Il triste trionfo della rassegnazione (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

Da quando abbiamo smesso di desiderare il meglio?

La metafora più sfruttata per descrivere il Festival di Sanremo, dal 1951 a oggi, è stata quella dello specchio del Paese. Un luogo comune buono per tutti gli abusi. Ma se grattiamo appena la sua frusta superficie, si aprono squarci di pura consapevolezza.

Questa edizione, per esempio, è stata caratterizzata dalla rassegnazione. Sul palco dell’Ariston tutto era normale, dalla conduzione ai temi trattati, dalle proposte musicali ai numeri comici. Anche le spezie (un po’ di tv del dolore, un po’ di marmocchi, Benigni in promozione…) sapevano di pigrizia.

Come si spiega allora il grande successo del Festival? Merito di una formula che ha escluso appelli sociali, svolte sovraniste, tentazioni egemoni? Il fatto è che noi stiamo scivolando sempre di più nella rassegnazione, la vera vincitrice del Festival.

Ci lamentiamo ma non chiediamo di più: basta che treni e canzoni siano in orario. Il miglioramento non è più contemplato, nemmeno dai giovani, e ci va bene tutto: nello spettacolo, nella cultura, nella politica.

L’abitudine

Questo funerale della speranza è diventato la nostra comfort zone, grazie anche al lento lavorio dei social dove ci si abitua a tutto e il dissenso scatena solo furie distruttive.

Una rassegnazione in streaming con altre rassegnazioni fa numero, audience, Paese.

I molti complici inconsapevoli del trumputinismo globale (linkiesta.it)

di

Senso delle priorità

Tra liberisti accecati dalla motosega di Milei, liberali abbagliati dalla «riviera di Gaza», libertari felici per la strage degli asterischi la fine della liberaldemocrazia occidentale rischiò di passare quasi inosservata

Tenere il ritmo di tutte le enormità dette, fatte o annunciate da Donald Trump e da Elon Musk nell’arco di ventiquattro ore sta diventando sempre più difficile, ma soprattutto rischia di diventare controproducente.

Sia per la causa, perché finisce per prestare il fianco al tipico vittimismo della destra e alla caricatura di un giornalismo e di una sinistra ossessionati da Trump, sia per me stesso, perché immergersi quotidianamente in quel pozzo senza fondo di aberrazioni è una Cura Ludovico capace di mettere a tappeto anche il più cinico degli osservatori.

Solo ieri, per esempio, Elon Musk ha dichiarato in un tweet: «L’unico modo per ripristinare il governo del popolo in America è mettere sotto accusa (impeach) i giudici. Nessuno è al di sopra della legge, compresi i giudici. Questo è ciò che è servito per sistemare El Salvador.

Lo stesso vale per l’America». Parole con cui Musk ha rilanciato i tweet del presidente populista Nayib Bukele, intento a fare piazza pulita dei giudici sgraditi, a cominciare dalla Corte suprema, problema che peraltro Trump non ha di sicuro, avendo già una larga maggioranza anche lì.

Quanto a lui, ieri ha postato un video fatto con l’intelligenza artificiale che mostra la futura «Trump Gaza». Se non lo avete visto, cliccate qui, perché io davvero non ho parole per descriverlo. Segnalo solo un fotogramma, quello in cui si vedono Trump e Benjamin Netanyahu sdraiati sulla spiaggia uno accanto all’altro.

Non ho intenzione di perdere nemmeno un secondo a spiegare perché le intenzioni di Musk sui giudici siano chiaramente eversive e quelle di Trump su Gaza semplicemente mostruose. Ma sono sicuro che le une e le altre troveranno anche in Italia, per motivi diversi, i loro difensori. Ed è questo il problema di cui vorrei parlare. Perché un giorno, spero non troppo lontano, qualcuno ci chiederà conto delle nostre scelte e dei nostri silenzi di oggi.

Ci chiederanno – come ci siamo chiesti noi tante volte, leggendo i libri di storia, a proposito delle generazioni che ci hanno preceduto – come è stato possibile che non ci siamo resi conto di quello che stava accadendo, del fronte che si andava saldando, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Argentina di Javier Milei all’Ungheria di Viktor Orbán, dal Salvador di Bukele all’Israele di Netanyahu.

E forse l’unica spiegazione sarà che alcuni erano troppo entusiasti dei tagli fiscali, altri erano troppo soddisfatti del sostegno garantito a Israele, altri ancora erano troppo felici per la crociata contro il politicamente corretto e la cultura woke, contro la partecipazione di atlete trans alle olimpiadi o contro lo strapotere dei giudici, per accorgersi di nient’altro.

E fu così che, tra liberisti accecati dalla motosega di Milei, liberali pro-Israele abbagliati dalla riviera di Gaza e libertari inebriati dallo sterminio degli asterischi e degli schwa, la fine della liberaldemocrazia occidentale rischiò di passare quasi inosservata.

(LaPresse)

«I generali russi avevano prenotato i ristoranti di Kiev per festeggiare» (avvenire.it)

di Nello Scavo

Ucraina
Zazo, allora ambasciatore in Ucraina, rivela che pochi giorni prima dell’attacco apprese da alcuni ristoratori che gli ufficiali russi avevano prenotato diversi tavoli: «Credevano di essere accolti»

L’ambasciatore Pier Francesco Zazo(L’ambasciatore Pier Francesco Zazo)

Non solo i “segnali” anche le informazioni sull’imminente attacco russo contro l’Ucraina c’erano tutti. Ma le cancellerie europee non vollero prendere sul serio gli avvertimenti.

Fu in quel contesto che l’allora ambasciatore italiano a Kiev Pierfrancesco Zazo (unico tra gli europei, insieme alle rappresentanze francese e vaticana, a non lasciare mai scoperta la presenza diplomatica) chiese all’Unità di crisi della Farnesina di inviare una missione in Ucraina per approntare i piani di emergenza per l’evacuazione dei connazionali.

Una decisione che si rivelerà indovinata, permettendo di portare al sicuro nonostante il conflitto centinaia di italiani e intanto assistere l’Ucraina sul piano internazionale fin dal primo attacco russo. Nonostante Kiev, fino ad allora, guardasse con diffidenza alle politiche di Roma.

Da luglio 2024 Zazo è in congedo. Le immagini del diplomatico che durante i bombardamenti suonava il pianoforte per i bambini italiani rifugiati nella sua residenza fecero il giro del mondo. E in questa intervista ad “Avvenire” rivela notizie che gettano nuova luce sul conflitto.

Quando si convinse che oramai sarebbe stata questione di ore?

Pochi giorni prima i colleghi americani ed inglesi ci avvertivano che l’invasione era ormai imminente ed inoltre vidi che i russi chiusero la loro Ambasciata bruciando tutti i documenti. Ricevetti poi un’informazione sorprendente da fonti non diplomatiche né di intelligence e che significava due cose: la Russia stava per attaccare l’Ucraina e a Mosca pensavano che sarebbe stata una passeggiata, che a Kiev la gente li avrebbe accolti senza troppo obiettare. Attraverso quella informazione ebbi la conferma che al Cremlino, dove si illudevano ancora che le popolazioni ucraine russofone fossero anche russofile, non avevano compreso nulla dell’Ucraina degli ultimi anni.

Di che genere di notizia si trattava?

Alcuni miei conoscenti ristoratori mi informarono, con loro sorpresa, che un gruppo di cittadini russi, che poi da una successiva verifica risultarono essere dei generali, aveva tranquillamente prenotato diversi tavoli nei loro ristoranti per i giorni successivi lasciando i loro nomi. Proprio le date in cui la guerra è poi effettivamente scoppiata. Evidentemente pensavano di non incontrare resistenza e di poter soggiornare nella capitale ucraina come se si trovassero a Mosca.

Lei come aveva visto cambiare invece l’Ucraina?

Ho potuto fare tesoro delle mie precedenti esperienze diplomatiche sia a Kiev, oltre venti anni fa dal 1999-2002, e successivamente a Mosca. Mi ha poi facilitato parlare il russo. Venti anni fa era un Paese diviso a metà: l’Ucraina occidentale guardava all’Europa, quella orientale alla Russia. Ma la prima cosa che ho subito notato al mio ritorno a Kiev dopo oltre venti anni è stato vedere un Paese profondamente cambiato, rafforzato nella sua identità nazionale, anche a causa del trauma provocato dall’annessione della Crimea e della guerra nel Donbass dal 2014 e delle continue minacce di Putin. Mi avevano soprattutto colpito le giovani generazioni che guardano all’Occidente, sono attratte dall’Europa e non dal modello autoritario offerto dalla Russia. Non è un caso che alle ultime elezioni i partiti filorussi avessero raggiunto solo il 13 % dei voti (in maggioranza espressi da persone anziane).

Nel 2021 proprio il presidente russo pubblicò un controverso documento sull’unità storica delle genti di lingua russa. Come venne recepito?

Per me fu il vero campanello d’allarme. Parlava dell’unità storica del popolo russo e di quello ucraino. Intendeva dimostrare l’appartenenza all’unico popolo russo, negando la legittimità dell’esistenza di uno stato ucraino indipendente e separato dalla madrepatria russa. Quello che molti non comprendono è che in Russia la storia è politica. E il mito fondamentalista del “russkiy mir” (mondo russo) è la chiave di lettura per capire a cosa ambisce Putin.

Quali erano i suoi rapporti con la leadership ucraina? Come vedevano l’Italia prima della guerra?

Il mio lavoro sul piano diplomatico è diventato paradossalmente molto più facile dopo il 24 febbraio 2022. Prima della guerra eravamo considerati “un po’ troppo vicini ai russi nonostante i rapporti di amicizia tra i nostri due Paesi”, secondo le parole usate da Zelensky alla presentazione delle mie lettere credenziali. Ma dopo l’aggressione russa la politica estera italiana è cambiata radicalmente in 24 ore. Abbiamo adottato una posizione filoucraina e siamo diventati un partner affidabile di Kiev con relazioni bilaterali eccellenti, prima grazie al premier Mario Draghi e poi con l’attuale governo Meloni che ha confermato la politica di massimo sostegno e gli ucraini ci sono anche grati per l’eccellente conduzione della Presidenza italiana del G7.