-Fi pubbliche per intimorire gli ucraini. Il filmato è prodotto in maniera da assomigliare a un documentario di DW, l’emittente di Stato tedesca. In realtà, il video non è prodotto da DW, ma dalla propaganda russa.

L’ipocrita complessità di chi minimizza i crimini di Hamas contro gli ebrei (linkiesta.it)

di

Prendersela con le vittime

Da anni sui social si denunciano patriarcato, femminicidi, cultura dello stupro, consenso, catcalling, femminismo intersezionale, victim blaming, però se di mezzo c’è Israele meglio non spendere mezza parola per le donne stuprate dai terroristi islamici. Questo è antisemitismo

C’è il video di una ragazza con i pantaloni zuppi di sangue che viene presa per i capelli e messa su un camion. Eh, però è complesso.

C’è il video di una ragazza con gambe e braccia rotte su un camion, seminuda, a faccia in giù, non si muove, la toccano, ridono, le tirano i capelli, noi sappiamo cosa è successo. Eh, però è complesso.

C’è il video di una ragazza portata via su una motoretta che urla di non ucciderla, e noi sappiamo cosa succederà. Eh, però è complesso.

C’è una ragazza che ha scritto che sua nonna è stata ammazzata in casa, lo ha scoperto perché chi l’ha ammazzata è entrato nel profilo Facebook della nonna e ha caricato le foto dell’omicidio. Eh, però è complesso.

C’è il video di un bambino israeliano che non avrà più di otto anni che viene umiliato e abusato da suoi coetanei palestinesi. Eh, però è complesso.

Ci sono quasi trecento morti a un festival musicale, chi era lì racconta che le ragazze venivano stuprate vicino ai cadaveri dei loro amici, poi alcune le ammazzavano, altre le hanno lasciate vive, e cosa sia peggio io non lo so e non lo sa nessuno. Eh, però è complesso.

Eh, però è Israele. Israele è un buco, e tutti noi che abbiamo la famiglia che vive là conosciamo almeno una persona a cui è morto un amico o un parente negli ultimi due giorni. Questa guerra non è lo Yom Kippur, non assomiglia a niente di quello che è stata la storia di Israele fino a oggi, e non finirà bene.

Non starò qui a fare analisi geopolitiche perché al contrario di Twitter non ne sono in grado, ma quello che so è quello che mi diceva mia nonna: non finirà mai, e non finirà mai perché la religione non finisce. Da una parte e dall’altra.

Ho visto la gente chiedersi come sia stata possibile l’ascesa di Adolf Hitler, e ho visto che se lo domandavano proprio mentre scandivano la parola “complessità” sotto le foto di ragazze morte, e sono anche piuttosto certa che oggi qualcuno Hitler lo inviterebbe in uno studio televisivo perché è importante esercitare il contraddittorio, il pluralismo, la complessità. Che cos’è l’antisemitismo? Nessuno pare essere più in grado di rispondere, perché se tutto è diventato fascismo, contemporaneamente niente è più antisemitismo. Sarà che è complesso.

Stiamo assistendo a questa grave epidemia di dissonanza cognitiva, o malafede, dove davanti a uno stupro, davanti a estremisti religiosi, davanti ai bambini rapiti, davanti all’Iran che festeggia, ci sono queste persone che insomma, sì è grave, però Israele poteva pure pensarci prima. Le stesse persone, che si percepiscono sempre divulgatrici e Golda Meir, un giorno sì e l’altro pure trovano il tempo, tra la promozione di un podcast e l’altro, di parlarci di: patriarcato, femminicidi, cultura dello stupro, consenso, catcalling, femminismo intersezionale, victim blaming. Eh, però se c’è in mezzo Israele non sono mica sicure che sia il caso dire mezza parola per queste donne, metti che poi qualcuno si risente, metti che il podcast poi va male, metti che avere un’idea si riveli pericoloso.

Non avevo mai visto qualcosa fare veramente il giro come quelle ragazze e quei ragazzi con lo striscione «Queers for Palestina», e io spero per loro che non scoprano mai cosa fa Hamas alle donne se gli fai notare che hanno sbagliato pronome.

In tutti questi anni non era mai capitato che nonostante i video di stupri, esecuzioni, ragazzi ammazzati con una vanga spaccata in testa o decapitati, bambini rapiti, anziani rastrellati, corpi morti portati in giro per le strade, venisse detto in maniera così disinvolta: eh, però è complesso.

Anzi no: è già successo con l’Ucraina. Non avevo mai visto la celebrazione di un massacro in giro per il mondo con così tanti applausi in piazza e da casa, lettere commosse di studenti di Harvard, silenzi di opportunità.

Non avrei mai pensato che davanti alle prove di crimini di guerra, prove documentate in diretta, ci fosse gente che dice che, alla fine, bisogna capire che ci sono dei pregressi. La verità non è mai complessa, la verità è che le vittime di Hamas sono gli israeliani, e sono i palestinesi. Hamas è un’organizzazione terroristica, non è resistenza, non è un movimento di liberazione, non è un gruppo estremista, non rappresenta i palestinesi tutti.

Mio fratello, in questo momento tra le sirene e le bombe, e molto più spiritoso di me, aveva preso parte alle manifestazioni contro il governo Netanyahu portandosi in piazza un sofà, realizzando così il sogno della rivoluzione dal divano. È questa l’unica idea che avrei voluto avere io, in modo da dare la definitiva risposta a chi dice «eh facile parlare dal salotto».

Sì, è facile, ma mai quanto parlare di complessità. Mio fratello ha due figli, il più grande ha circa l’età del mio. L’unico problema attuale di mio figlio è quello di giocare o meno titolare nella squadra di calcio, mentre il problema del figlio di mio fratello è sopravvivere. Chissà se i bambini ne capiscono la complessità.