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“Detassare i salari”. Sbarra incalza Landini: sindacati fuori dalla politica

di Mario Benedetto

Il dibattito sul superbonus si innesta su uno 
scenario economico che vede rimanere in primo 
piano le esigenze delle imprese e la questione 
lavoro. 

Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, in un colloquio con Il Tempo ha commentato le prossime sfide che il Paese dovrà affrontare, puntando a creare sinergie e convergenze importanti per tutti.

Segretario, il prezzo del gas comincia a calare grazie alle misure assunte dal governo. Con l’inflazione oltre il 10 dieci per cento..

«La conquista del price cap sta cominciando a dare i suoi frutti, così come sono importanti gli accordi con altri paesi importatori come Algeria e Libia. Ma gli scudi di protezione alzati in questi mesi vanno confermati e consolidati, rifinanziando i tagli alle accise, mettendo sotto controllo le tariffe pubbliche e monitorando i prezzi dei beni energetici ed alimentari di largo consumo. Va rafforzata l’autonomia energetica dell’Europa e del nostro Paese».

Per sostenere i salari che cosa chiedete di preciso?

«Occorre un patto anti inflazione tra governo e parti sociali per ristabilire la piena indicizzazione all’inflazione di pensioni e salari. Bisogna rinnovare i contratti pubblici e privati, ma defiscalizzando al 100 per cento i frutti della contrattazione.

E poi dobbiamo ridurre il cuneo fiscale di almeno 5 punti nella parte lavoro, restituire le risorse drenate del fiscal drug e promuovere incrementi di produttività da redistribuire sulle retribuzioni».

Il premier Giorgia Meloni ha annunciato una legge delega che toccherà tutti i settori della fiscalità e che metterà al centro anche i dipendenti e i pensionati, con misure ad hoc.

«Dobbiamo aprire un confronto per redistribuire il carico impositivo secondo il principio della progressività, troviamo con molte aziende virtualmente ricche, ma con i cassetti pieni di crediti sulla carta. Il pericolo sui livelli occupazionali è enorme: sono oltre 100mila posti di lavoro.

Si possono scatenare effetti pesanti sulla tenuta occupazionale e di desertificare un patrimonio di professionalità fondamentale per la ripresa del paese. Bisogna rivedere in maniera selettiva i bonus, garantendo i redditi più bassi.

Il Governo deve convocare i sindacati dei lavoratori edili e non solo le associazioni professionali, per trovare una soluzione equilibrata che salvaguardi occupazione, risanamento del patrimonio immobiliare, tutela dell’ambiente, politica industriale».

La Cisl parla di un patto sociale ma da Cgil e Uil sembrano comportarsi diversamente..

«Non è surrogando il ruolo della politica che il sindacato l’aiuterà. Al sindacato il dovere di negoziare con governi di ogni colore e di portare i migliori risultati possibili alle persone che rappresenta. Questo non vuol dire ovviamente mettere da parte il conflitto, ma cercare sempre, prima di rompere, le condizioni del dialogo.

La Cisl ha presentato alcuni mesi fa a tutti i partiti una sua “agenda sociale” con una idea rinnovata di concertazione e di governo condiviso delle riforme economiche e sociali. Tra qualche giorno lanceremo anche la sfida di una legge di iniziativa popolare sulla partecipazione per attuare l’articolo 46 della Costituzione».

Niente più vendita di auto a benzina e diesel nell’Ue dal 2035. Siete d’accordo?

«È essenziale governare insieme questo passaggio, con un intervento concertato e organico sull’automotive e, più in generale, sulla politica industriale dell’Europa e del nostro Paese.

Significa, sbloccare massicci investimenti su innovazione, politiche energetiche, ecosistemi e infrastrutture nelle nostre città. Va istituito un fondo sovrano europeo per una transizione tutelata, per accompagnare le riconversioni industriali, proteggendo, rilanciando e riqualificando l’occupazione.

Né possiamo lasciar andare i nostri lavoratori in cassa integrazione e importare le batterie dalla Cina: in gioco c’è il destino di oltre 70mila lavoratori, ai quali si aggiungono gli occupati dell’indotto».

Tre anni dopo il virus non fa (quasi) più paura: è come l’influenza (avvenire.it)

di Viviana Daloiso

Covid-19

Cosa dicono gli esperti e cosa testimoniano i dati sul Sars-Cov-2. Il 20 febbraio 2020 la prima diagnosi

Alzi la mano chi ricorda che, sì, c’è stato un tempo in cui ci si contava il sabato sera prima di sedersi a tavola insieme a mangiare una pizza. Per entrare al ristorante occorreva mostrare il Green pass e indossare la mascherina, rigorosamente Ffp2, finché il piatto non era servito. La stessa mascherina senza cui era impossibile andare ovunque: al supermercato, dal panettiere, al cinema. E poi le file per i tamponi in farmacia, la conta dei giorni in quarantena, lo studio dei nuovi e sempre diversi Dpcm.

Sembra trascorso un tempo infinito da quando il Covid era emergenza nazionale, e non solo il primo Covid, quello di Wuhan, che ci ha chiuso in casa mesi e ci ha fatto temere che tutto fosse finito, per chissà quanto tempo. In questi giorni i media ripercorrono le tappe di quanto accaduto tre anni fa, nel 2020: i primi casi a Roma (era fine gennaio), il paziente zero a Codogno (Mattia, si chiamava, e fu ricoverato il 20 febbraio), il grande lockdown (incominciato domenica 8 marzo).

Ma appena l’anno scorso, sempre a febbraio, lottavamo ancora contro la misteriosa, contagiosissima variante Omicron, certi che nemmeno i vaccini sarebbero bastati. E che tutto sarebbe ricominciato daccapo.

Non è andata così. La fase di endemizzazione del virus – quella che in gergo più popolare è stata ribattezzata “di convivenza” – non ha fatto in tempo ad essere evocata che già il mondo, e l’Italia con lui, del Covid aveva deciso di liberarsi: una scelta unilaterale all’inizio, nel 2021, con gli stadi stracolmi di tifosi agli Europei di calcio e le Olimpiadi, con l’estate della liberazione e la marcia a tappe forzate di abolizione delle restrizioni. Il tutto mentre l’Occidente (e solo lui) si vaccinava a tappeto e il Covid ancora impazzava.

Finché nel corso del 2022 si è tolta anche da noi la mascherina al chiuso, il Green pass è stato cancellato, le scuole hanno riaperto in presenza senza se e senza ma (decisioni del governo Draghi). E poi è stata abolita la conta quotidiana dei casi e dei morti, riabilitato chi il vaccino l’aveva rifiutato anche tra i medici, sono state sospese le multe (decisioni più recenti, e molto più discusse, del governo Meloni). In una parola, si è tornati alla normalità.

Quello che nel frattempo accadeva al virus però ci è, per lo più, sfuggito. I bollettini del ministero della Salute hanno continuato a offrirci una fotografia soltanto parziale dell’andamento reale dell’epidemia (viziata dall’andamento troppo variabile dei tamponi effettuati e dai dati forniti in modo disordinato e disomogeneo dalle Regioni), il monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità a inquadrare la situazione una settimana dopo rispetto a quella in corso (ciò che assomiglia a un’era geologica in tempi di pandemia), il sequenziamento dei campioni a confermare la diffusione delle nuove varianti già in atto nel Paese (più che ad anticiparla e consentire di prevenirla).

Fino ad oggi, quando a livello nazionale tutti gli indicatori sono in costante, drastico calo e la domanda che sempre più insistentemente ci si pone, tra esperti e non esperti, è: ma il Covid se ne sta andando? Sta scomparendo? « I numeri relativi agli ospedali ci dicono che i posti occupati in terapia intensiva da pazienti Covid in questo momento sono 179, molto vicino ai minimi osservati in alcuni (pochi giorni) di settembre 2022 (pari a 125) e molto lontano dai circa 1.500 posti occupati a inizio febbraio 2022», osserva Antonello Maruotti, che è Ordinario di Statistica presso l’Università Lumsa di Roma e da sempre analizza nei numeri il reale andamento della pandemia.

«Il medesimo andamento lo si ha per le ospedalizzazioni nei reparti ordinari: attualmente i posti occupati sono 3.712, non lontano dal minimo degli ultimi 12 mesi registrato a settembre (3.293 posti occupati) e lontanissimi dai 19mila del 4 febbraio 2022». Per quanto riguarda i decessi, «l’ultima settimana ha registrato due dati anomali ed elevati. Tuttavia, anche questo indicatore non desta preoccupazione (al netto del fatto che la gente muore ancora e continuerà a morire di Covid)».

Questo perché il virus esiste, ci accompagna, e «non arriveremo mai a zero Covid in relazione al contagio. Possiamo dire, tuttavia, che non siamo lontani allo zero Covid in termini di gravità, con gli indicatori ospedalieri che continueranno a scendere, a meno di nuove varianti che al momento però non sono ancora osservate» … leggi tutto

Il flop del reddito di cittadinanza: spesi 26 miliardi per non creare lavoro

di Pietro De Leo

Fughiamo via ogni dubbio: vero che il reddito 
di cittadinanza, bonificando soldi freschi 
nel forziere personale dei beneficiari, 

ha garantito un efficace contrasto alla povertà specie nel periodo della pandemia. Per quanto, la povertà, non sia stata per nulla sconfitta, come voleva un racconto demagogico fatto di esultanze in terrazzino e semplificazione esasperata. S’era allo zenith dell’abbraccio del Paese con il Movimento 5 Stelle del gadgettismo elettorale giocato sulle pubbliche necessità ed emotività.

Ora, però, siccome affiancheremmo volentieri a questo anche la pubblica memoria, ricordiamo che il reddito di cittadinanza avrebbe dovuto costituire uno strumento di inclusione al lavoro. In questo senso, dunque, missione fallita. Con effetti, peraltro, negativi. Così i circa 26 miliardi che dal 2019 al 2022 sono stati pompati per alimentare l’assegno non hanno creato nessun innesco nell’occupazione di chi aveva bisogno.

Anzi, andando sui dati, l’Anpal nell’ottobre scorso segnalava che a circa tre anni e poco più dall’introduzione del beneficio, nemmeno il 19% dei percettori in grado di lavorare (18,8 per la precisione) aveva un impiego. Appena il 42,5%, invece, aveva sottoscritto il patto per l’impiego presso i centri.

Peraltro, nel novero di quanti hanno trovato lavoro non è nemmeno facilmente quantificabile chi lo ha fatto attraverso i centri per l’impiego e i navigator: secondo uno studio Inapp (Istituto di analisi politiche pubbliche) sarebbe appena il 4% del totale.

Niente da fare, poi, per quel sistema digitale teorizzato da Domenico Parisi (il professore venuto dall’America e per un certo tratto alla guida dell’Anpal) per l’incrocio tra domanda ed offerta di lavoro. Nessun balzo in avanti per percorsi di formazione destinati ai percettori con bassissima formazione (che erano circa 2 su tre).

Così come i Puc, progetti di utilità collettiva. Sono quei piani che i comuni avrebbero dovuto attivare per coinvolgere i percettori in lavori socialmente utili, ma soltanto un ristretta minoranza degli enti si è premurata di metterli in campo. Certo, non è colpa di nessun governo, ma anche questa lacuna si colloca nel novero di un sistema che non ha funzionato.

Così come non è certo trascurabile un altro aspetto: le frodi, le indebite percezioni. Certo, parliamo di circa l’1% rispetto alla platea totale di oltre 3 milioni e mezzo di beneficiari. E però il racconto delle violazioni, che hanno coinvolto killer di mafia, spacciatori, addirittura reduci del terrorismo rosso, ha fatto maturare l’idea, non proprio lusinghiera, di una quota di profittatori a scapito di chi lavora onestamente o soffre per l’indigenza vera.

Così come, sul piano occupazionale, è emerso un altro nodo che ha alimentato, e non poco, il dibattito. Molte associazioni d’impresa, nel corso degli anni, hanno denunciato la difficoltà nel reperimento di manodopera stante l’effetto disincentivante dello strumento. Tesi, ovviamente, respinta al mittente dai sostenitori della misura.

E però c’è un dato, di un recente studio Unioncamere, che pare suffragare la tesi dei critici: il mismatch per le posizioni di bassa o nessuna qualifica è arrivato al 34%. Prima dell’ingresso del reddito era del 19%.

E non va trascurato, nel quadro complessivo, nemmeno il “lascito” di una procedure di infrazione Ue per via del requisito di 10 anni di residenza in Italia, che secondo la Commissione sarebbe discriminante.